SONO STANCO DI ISRAELE
E' questo il titolo che REPUBBLICA di oggi, 6/10/2007, a pag.43, nella sezione cultura, per una intervista a A.B.Yehoshua, a Cagliari per un festival letterario. Naturalmente il titolo è una forzatura del pensiero dello scrittore israeliano, il quale, è vero, si presta sempre molto volentieri ad affrontare temi politici. Ma, nell'intervista, traspare più che altro la stanchezza dovuta agli anni che avanzano, la ricerca di argomenti per i suoi romanzi, la sua ricerca di intellettuale israeliano che vive una realtà difficile. Si può essere d'accordo oppure no, ma titolare "sono stanco di Israele" non riflette quanto c'è scritto nel testo. E', semmai, l' opinione di chi ha fatto il titolo, in linea con ciò che pensa REPUBBLICA dello Stato ebraico. Freud, se ci sei, batti un colpo. L'ha fatto.
Invitiamo i nostri lettori a scrivere a REPUBBLICA per protestare contro la titolazione dell'articolo di Simonetta Fiori. La e-mail da utilizzare è in fondo a questa pagina.
Vuole vedere il mare, Abraham B. Yehoshua, appena arrivato in Sardegna. Come se vi cercasse quiete da una vita in affanno. «Talvolta mi sento come il personaggio di Geremia, uno dei protagonisti del mio nuovo romanzo. Anche lui ha settant´anni, a un certo momento decide di chiudere con Israele, con l´identità ebraica, con l´ingombrante carico di angosce, distruzione, dolore, profezie d´ira che quella storia antichissima porta con sé. La nostra esistenza è ritmata dalle tragedie e dai conflitti, antichi e contemporanei: come vivere costantemente nel cuore d´una fiamma». Sente anche Yehoshua il bisogno di prendersi una pausa. Appassionato, spettinato, ampio gesticolare, un fisico esuberante, lo scrittore simbolo della complessità ebraica cerca sollievo in quella stessa terra che accolse lo scorso anno il suo amico Grossman dopo la morte del figlio («Per David fu come balsamo su una devastante ferita appena aperta»). E´ ospite del Festival di letteratura per ragazzi, si muove curioso tra gli scaffali della libreria Tuttestorie che l´ha organizzato. Sembra avere uno sguardo affettuoso per tutti, a cominciare dalla moglie psicoanalista che gli sta sempre accanto. Con l´Italia ha un rapporto speciale: l´anno venturo la Scala ospiterà un´opera lirica ispirata da Viaggio alla fine del millennio e una coproduzione italo-israeliana sta preparando un film tratto da Il responsabile delle risorse umane, con la regia di Eran Riklis, l´autore di La sposa siriana. Un sentimento di stanchezza, malinconia ferita, pervade anche il nuovo romanzo in corso di traduzione da Einaudi (uscirà in febbraio). S´intitola Fuoco amico e al centro vi è una morte insensata, la stessa che ispira il titolo: un giovane soldato israeliano ucciso per sbaglio dal mitra di un commilitone. Il padre Geremia cerca di dare un senso a questa morte dissennata, andando a ritroso sulle tracce del figlio morto in Cisgiordania. Scoprirà che la tragedia è scaturita da una sciocchezza, ma come sempre accade nei romanzi di Yehoshua nel dettaglio si nasconde la straordinaria potenza del simbolo. Anche in Fuoco amico si riverberano i grandi temi di Yehoshua: il matrimonio, la religione, l´amore, la guerra, l´ebraismo, la politica, più semplicemente la vita. Yehoshua, nel suo romanzo c´è un padre che tenta di dare un senso alla morte del figlio. Il pensiero corre al suo amico Grossman. «Ho cominciato a scrivere Fuoco amico molto prima della tragedia di Uri. La scomparsa di quel ragazzo per me è stata uno shock. Avevamo entrambi, io e David, due figli in guerra, ma il mio non era al fronte, il suo sì. Così avevo l´abitudine di telefonare a casa Grossman ogni giorno. Fino a quella domenica, quando la moglie Ruth mi disse che Uri non c´era più. La sua morte è divenuta un simbolo della sofferenza degli israeliani. Probabilmente su questa tragedia David scriverà il suo romanzo. Ma il mio libro racconta un´altra morte, avvenuta sotto il fuoco amico». C´è qualcosa di metaforico in questa uccisione del soldato per mano d´un suo commilitone? Alcuni recensori in Israele vi hanno letto la capacità degli israeliani di far del male a loro stessi. «Mi piacerebbe rispondessero i lettori italiani. A me interessa la poetica del romanzo, il suo impianto complessivo, che obbliga chi legge a connessioni altrimenti impensabili. Questo è un po´ il senso della letteratura». Fuoco amico è costruito su un duetto, un dialogo a distanza tra marito e moglie. «Sì, il marito è un ingegnere sessantenne che si occupa della pianificazione di ascensori, la moglie è un´insegnante di inglese che nei giorni di Hannuchà lascia Israele per andare a trovare in Tanzania il cognato Geremia, padre del soldato ucciso. La vicenda si svolge nell´arco d´una settimana. Il lettore segue parallelamente la vita del marito e la vita della moglie, ritratti in paragrafi distinti e omogenei, che di entrambi i personaggi raccontano una giornata o una sola ora. Questo mi ha permesso di mettere in relazione cose sideralmente distanti». Ad esempio? «L´ingegnere ha problemi con la costruzione di un ascensore a Tel Aviv. Parallelamente la moglie incontra in Africa una giovane donna che è un´animista, immersa nella vita degli spiriti. A un certo punto si crea come un cortocircuito tra il rumore di tempesta che l´ingegnere avverte dentro l´abitacolo d´un ascensore e l´inquietante frusciare degli spiriti in Tanzania. E´ il potere alchemico della letteratura, che mescola e unisce realtà lontane. E´ la scintilla che spesso scaturisce nei miei romanzi dall´incontro con il diverso». Non c´è niente di più distante tra Israele e l´Africa. Geremia sceglie di vivere in Tanzania in segno di rottura radicale rispetto alla propria identità. Cosa significa questa fuga? Nasce da una stanchezza che lei sente diffusa nel suo paese? «Non so se sia uno stato d´animo diffuso, so però che questa grande fatica l´avverto dentro di me. Geremia ha settant´anni, è schiacciato da un carico di dilemmi, guerre, catastrofi, nefaste profezie, minacce di distruzione. A un certo punto dice: basta, voglio riposare, merito anche io una vacanza». È questo il suo stato d´animo? «Sì, non si può vivere costantemente sotto il vulcano. Prima l´Olocausto, ora il pericolo incarnato nell´Iran. E poi la complessità ebraica, i conflitti interni. In me come in altri c´è una forte componente di stanchezza». Il personaggio si chiama Geremia, come il profeta. «Non è un caso. Ci ricorda quanto la profezia sia segnata dall´ira e dalla catastrofe e come di essa ci si nutra come dal latte materno. Basta, anche io voglio riposare». Anche in questo suo ultimo romanzo al centro c´è una relazione coniugale. Da L´Amante a Un divorzio tardivo a La sposa liberata, il tema del matrimonio attraversa significativamente tutti i suoi lavori. Perché questo interesse, direi quasi ossessione? «Sono persuaso che le relazioni tra un uomo e una donna siano tra le più difficili e impegnative, proprio perché si possono rompere in un attimo. Questo le rende uniche: non puoi certo recidere una relazione tra una madre e un figlio, o tra un padre e la sua prole. Il matrimonio richiede nutrizione costante, soluzione calibrata di continui dilemmi morali. E´ ciò che mi affascina, e m´induce a farne un simbolo esteso a questioni politiche e sociali». A proposito di dilemmi morali, nei scorsi giorni la sua firma è comparsa in un appello rivolto a Olmert perché tratti con Hamas. «Dobbiamo fare tutto quello che è in nostro potere per evitare spargimento di sangue, anche se questo comporta trattare con organizzazioni ostili come Hamas. Non sarebbe la prima volta. Nel corso della storia abbiamo negoziato il "cessate il fuoco" anche con la Giordania o con l´Olp, quando né la Giordania né l´Olp riconoscevano Israele. Non mi faccio illusioni su quello che è Hamas, ma si deve tentare. È in gioco la sofferenza della popolazione. La destra ci accusa di ingenuità, ma noi pensiamo che sia giusto così. Prima o poi lo capiranno tutti».
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