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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
04.10.2007 Sergio Luzzatto, un recensore inaffidabile
se il libro è contro Israele, non solo gli piace, lo dichiara anche obbligatorio

Testata: Corriere della Sera
Data: 04 ottobre 2007
Pagina: 53
Autore: Sergio Luzzatto
Titolo: «Israele e la Shoah, l'arma segreta di Ben-Gurion»

Israele è un paese nel quale vige la più ampia libertà. Tutte le tesi possono trovarvi espressione.
Anche quella che le classi dirigenti del paese abbiano usato la Shoah per giustificare un'ideologia espansionista e aggressiva.
Non abbiamo letto il libro che, stando al riassunto di Sergio Luzzatto, propugnerebbe questa visione.
Quindi non esprimiamo giudizi su di esso, anche se la storia fin qui nota è sicuramente piuttosto diversa: Israele è stato aggredito e minacciato fin dalla sua fondazione e si è difeso.
La recensione di Luzzatto, comunque, merita di per se qualche osservazione.
Da esso traspaiono un evidente entusiasmo e un'adesione totale, senza alcuna riserva,  alle tesi del libro che recensisce.
Non sarà un poco prevenuto ? Non avrà qualche problema con Israele ?
"Segnatevi l'autore, il titolo, l'editore" esordisce, fremente, Luzzatto. E poi: "Questo è un libro di storia che dovrebbero leggere obbligatoriamente tutti coloro — politici, giornalisti, «esperti» vari — che ogni giorno pontificano, qui da noi, sul conflitto israelo-palestinese, e in generale sulla questione mediorientale"...  in modo da essere illuminati dalla "luce della verità".

Ecco il testo:


Segnatevi l'autore, il titolo, l'editore: Zertal, Israele e la Shoah, Einaudi. Questo è un libro di storia che dovrebbero leggere obbligatoriamente tutti coloro — politici, giornalisti, «esperti» vari — che ogni giorno pontificano, qui da noi, sul conflitto israelo-palestinese, e in generale sulla questione mediorientale. Ma anche chi tende sempre a sottolineare il rischio dell'annientamento dello Stato ebraico: per scongiurare così l'incubo di una «seconda Shoah» perpetrata da un qualche «nuovo Hitler» di Teheran o di Damasco.
Scritto da una studiosa di storia contemporanea fra le più note e apprezzate in Israele, il libro ricostruisce l'archeologia del discorso pubblico che ha dominato la vita israeliana negli ultimi quarant'anni, dalla guerra dei Sei Giorni a oggi. Un discorso fondato appunto sui due elementi di cui sopra. Da un lato, la drammatizzazione del pericolo: cioè la strategica abitudine di presentare le minacce alla sicurezza di Israele come il rischio di un annientamento dello Stato. Dall'altro lato, la nazificazione dell'avversario: cioè la denuncia ricorrente dei «nazisti arabi» (una formula passata tale e quale dalla bocca di David Ben Gurion, padre fondatore della nazione e leader storico della sinistra, alla bocca di Benjamin Netanyahu, ex primo ministro e attuale leader del Likud), insomma l'equazione sistematica fra nemici arabi di Israele e praticanti tedeschi della Soluzione finale.
Se pure contribuisce a interpretare il passato prossimo e il presente, il libro della Zertal è un'opera di storia. Muovendo da una varietà di fonti a stampa o manoscritte — per lo più giornali e periodici, ma anche verbali della Knesset, memorie giudiziarie, corrispondenze private — l'analisi si concentra sul quarto di secolo precedente la guerra dei Sei Giorni: dai primi anni Quaranta, quando la piccola comunità dei sionisti immigrati in Palestina dovette confrontarsi con la tragica evidenza della distruzione degli ebrei d'Europa, fino al 1967, quando il trionfo militare dello Stato ebraico sull'Egitto e sulla Siria trasformò lo scenario geopolitico del Medio Oriente, facendo di Israele la superpotenza regionale.
Libro corale, ritratto di gruppo dell'élite politica e culturale che riuscì nel miracolo di far risorgere il regno di David dalle sue ceneri millenarie, «Israele e la Shoah» ruota comunque intorno alla figura di un singolo personaggio, protagonista dell'intera storia: l'ebreo polacco Ben Gurion. Già nel 1943, alla notizia dell'insurrezione del ghetto di Varsavia, il carismatico leader del laburismo sionista mise a punto un disegno estremamente lucido, seppure vagamente cinico: decise di spendere le ricadute della Shoah come una moneta sul mercato della politica internazionale. Senza che un solo emissario della Palestina si recasse una sola volta nei ghetti polacchi durante la Seconda guerra mondia-le, Ben Gurion convinse il resto della dirigenza sionista ad appropriarsi delle rivolte nei ghetti stessi in chiave nazionalistica, per propiziare la creazione di uno Stato ebraico indipendente.
Anche gli ebrei avevano dei muscoli, almeno quelli che l'esaltante prospettiva di un ritorno a Sion aveva affrancato dalla secolare ignavia della Diaspora! Tanto più dopo la fine della guerra mondiale, quando il mondo intero scoprì con sgomento gli effetti della Soluzione finale, Ben Gurion e i sionisti di Palestina brandirono come un trofeo il coraggio dei pochi che in qualche modo si erano ribellati allo strapotere degli aguzzini germanici. Coprirono invece sotto una coltre di silenzio — o trattarono con esplicito disprezzo — la disperazione dei milioni di ebrei che erano andati incontro rassegnati a un orribile destino.
Il fatto è che alla vigilia della guerra d'indipendenza del 1948, e a fortiori dopo la nascita dello Stato di Israele, la dirigenza sionista aveva bisogno di eroi, non di vittime. Oppure, al limite, aveva bisogno di mostri. Durante gli anni Cinquanta, nel neonato Stato ebraico vennero istruiti numerosi processi contro i cosiddetti collaboratori israeliti dei tedeschi: ebrei d'Europa scampati alla Shoah ed emigrati in Palestina, nei quali altri sopravvissuti si erano imbattuti magari per caso, in una strada di Gerusalemme o in un autobus di Tel Aviv, e che avevano riconosciuto come una ex sorvegliante di Auschwitz o un ex kapò di Treblinka... Si assistette così al paradosso per cui uomini e donne che erano stati vittime innocenti della Soluzione finale, e che soltanto l'abiezione del sistema nazista aveva reso esseri feroci (o semplicemente attaccati alla vita), vennero processati (e talvolta condannati) in Israele secondo i termini della medesima legge per la quale fu processato e condannato, nel 1961, Adolf Eichmann, lo zelante burocrate del genocidio.
Fortemente voluto da Ben Gurion, lo spettacolo mediatico del processo Eichmann segnò una svolta nel rapporto di Israele con la Shoah: perché posate le infrastrutture del nuovo Stato, consolidata la forza dell'esercito, guadagnato il riconoscimento della comunità internazionale, la dirigenza sionista scoprì che aveva bisogno non soltanto di eroi, ma anche di vittime. Attraverso il processo Eichmann, il Paese fu finalmente invitato a misurare l'enormità di quanto successo agli ebrei d'Europa. Dopodiché, l'anziano Ben Gurion investì le ultime sue energie nell'elaborazione di una pedagogia nazionale fondata sul culto della tragedia. Di più: sulla trasformazione di Israele da società laica a entità messianica, da ordinario Stato fra gli Stati a biblica comunità della Catastrofe e della Redenzione.
Affiancò Ben Gurion nell'impresa un energico cinquantenne, Moshe Dayan. Oratore trascinante oltreché abile leader politico e venerato capo militare, Dayan seppe declinare come volontà di potenza il paradigma della sacralità della terra di Israele. Terra minacciata dai «nazisti arabi», che si preparavano a perpetrare la «seconda Shoah». Terra quindi da difendere, ma anche terra da allargare, per restituire ai figli di David la compiutezza dell'Israele primigenio. E terra da svuotare di ogni possibile nemico etnico. «Ciascun centimetro del suolo israeliano è destinato unicamente agli ebrei», dichiarò Dayan da ministro dell'Agricoltura, sei anni prima di conquistare i luoghi santi della Cisgiordania da ministro della Difesa, nella guerra dei Sei Giorni. Ma la scelta politica e propagandistica di traslocare la Shoah in Medio Oriente è costata a Israele un prezzo altissimo. Non soltanto la demonizzazione di una leadership araba resa tanto più ostile dall'enormità delle accuse. Anche la banalizzazione degli orrori perpetrati dai tedeschi fra 1941 e '45. Dunque, in fondo, lo svilimento della sofferenza di sei milioni di vittime.
• Il libro: Idith Zertal, «Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia», Einaudi, pagine 253,  e 22

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