Il Terzo Reich e gli ebrei intervista allo storico Saul Friedländer
Testata: Avvenire Data: 10 ottobre 2007 Pagina: 29 Autore: Diego Vanzi Titolo: «Diario di Auschwitz Shoah in microstorie»
Da AVVENIRE del10 ottobre 2007:
V iene definito «l’ultimo epico narratore della storia della Shoah». Saul Friedländer compie 75 anni domani e a lui va quest’anno il prestigioso «Premio della Pace» dei librai tedeschi a Francoforte: un riconoscimento che nel 1951 venne assegnato ad Albert Schweitzer, nel 1955 a Hermann Hesse e lo scorso anno al sociologo Wolf Lepenies. A Friedländer il premio viene conferito per il suo «opus magnum», due volumi che rappresentano la sintesi del suo lavoro: Il terzo Reich e gli ebrei. Friedländer è forse l’ultimo storico cui è riuscito di coniugare la ricerca e la tragica esperienza vissuta della Shoah. Nato infatti a Praga da genitori ebrei di cultura tedesca, aveva 10 anni quando il padre e la madre vengono deportati dalla Francia dove avevano cercato scampo dai nazisti e uccisi ad Auschwitz. Saul riesce a sopravvivere sotto falso nome e ospite di un collegio cattolico. Nel 1948 emigra in Israele. Dal 1976 ha insegnato Storia moderna europea all’università di Tel Aviv, cui nel 1987 ha aggiunto una cattedra presso l’University of California. È considerato il più importante cronista vivente della Shoah. Professore, i suoi genitori sono stati uccisi ad Auschwitz. Il 14 ottobre, le verrà conferito a Francoforte il «Premio della Pace dei librai tedeschi ». Cosa prova nel ricevere un riconoscimento in Germania? «Sono riconoscente per tanto onore. Credo sia la prima volta che uno storico che si é occupato direttamente dell’Olocausto riceva il Friedenpreis. Capisco che il tema dei miei lavori ha contribuito alla decisione. Vado però a Francoforte con sentimenti complessi e contrastanti; non posso dimenticare di essere in Germania e lo farò presente anche nella mia risposta alla laudatio ». Oggi, a quasi 70 anni dalla «Notte dei cristalli» (il pogrom delle SS contro gli ebrei nel novembre 1938), vede ancora lacune nel campo della ricerca storica sul nazismo? «Senza alcun dubbio, iniziando dalla ricerca nei piccoli centri, nelle città dell’Europa orientale dove coabitavano gruppi di differenti etnie. Prendiamo ad esempio cosa successe in un paese dove vivevano assieme ebrei, polacchi e ucraini ed infine arrivarono i tedeschi. Sarebbe necessario studiare la situazione prima, durante e dopo la guerra. Sarebbe una specie di 'microstoria', una storia cioè vista attraverso le vicende di protagonisti minori, come da voi in altro contesto ha fatto Carlo Ginzburg. Sarebbe molto importante in questo campo analizzare varie 'microstorie' ». E la ricerca sul nazismo condotta in Germania? Le sembra sia stata portata avanti in maniera adeguata ed esaustiva? «Sembrerebbe di sì, pur se ci sono ancor oggi molte voci contrarie. Esistono però innumerevoli studi scientifici sul periodo nazista ormai da due, tre decenni. Ed inoltre si nota un forte interesse soprattutto delle giovani generazioni». Lei ha vissuto a lungo in Israele, ora abita a Los Angeles. Che cosa rappresenta per lei la Germania d’oggi? Che rapporto ha con questo Paese? «Come con qualsiasi altro Paese. Non andrei a Francoforte se avessi sentimenti negativi verso i tedeschi. Nella Germania oggi mi sento come in qualsiasi altra nazione europea». Nel 1998 Martin Walser nel ricevere lui stesso il Premio della Pace aveva parlato di «strumentalizzazione di Auschwitz ». Ne erano sorte forti polemiche e lunghe discussioni. Il recente film di Robert Thalheim «Alla fine arrivano i turisti» mostra banalità e business ad Auschwitz. Non vede il pericolo che la tragica realtà dell’Olocausto venga screditata, sminuita o addirittura ridicolizzata? «Sì, il pericolo esiste, esiste purtroppo già da anni attraverso i media e a causa della cattiva memoria di molti sia in America, come in Europa ed altrove. C’è la tendenza forse non a banalizzare ma a vestire di 'kitsch' gli avvenimenti drammatici del passato. A commercializzare le emozioni. Purtroppo lo si nota ovunque. Ma per fortuna ci sono anche altre voci e quella delle 'banalità' non mi sembra la tendenza principale». Nella motivazione della giuria, lei viene definito come «colui che ha restituito alle vittime la dignità che era stata loro rubata». Era forse questo il fine a cui lei mirava con la pubintervista blicazione dei suoi numerosi libri? «Sì, in effetti è proprio quello che volevo ottenere soprattutto con i miei due ultimi libri ( Il Terzo Reich e gli ebrei: Gli anni della persecuzione 1933-39. Gli anni dell’annientamento 1939-45) Ho voluto integrare la voce delle vittime, degli ebrei nella storia più generale, integrare in un contesto più ampio anche le varie voci individuali. Per questo ho utilizzato molti, moltissimi diari delle vittime, ne esistono centinaia. La maggior parte sono appartenuti a ebrei poi uccisi ma in cui si può seguire la vita delle vittime fin quasi agli ultimi momenti. Talvolta il diario termina nel mezzo di una frase e si può capire cosa poi sia successo. Ho cercato di inserire tutto ciò in maniera massiccia nei miei libri, cosicché forse ora esiste un’altra dimensione, una dimensione diversa e più completa nel presentare la storia». Nei confronti del nazismo lei occupa un doppio ruolo: quello cioè di storico e quello del sopravvissuto. Non ha mai avvertito un conflitto tra questi due ruoli? «L’ho avvertito da sempre, da quando ho cominciato a lavorare e scrivere sul periodo hitleriano. Lo stesso vale però anche per gli storici tedeschi della mia generazione che erano stati membri della Hitler Jugend o del partito nazionalsocialista». Con la pubblicazione del secondo volume lei ha completato l’opera monumentale «Il Terzo Reich e gli ebrei». Pensa di aggiungere ancora qualcosa? «Solo brevi cose. Sono piuttosto anziano, vedrò cosa posso fare ma nei limiti delle mie possibilità».
Per inviare una e-mail alla redazione di Avvenire cliccare sul link sottostante lettere@avvenire.it