Nella guerra all'islam radicale quella neocon resta l'unica strategia disponibile un saggio di Joshua Muravchik
Testata: Il Foglio Data: 11 ottobre 2007 Pagina: 1 Autore: Joshua Muravchik Titolo: «ORGOGLIO E PREGIUDIZIO NEOCON»
Dal FOGLIO dell'11 ottobre 2007
Le difficoltà incontrate dall’America in Iraq hanno forse suonato la campana a morto per il neoconservatorismo, ossia per l’ideologia politica che si ritiene essere la causa stessa della nostra presenza in questo paese? Nel corso dell’ultimo anno non sono certo mancate voci in tal senso, molte delle quali con non mascherata soddisfazione. All’estero, il Times di Londra ha annunciato “la fine di un’èra ideologica a Washington”, mentre il Toronto Globe e il Toronto Mail hanno scritto compiaciuti che il neoconservatorismo è stato “definitivamente spazzato via”. Qui in patria molti osservatori si sono dichiarati d’accordo. Secondo lo storico Douglas Brinkley, le vittorie elettorali dei democratici nel novembre del 2006 hanno segnato “la morte del movimento neoconservatore”, mentre John Derbyshire, su National Review Online, ha scritto che “a detta di tutti, il neoconservatorismo è morto e sepolto” (…). Ma è in gioco ben più che una semplice parola. Il discredito in cui è caduto recentemente il neoconservatorismo deriva da vari fattori: che le sue idee hanno influenzato la guerra del presidente George W. Bush contro il terrorismo; che le politiche da esso ispirate sono completamente fallite; e che questo fallimento dimostra che tali idee sono frutto di illusioni e fantasie. Questo verdetto può essere accettato o controbattuto, e in tal caso bisogna iniziare identificando le idee stesse. Ciò, a propria volta, richiede un riesame della storia come è stata finora raccontata. Il termine “neoconservatore” è stato coniato negli anni Settanta con il significato di un anatema. Con questa parola si intendeva stigmatizzare un gruppo di intellettuali liberal che si erano staccati dalla maggioranza dei loro compagni di partito. Essendo una propaggine eretica del liberalismo, il neoconservatorismo si richiamava agli stessi valori e aveva in gran parte gli stessi obiettivi, come, per esempio, la pace e l’uguaglianza razziale. Ma i neoconservatori sostenevano che le politiche liberal (per esempio, il disarmo come mezzo per realizzare la pace, o l’affirmative action come mezzo per realizzare la parità razziale), anziché servire al conseguimento di tali obiettivi, non facevano altro che renderli di più difficile realizzazione. In breve tempo, questo gruppo di eretici si affermò come il più formidabile nemico del liberalismo. Il neoconservatorismo è stato alimentato da due distinte correnti. La prima si è concentrata sulle questioni interne, e precisamente in un riesame dei programmi della Great Society e del welfare state nel suo complesso. Questa corrente ruotava attorno alla rivista quadrimestrale The Public Interest, fondata e diretta da Irving Kristol. La seconda corrente si è dedicata alle questioni internazionali e alla guerra fredda; ruotava attorno alla rivista Commentary ed era guidata dal suo direttore, Norman Podhoretz. E’ stata la corrente di politica estera ad essere fin dall’inizio maggiormente coinvolta in polemiche ideologiche. Da un lato, la posta in gioco era più alta. Se una politica interna fallisce, se ne può provare un’altra. Se invece fallisce una politica estera, ci si può ritrovare in guerra. Dall’altro, le battaglie che hanno lacerato il partito democratico negli anni settanta, in un periodo in cui quasi tutti i neoconservatori erano ancora democratici, riguardavano principalmente la politica estera. Queste battaglie hanno affilato gli artigli di tutti i combattenti. Le divisioni sono state prodotte dalla guerra del Vietnam. Non che i neoconservatori fossero dei falchi; alcuni, compreso Podhoretz, erano delle colombe. Ma quando gli oppositori della guerra hanno cominciato a sostenere che non si trattava semplicemente di un caso fallito di una politica sostanzialmente corretta (vale a dire, resistere all’espansionismo comunista) ma anche di un sintomo di una grave malattia dell’America, i neoconoservatori non lo hanno accettato. Quali che fossero i problemi che ci eravamo creati in Vietnam, le origini del conflitto non andavano cercate nell’imperialismo americano o in quella che il presidente Carter avrebbe definito la nostra “confusa paura del comunismo”, bensì nello sfrenato desiderio dei comunisti di dominare il mondo. A differenza di Carter e della sinistra pacifista, i neoconservatori ritenevano che il comunismo doveva effettivamente essere temuto, detestato e combattuto. Consideravano l’Unione Sovietica, per citare le parole di Ronald Reagan, un “impero del male”, spietatamente crudele con i propri sudditi e predatorio nei confronti di tutti coloro ancora non sottoposti al suo dominio. Trassero ispirazione dal romanzo 1984 di George Orwell, un libro che (come hanno scritto gli studiosi irlandesi James McManamara e Dennis J. O’Keeffe) ha riportato in vita l’idea del male come “categoria politica”. E accolsero l’avvertimento dello scrittore e dissidente russo Aleksandr Slozhenitsyn, secondo il quale era sbagliato lasciare spazio ai comunisti nella vana speranza che “forse, in qualche momento, il lupo si sentirà sazio”. Nella storia del nostro paese, molti politici e molti studiosi hanno fatto una netta distinzione tra i sentimenti degli americani e l’interesse nazionale dell’America. Per quanto riguarda il comunismo, i neoconservatori vedevano le due cose in modo inseparabile una dall’altra. Il comunismo doveva essere combattuto sia perché era moralmente inaccettabile sia perché era una minaccia per il nostro stesso paese. Proprio per questa loro appassionata battaglia contro il comunismo, i neoconservatori furono accusati di essere degli “zeloti” e dei “manichei”. A questa accusa un neoconservatori rispose con queste parole: “Ci troviamo di fronte a una realtà di tipo manicheo”. Il che significa che nella battaglia tra il mondo comunista e l’Occidente si fronteggiavano, da una parte, alcuni dei regimi più crudeli e violenti mai creati dall’uomo, e, dall’altra, alcuni dei più umani e tolleranti. Le conseguenze morali erano di conseguenza enormi. Fu questo atteggiamento a isolare i neoconservatori dalla maggioranza dei conservatori tradizionali. Senza dubbio, alcuni intellettuali di destra, come William F. Buckley e Whittaker Chambers, condividevano l’odio dei conservatori nei confronti del comunismo. Ma il conservatorismo tradizionale era meglio rappresentato dall’approccio dei presidenti Richard Nixon e Gerald Ford, nonché dal loro mentore di politica estera, Henry Kissinger, secondo il quale l’Unione Sovietica era semplicemente un’altra superpotenza e non il focolaio di un’ideologia mortale: la politica del disgelo fu il frutto di quest’impostazione. Fu soltanto con l’elezione di Ronald Reagan a presidente degli Stati Uniti nel 1981 che i neoconservatori fecero pace con il conservatorismo di stile repubblicano. Reagan piazzò numerosi neoconservatori (in particolare Jeane Kirkpatrick, Richard Perle, Max Kampelman e Elliott Abrams) in posizioni chiave della sua amministrazione nel settore della politica estera (nonché della politica interna, con figure come William J. Bennett e altri). Col tempo, quasi tutti i neoconservatori si spostarono nello schieramento repubblicano. Quanto all’approccio “belligerante” di Reagan sulla guerra fredda, fu criticato apertamente sia dai liberal sia dai conservatori presenti all’interno dell’establishment della politica estera, e altrettanto apertamente sostenuto dai neoconservatori. Ma non c’è il minimo dubbio sul fatto che quest’approccio risultò vincente: il potente bisonte sovietico, dotato di una capacità distruttiva ben superiore a quella degli Stati Uniti o di qualsiasi altro stato in tutta la storia, capitolò senza quasi sparare un colpo. All’inizio degli anni Novanta, quindi, i fatti sembravano dare ragione alle tesi dei neoconservatori. Ma, allo stesso tempo, la causa che li aveva uniti e definiti (la Guerra fredda) era ormai scomparsa dalla scena. In questi anni, relativamente tranquilli, l’attenzione della nazione si rivolse quasi esclusivamente sul problema delle tasse, dei bilanci e analoghe questioni di politica interna. Nel 1996 Podhoretz proclamò che il neoconservatorismo era “morto” e che “era stato ucciso non dalla sconfitta ma dalla vittoria; era morto non per il proprio fallimento ma per il proprio successo”. Di conseguenza, “in politica estera è diventato impossibile definire la posizione del neoconservatorismo”. Questo, a mio giudizio, significa non riconoscere che i presupposti di un approccio specificamente neoconservatore alla politica estera post-guerra fredda stavano già prendendo forma. Nel 1990-1991, i neoconservatori si unirono ai conservatori tradizionali presenti nell’amministrazione Bush per sostenere l’intervento militare in Iraq allo scopo di obbligarlo a ritirarsi dal Kuwait. A quel tempo, quasi tutti i liberal si opposero all’uso della forza, e lo stesso fecero alcuni cosiddetti paleoconservatori come Patrick J. Buchanan e Robert Novak, nonché numerosi libertari. Altrettanto rivelatrice dei dibattiti tra oppositori e sostenitori della guerra fu una divisione che si aprì nelle file dei secondi dopo la conclusione del combattimenti. Con un atto di tipico “realismo”, il presidente Bush si rifiutò di ordinare alle forze americane di occupare Baghdad e rovesciare Saddam Hussein o anche soltanto di impedirgli di scatenare una campagna di repressione contro gli iracheni che si erano ribellati al suo dominio. Quasi tutti i neoconservatori criticarono questa decisione. Nel 1992 il realismo dell’amministrazione Bush si manifestò nuovamente in occasione del conflitto in Bosnia. Il presidente lo definì un semplice “singhiozzo” e James Baker, il segretario di Stato, dichiarò che l’America “non aveva alcun interesse in questo conflitto”. Quando la nuova amministrazione Clinton si dimostrò altrettanto incapace di agire, mentre la guerra mieteva sempre più vittime, si formò un gruppo di pressione a sostegno di un intervento americano. Quasi tutti i membri di questo gruppo erano neoconservatori, e la loro posizione fu condivisa anche da altri neoconservatori, con la notevole eccezione in particolare di Charles Krauthammer. La maggior parte dei conservatori tradizionali, invece, ritenevano che gli interessi dell’America non erano tali da richiedere un intervento. Molti liberal, a propria volta, pur condividendo l’opinione che si dovesse fare immediatamente qualcosa per la Bosnia, erano caratteristicamente riluttanti all’uso della forza o a un intervento non condotto sotto l’egida della Nazioni Unite. Dopo la Bosnia, nella seconda metà degli anni Novanta la principale questione di politica estera è stata l’allargamento della Nato. Liberal e conservatori erano schierati su diversi fronti. Ma quasi tutti gli esponenti neoconservatori, con la notevole eccezione di Richard Pipes, si dichiararono a favore dell’allargamento. Io stesso ho lavorato con Jeane Kirkpatrick e Paul Wolfowitz (e due democratici, Anthony Lake e Richard Holbrooke) per scrivere una dichiarazione, firmata da quasi tutti i più importanti ex funzionari di politica estera, che ha contribuito a decidere definitivamente il dibattito. Questa serie di eventi indica la presenza di una sorta di visione comune neoconservatrice che si è mantenuta anche oltre gli anni della Guerra fredda. Quali sono dunque i suoi elementi fondamentali? Innanzitutto, nel solco di Orwell, i neoconservatori sono estremamente sensibili alle questioni etiche. Proprio come disprezzavano il comunismo, detestavano anche Saddam Hussein e Slobodan Milosevic e non accettavano ciò che questi dittatori avevano compiuto in Kuwait e in Bosnia. E non si limitavano soltanto a esprimere giudizi negativi; non esitavano affatto nemmeno a manifestare le proprie simpatie. In particolare, si dichiaravano appassionati ammiratori dell’esperienza americana – ammirazione che nasceva non da un patriottismo acritico (avevano tutti iniziato la propria carriera politica come riformisti o addirittura come critici radicali della società americana) ma dal riconoscimento che l’America aveva proceduto sulla strada della realizzazione dei valori liberali più innanzi di qualsiasi altra società di tutta la storia. Come corollario di questa opinione vi era la convinzione che l’America fosse una forza per il bene del mondo nel suo complesso. In secondo luogo, e in comune con molti liberal, i neoconservator erano internazionalisti, e non soltanto per ragioni etiche. Seguendo l’esempio di Churchill, erano convinti che se li si tolleravano in un luogo, i soprusi si sarebbero facilmente verificati anche in altri luoghi, e, analogamente che politiche e riforme economiche efficienti si sarebbero diffuse per “effetto domino”. Poiché la sicurezza dell’Americapoteva essere minacciata da fatti che avvenivano in luoghi lontani, era opportuno affrontare i problemi tempestivamente, anche se in luoghi remoti, anziché aspettare che si diffondessero e maturassero in luoghi ben più vicini a casa. Terzo, i neoconservatori, al pari, questa volta, di quasi tutti i conservatori, confidavano nell’efficacia della forza militare. Non erano affatto convinti che le sanzioni economiche o la diplomazia delle Nazioni Unite fossero in sé stesse alternative adeguate a un confronto diretto con l’avversario. Questa mescolanza di opinioni e atteggiamenti plasma ancora la mentalità neoconservatrice. Lo storico Max Boot l’ha definita “Wilsonismo muscolare”. Questa definizione non si accorda facilmente con la tradizionale distinzione tra “realisti” e “idealisti”. E’ in effetti idealisti nel suo internazionalismo e nelle sua fede nella democrazia e nella libertà, ma è estremamente determinata, per non dire ostinata, nel suo atteggiamento nei confronti dei nemici e nella sua valutazione delle organizzazioni internazionali. E il suo idealismo non deve essere confuso con l’idealismo dello schieramento “pacifista”. Nel corso del XX secolo, tutti i sistemi escogitati per mantenere la pace (la Lega delle Nazioni, le Nazioni Unite, il Trattato che dichiara illegale la guerra, il controllo sugli armamenti) si sono dimostrati inutili. Nel frattempo, ciò che ha effettivamente contribuito ad assicurare la pace è stata una cosa ben diversa: la forza, le alleanze e la deterrenza. Al contrario, i progetti “idealisti” per la promozione non della pace ma della libertà (autodeterminazione per i popoli europei dopo la prima guerra mondiale, decolonizzazione dopo la secondo, democratizzazione di Germania, Giappone, Italia e Austria, sostegno globale ai diritti umani) hanno dato ottimi risultati. Che si possa o meno individuare una specifica posizione neoconservatrice durante i relativamente tranquilli anni Novanta, tutto è radicalmente cambiato dopo l’11 settembre 2001. Non appena il presidente George W. Bush ha scatenato la sua “guerra contro il terrore”, si è diffusa la voce che lui stesso fosse caduto preda dei neoconservatori. Ciò che ha dato plausibilità a questa tesi è il fatto che il nuovo approccio di Bush ha rappresentato una svolta radicale rispetto al suo precedente atteggiamento. Meno di un anno prima, era salito alla Casa Bianca mostrando ben poco interesse per le questioni internazionali e proclamando che l’America doveva essere una “nazione umile”, con pochi impegni di carattere globale. Nella sua amministrazione i neoconservatori in posizioni di rilievo si contavano sulla punta delle dita. C’è una involontaria ironia nella caricatura liberal post-11 settembre di Bush e di Cheney come politici che avevano ingenuamente permesso che le politiche della propria amministrazione fossero dirottate da un manipolo di sinistri intellettuali – infatti, meno di un anno prima, loro stessi erano stati accusati di avere manipolato le elezioni e aver sottratto la presidenza ad Al Gore. Ma questa non è la sola accusa grottesca levata contro il presidente. Si è anche insinuato che questi “neoconservatori” erano in realtà un gruppo di ebrei che stavano cercando di influenzare la politica estera statunitense a vantaggio degli interessi di Israele. Quest’ultima calunnia non teneva conto del fatto che la posizione dei neoconservatori sul conflitto medio-orientale era perfettamente coerente con la loro posizione generale su tutti i conflitti, in qualsiasi parte del mondo, compresi luoghi dove Israele o gli ebrei non potevano avere alcun interesse in gioco – per non parlare del fatto che anche i neoconservatori non-ebrei hanno assunto le medesime posizioni dei loro colleghi ebrei. Nonostante l’assurdità di queste conspiracy theory e il vizio della loro origine, rimane innegabile che la dichiarazione di guerra di Bush contro il terrorismo era animata da uno spirito prettamente neoconservatore. Si basava infatti su un principio etico, con tanto di definizione del nemico come “malvagio” e affermazione della ragione dell’America. Come ha scritto Norman Podhoretz nel suo nuovo libro, Bush ha offerto “una affermazione assoluta sulla possibilità e la necessità di un giudizio etico nel campo degli affari mondiali”. Il suo è stato un approccio internazionalista: considerava l’intero pianeta come il proprio campo di battaglia e cercava di affrontare il nemico lontano dalla nostra patria. Presupponeva un imponente uso della forza. E, quanto agli aspetti non militari della sua strategia, Bush ha adottato l’idea della promozione della democrazia in medio oriente nella speranza che ciò avrebbe prosgiugato le paludi in cui si alimenta il terrorismo. Cosa ancora più importante, il sostegno di Bush alla democrazia ha dato immediatamente frutti positivi in tutta la regione. I libanesi hanno costretto le forze siriane a ritirarsi dopo trent’anni di occupazione. Con una svolta senza precedenti, in Egitto, Arabia Saudita, Kuwait e altri stati arabi (compresa l’autorità palestinese e soprattutto l’Iraq) si sono tenute elezioni. La Lega araba ha espresso il proprio impegno per il “rafforzamento della democrazia, la diffusione della partecipazione politica, il consolidamento dei valori civili e della cultura democratica, la promozione dei diritti umani, l’apertura di un maggior spazio per la società civile e la concessione di pari diritti alle donne in tutti gli ambiti della vita pubblica”. A coronamento di tutti questi eventi c’è stato un non-evento di fondamentale importanza: l’assenza, malgrado le quasi unanimi previsioni degli esperti, di qualsiasi altro attacco terroristico sugli Stati Uniti. Poi, naturalmente, il panorama è cambiato. In Iraq la resistenza e il terrorismo hanno raggiunto livelli che le forze statunitensi e alleate non erano in grado di gestire, e la guerra contro il terrorismo è finita in un pantano. Non soltanto l’Iraq è precipitato in un caos spaventoso, ma anche i positivi risultati ottenuti su altri fronti hanno iniziato a frantumarsi. I talebani hanno intensificato la guerriglia e gli attentati terroristici in Afghanistan, la Siria ha lanciato nuove repressioni in Libano, l’Iran ha accelerato il proprio programma di sviluppo nucleare, e numerosi autocrati del medio oriente hanno rinnegato il proprio impegno per le riforme democratiche. L’opinione pubblica americana, inizialmente favorevole alla guerra in Iraq, ha iniziato ad opporvisi. La popolarità di Bush è precipitata in caduta libera. Oggi vari segnali fanno supporre che la “surge” delle truppe americane e le nuove tattiche controinsurrezionali messe in atto dal generale David Petraeus potranno portare a una stabilizzazione dell’Iraq, sempre ammesso che non vengano fatte naufragare dai democratici del Congresso, i quali, come ha detto lo scrittore inglese Douglas Murray, “preferiscono vedere fallire i neoconservatori piuttosto che un esito positivo in Iraq” – o, per essere ancora più precisi, che preferiscono vedere il fallimento di Bush piuttosto che il successo dell’America. In ogni caso, non si può negare che la guerra si è rivelata ben più costosa in termini economici, umani e politici di quanto i suoi sostenitori avessero immaginato, almeno per il momento: il sogno di un Iraq modello per i paesi vicini si è definitivamente dissolto. Ma qual è la causa di tutto ciò? Secondo un articolo uscito su Vanity Fair, molti neoconservatori attribuiscono la colpa all’incapacità dell’amministrazione. Questa non è certo un’analisi soddisfacente. Qualsiasi amministrazione viene accusata di incompetenza, e non ci sono prove convincente del fatto che questa amministrazione sia stata peggiore di quelle che l’hanno preceduta. Accuse più specifiche e più cogenti possono essere riferite ad alcune decisioni prese da Paul Bremer, capo delle forze di occupazione alleate dal maggio 2003 al giugno 2004, e dall’ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. Le decisioni prese da Bremer (sciogliere l’esercito iracheno e operare una purga dei membri del partito Baath così profonda da smantellare completamente i quadri del governo iracheno) sono state ampiamente criticate. L’insistenza di Rumsfeld, sostenuto dalla stesso presidente, di utilizzare in Iraq soltanto una parte delle truppe richieste dal generale Eric Shinseki, capo di Stato Maggiore dell’esercito, appare più chiaramente sconsiderata – conclusione ulteriormente confermata dai successi recentemente ottenuti dai nuovi organi di comando. In ogni caso, la decisione di utilizzare poche truppe e di sciogliere le strutture amministrative irachene non ha nulla a che fare con le idee neoconservatrici. Tutt’al più, si può dire che Rumsfeld era un alleato dei neoconservatori e che alcuni di essi, affascinati dalla tecnologia militare o influenzati dal dissidente iracheno Ahmad Chalabi, hanno approvato le sue scelte. Inoltre, quali che siano le responsabilità attribuibili ai neoconoservatori, non sono comunque quasi nulla in confronto agli errori commessi dai realisti dell’amministrazione di Bush padre, i quali, nel 1991, decisero di lasciare Saddam al potere, o a quelli commessi dai liberal dell’amministrazione Clinton, che permisero a Saddam di violare impunemente l’ordine di disarmo. Insieme, questi errori hanno lasciato che il problema rappresentato da Saddam Hussein continuasse a montare, finché, dopo l’11 settembre, George W. Bush ha dovuto affrontarlo in un contesto molto più difficile e complicato. Se la strategia dell’esportazione della democrazia, adottata da Bush, ha l’imprimatur dei neoconservatori, la principale questione in nome della quale il neoconservatorismo si batte è chiaramente la guerra contro il terrorismo. Secondo il finanziere George Soros, e molti altri, il terrorismo dovrebbe essere considerato semplicemente come una forma di comportamento criminale, da combattere con l’imposizione della legge e non con la guerra. L’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski sostiene che, sotto la presidenza Bush, in America la paura del terrorismo sia diventata una specie di “paranoia”, prodotta da un “praticamente continuo lavaggio del cervello a livello nazionale” compiuto non soltanto dal nostro governo, ma anche dalle “agenzie di sicurezza, dai mass media e dall’industria dello spettacolo”. Giudizio che suona in se stesso piuttosto paranoico. La pura e semplice verità è che gli attacchi dell’11 settembre sono stati i più devastanti e mortali subiti dagli Stati Uniti sul proprio territorio in tutto il corso della loro storia. Per di più, sono stati compiuti appena undici mesi dopo l’attentato suicida contro la USS Cole, che aveva ucciso diciassette marinai statunitensi e ferito altri trentanove. Due anni prima, erano state bombardate due nostre ambasciate in Africa, uccidendo oltre trecento persone, e altri due anni prima, a Dhahran, in Arabia Saudita, un’autobomba aveva colpito una caserma statunitense, uccidendo diciannove persone e ferendone 550. Si potrebbe anche continuare. Forse ancora più preoccupante è un fatto che ho già menzionato: decine di migliaia di giovani nel mondo islamico hanno seguito un formale addestramento alle tecniche terroristiche. Il loro principale obiettivo, presumibilmente, è quello di colpire il “Grande Satana” persino a costo della loro vita. Tutte queste migliaia di giovani sono appoggiati da una vasta rete che possiede considerevoli risorse, che utilizza la tecnologia moderna e gode del sostegno o addirittura della complicità di parecchi governi. I 3 mila morti degli attentati dell’11 settembre hanno rappresentato un nuovo primato nel successo delle operazioni terroristiche, ma nessuno dubita che i terroristi cercheranno di superare anche questo record. Anzi, hanno già cercato di farlo. A differenza di Brzezinski, non c’è bisogno di subire un lavaggio del cervello per avere paura di ciò. Né, diversamente da quanto sostiene Soros, questi giovani rinuncerebbero ai loro progetti se noi glielo proibissimo per legge. Fukuyama ci offre un’argomentazione più convincente. “La ‘guerra’ è la metafora sbagliata. Affrontare la sfida jihadista significa piuttosto una ‘lunga, crepuscolare battaglia’ che si decide non sul campo militare, ma su quello politico”. La portata della sfida jihadista, per di più, è stata notevolmente sopravvalutata, e le sue radici islamiche altrettanto esagerate. “E’ un errore – sostiene Fukuyama – identificare l’islamismo come un’autentica e in qualche modo inevitabile espressione della religiosità musulmana”. Cosa interessante, la stessa frase “lunga, crepuscolare battaglia” è presa da Fukuyama in prestito da John F. Kennedy, che l’aveva impiegata per definire la Guerra fredda – e questo è esattamente il modello che i neoconservatori hanno ripetutamente proposto per la guerra contro il terrorismo. Quanto al fatto che l’islamismo sia una “autentica e inevitabile espressione della religiosità musulmana”, inevitabile non lo è di certo; ma chi sono i non musulmani in grado di dire che è autentica? Certamente sembra autentica agli individui che la sostengono. Il sondaggio del Pew Global Attitudes E non sono da soli. Malgrado l’insistenza dei funzionari statunitensi sul fatto che i sostenitori del terrorismo sono soltanto una piccola minoranza della popolazione musulmana, i dati a nostra disposizione fanno supporre altrimenti. Certo, sono una minoranza, ma non così insignificante. La scorsa estate, un sondaggio del Pew Global Attitudes ha annunciato un netto declino nel sostegno dei musulmani agli attentati suicidi. Dopo questo calo, a quanto pare, “soltanto” il 16 per cento dei turchi è a favore di queste azioni, così come il 21 per cento dei kuwaitiani, il 23 per cento dei giordani, il 34 per cento dei musulmani libanesi, il 42 per cento dei musulmani nigeriani e il 70 per cento dei palestinesi. Cifre di poco inferiori si hanno per la convinzione che Osama bin Laden “stia facendo la cosa giusta”. Ci sono, grazie a Dio, alcuni paesi nei quali il sondaggio mostra cifre più basse, particolarmente in Egitto, dove soltanto l’8 per cento approva gli attentati suicidi. Ma un altro sondaggio condotto appena un paio di mesi prima indicava che il 15 per cento degli egiziani riteneva che “gli attacchi contro la popolazione civile… per raggiungere obiettivi politici” erano giustificati. Forse, questa discrepanza significa che alcuni egiziani disapprovano il suicida (che presenta alcuni problemi sul piano teologico), ma non l’uccisione di persone innocenti per una causa ritenuta giusta. In questo medesimo sondaggio, appena il 26 per cento degli egiziani ha disapprovato la posizione di al Qaida nei confronti degli Stati Uniti d’America. Quando l’Ibn Khaldun Center, diretto dal sociologo Saad Edin Ibrahim, ha chiesto agli egiziani quale fosse il personaggio che amavano di più, i primi tre prescelti sono stati l’attuale capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, e un membro di Hamas, Khaled Meshal. Per quanto inquietanti, questi dati possono indurre a una sottovalutazione del problema, almeno a giudicare dai risultati delle elezioni tenutesi ultimamente in medio oriente. In Egitto, Libano e nei Territori palestinesi, i partiti islamici, alcuni dei quali non violenti ma altri estremamente violenti, hanno riportato un grande successo. Anche se Fukuyama ci ricorda giustamente che “non siamo affatto impegnati in uno “scontro di civilità”, se gli islamisti e i jihadisti riuscissero a conquistare qualche altro stato, le conseguenze potrebbero essere esattamente quelle di uno scontro di civiltà. Il parallelo con la Guerra fredda I terroristi sono le truppe d’assalto del movimento jihadista, un movimento dalla forza limitata, ma comunque significativa – ben maggiore di quella, per esempio, dei comunisti dopo che Lenin ebbe preso il potere in Russia. Il jihadismo ha un numero molto più elevato di sostenitori, ha una portata più globale, possiede maggiori risorse e dispone di una base che il comunismo faceva soltanto finta di avere. Lenin e la sua banda riuscirono a impadronirsi di un paese arretrato e lo usarono come trampolino di lancio dal quale i loro eredi hanno cercato più tardi di ottenere il dominio su tutto il mondo. Chi può prevedere quanto potente potrebbe diventare l’islam radicale se gli venisse concesso di diffondere ulteriormente le sue metastasi? Questo movimento è in guerra contro di noi già da qualche tempo, e ha ucciso migliaia dei nostri uomini. L’annuncio fatto da Bush di una “guerra contro il terrorismo” non è stato quindi altro che la dichiarazione del fatto che avevamo deciso di rispondere agli attacchi subiti. Nonostante quanto abbiano detto e scritto Soros, Brzezinski e Fukuyama, questa guerra non è un “optional”, una scelta facoltativa. Se avessimo rifiutato di combatterla ora, avremmo dovuto farlo in seguito, e in modo molto più disperato. Se non rispondiamo agli attacchi, per quale motivo i jihadisti dovrebbero fermarsi? Quanto ai neoconservatori, hanno dovuto ingoiare molti rospi sulla guerra in Iraq. Ciononostante, i principi fondamentali del neoconservatorismo continuano a offrire il miglior approccio alla sfida che il nostro paese si trova di fronte. Riassumiano questi principi ancora una volta: 1) la nostra è una battaglia morale, contro un nemico malvagio che gode a mietere vittime innocenti. Sapere questo ci può aiutare a capire concretamente i nostri avversari e a scegliere le strategie più adeguate. 2) Il conflitto è globale, e ciò che avviene in una regione influenza ciò che accade in un’altra. 3) Sebbene si debbano sempre preferire metodi non violenti, l’uso della forza continuerà a essere necessario. 4) La diffusione della democrazia rappresenta una via importante e pacifica per indebolire il nostro nemico e ridurre pertanto la necessità di ricorrere alla forza. Da tutto ciò sorgono alcune priorità. Primo, malgrado tutti i fallimenti subiti in Iraq, non possiamo permetterci di accettare una sconfitta, né dobbiamo farlo. E’ ben vero che le nostre più belle fantasie su ciò che sarebbe diventato l’Iraq dopo il rovesciamento di Saddam sono svanite nel nulla. Ma rimane ancora una grande differenza tra un paese relativamente stabile, anche se pieno di problemi, e un completo stato di anarchia. C’è poi la questione dell’Iran. Qualsiasi nostro successo in Iraq sarà completamente vanificato se permettiamo che l’Iran si procuri armamenti atomici. Se ciò avviene, non saremo soltanto perseguitati dallo spettro del terrorismo nucleare, ma potremmo anche essere costretti a intraprendere azioni che preferiremmo avviare in momenti successivi alla guerra contro il terrorismo. Terzo, soltanto con un ampliamento della nostra presenza militare possiamo prendere decisioni strategiche basate sulle necessità militari e non sulla limitata disponibilità delle nostre forze. Com’è possibile che una nazione con 300 milioni di abitanti non sia in grado di mantenere un esercito di 150 mila soldati in territorio straniero, vale a dire un soldato ogni duemila americani? Infine, non bisogna ridurre il nostro sforzo per la diffusione della democrazia in medio oriente. Anzi, dobbiamo continuare a farlo con ancor maggiore impegno. E’ vero che la “primavera araba” del 2005 non ha avuto lo stesso successo della famosa “primavera di Praga” del 1968. Ma, anche allora, ci vollero due decenni prima che i frutti della primavera di Praga giungessero a maturazione. La moderata liberalizzazione avvenuta in quasi tutto il medio oriente e il fermento democratico che abbiamo suscitato promettono di dare ulteriori positivi risultati se continuiamo il nostro impegno. Nulla di tutto questo è in grado di offrire una guida completa per condurre la guerra contro il terrorismo, ma rappresenta almeno un approccio coerente, sostanzialmente simile a quello per mezzo del quale abbiamo vinto la Guerra fredda. I liberal e i realisti, invece, non hanno nessun approccio coerente da offrire, o almeno finora non lo hanno fatto. E’ per questo, in definitiva, che George W. Bush, cercando una risposta da dare agli eventi dell’11 settembre, è finito nelle braccia del neoconservatorismo, per quanto il connubio potesse sembrare improbabile. Si può sempre sperare che le scelte politiche siano realizzate in modo più efficace, ma come strategia di guerra quella del neoconservatorismo rimane la sola a disposizione.
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