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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Aharon Appelfeld Badenheim 1939 04/10/2007

Badenheim 1939 Aharon Appelfeld
 Guanda
traduzione di Elena Loewenthal, pagg. 142, euro 13,50


Come Gregor von Rezzori e Paul Celan, Aharon Appelfeld è nato a Czernowitz, in Bucovina. Nel 1939, a sette anni, venne deportato insieme al padre in un campo di concentramento nazista: ma pochi mesi dopo riuscì a fuggire, e durante tre anni vagò per i boschi dell´Europa orientale. Nel 1944 venne raccolto dalle truppe russe: riuscì a raggiungere l´Italia e nel 1946 la Palestina, dove ha insegnato letteratura ebraica all´Università Ben Gurion. Badenheim 1939, appena pubblicato da Guanda (nella buona traduzione di Elena Loewenthal, pagg. 142, euro 13,50, verrà presentato stasera a Milano, nella Sala di via S.Antonio 5) è uno dei libri più belli e singolari sull´Olocausto.
Nel 1939, a Badenheim, un paese austriaco di villeggiatura, il ritorno della primavera dopo un inverno rigidissimo è una specie di resurrezione. Le ombre del bosco si ritirano. La luce del sole raggiunge la via principale, e si propaga nelle strade laterali e nelle piazze. I cespugli di lillà si arrampicano sulle inferriate delle terrazze, le api fameliche ronzano sui fiori gialli e celesti. Le case riprendono la loro aria quieta, come isole bianche dentro un mare verde. Arrivano i primi villeggianti: nel pomeriggio si ritrovano nei caffè a gustare gelati rosa, o invadono la pasticceria, che sforna buonissime torte alla fragola, ancora calde. La vita sembra normalissima: gli abitanti e i villeggianti credono che resterà sempre così, mite e quieta, sebbene l´anno prima i nazisti (che nel romanzo non vengono mai nominati) abbiano conquistato l´Austria.
Ci sono strani segni. Trude, la moglie del farmacista, viene assalita da allucinazioni. Tutto il mondo le sembra intriso di veleni. Le medicine non bastano; e la sua malattia penetra, goccia dopo goccia, nelle vene del farmacista. Trude fantastica sui genitori morti: e immagina che la figlia, Helena, la quale abita altrove, venga continuamente percossa dal marito. Grida, urla, come se il paese fosse invaso dai lupi. Poi la contaminazione si estende. I musicisti e gli attori del Festival, i quali sono tutti ebrei, non arrivano a Badenheim: qualcosa o qualcuno li trattiene. Alcuni abitanti e villeggianti muoiono all´improvviso, senza ragione: uno al caffè, uno in albergo, un terzo davanti alla roulette del casinò.
Il segno più pauroso è mascherato. Nel paese si stabilisce un misterioso Dipartimento Sanitario: i funzionari visitano la farmacia, conducono indagini, spiano, stabiliscono che tutti gli ebrei debbano registrare il loro nome entro la fine del mese. Appelfeld, o il suo narratore, non dice che i presunti funzionari del Dipartimento Sanitario sono, in realtà, poliziotti nazisti, che preparano la deportazione nei lager della Polonia. Sebbene in Germania la persecuzione fosse cominciata da anni, gli ebrei non capiscono: trovano normale la registrazione; e osservano che gli impiegati del Dipartimento si comportano con decoro. Molti cominciano a sognare il ritorno alla vecchia patria abbandonata e ai riti chassidici, come un futuro radioso. Su Badenheim scende all´improvviso una notte straniera.
Ombre invadono le stanze e i corridoi dell´albergo, colmando il sonno degli ospiti. Una luce fredda giunge da settentrione: non sembra luce, ma aghi d´acciaio che tagliano e traforano i tappeti. Lo spazio diventa più angusto. Dappertutto si diffonde un senso di paura, di silenzio e di morte. La natura cambia. I pesci si azzannano nell´acquario. La luce si ferma. Scende una specie di gelo teso. Un´ombra arancione rosicchia di nascosto le foglie dei gerani. Un´umidità amara assorbe i rampicanti, che strisciano e invadono le terrazze, come flora di un altro mondo.
Intanto, Badenheim si trasforma in un carcere. Alle porte del paese viene innalzata una barriera: l´ufficio postale è chiuso: le lettere non partono e non giungono: il telefono non risponde: le piscine sono svuotate; i negozi di alimentari non vengono riforniti, come se il paese fosse in quarantena. Alcuni ospiti dell´albergo non toccano più cibo, e si guardano intorno con uno sguardo fisso e immobile. Gli altri fanno la fila per ricevere il pranzo: pane secco e minestra d´orzo. La disperazione trasuda da ogni muro.
I cani, non più nutriti, si lasciano morire, o vengono uccisi a fucilate. Ogni giorno arrivano sconosciuti, deboli e chiusi in sé stessi, come uccelli senza più contatti con l´aria. Muoiono in silenzio, senza un grido o una parola.
Finalmente qualcuno dà il segnale di partenza. In quel momento sembra esserci una rivelazione. D´improvviso i cieli si aprono, le colline sparpagliate intorno, colme della propria abbondanza, e persino gli alberi spogli e tremolanti davanti alla stazione, respirano a pieni polmoni. Ma la rivelazione non dura. Una locomotiva che trascina quattro luridi vagoni merci, si arresta in stazione: così repentina, che sembra sbucare dal fondo di un pozzo. «Dentro!», ordinano voci senza volto. Tutti gli ebrei spariscono in un attimo, come chicchi di grano dentro un imbuto. Il viaggio che conduce in chissà quale lager polacco non avrà ritorno.
Come Kafka, Appelfeld costruisce il suo libro attorno a una grandiosa omissione. Dipinge con piccoli tocchi, nitidi e precisi, uno dopo l´altro, riga dopo riga, ma nessuno di questi tocchi lascia un colore. Il pennello è bianco. Il narratore racconta da una grande distanza, come fosse indifferente al suo libro, e non sottolinea, non mette in rilievo, non commenta, non spiega. Abolisce via via ciò che dice. Non parla mai di nazisti, di guardie, di campi di concentramento, di assassinio di massa, di distruzione. Sembra che tutto sia una lieve illusione, irreale o senza sfondo. Così nasce nel libro un immenso vuoto; e nulla potrebbe suscitare più angoscia di questa assenza nella quale ci perdiamo.

Pietro Citati
da La Repubblica del 4 settembre 2007, pagina 42


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