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La Stampa Rassegna Stampa
04.10.2007 Bet Shemesh, capitale del rock ebraico
nel racconto di Francesca Paci

Testata: La Stampa
Data: 04 ottobre 2007
Pagina: 16
Autore: Francesca Paci
Titolo: «Con la chitarra a cantare “Forza Hebron”»
Da La STAMPA del 4 ottobre 2007:

Yossi, 23 anni, palleggia abile con la lattina di birra Makkabi facendo attenzione che la kippà fermata con una molletta non gli scivoli dal capo. Yoel, seduto in disparte sotto un albero, prepara uno spinello chiacchierando con l'amica Anat, fazzoletto in testa, foulard al collo, lunga gonna a balze fiorate. Israel e David «pogano» selvaggiamente: fosforescenti nelle camicie bianche madide di sudore, ballano spintonandosi addosso alle transenne dove un telone azzurro separa uomini e donne come al Muro del Pianto. Dal palco, quasi sacro, i Blue Fringe lodano il nome di Dio, Jahvè creatore dell'universo, a colpi di batteria, basso e chitarra elettrica.
Inossidabile al passare del tempo, lo spirito di Woodstock vive eternamente giovane a Bet Shemesh, una città di 65.000 anime a 30 chilometri da Gerusalemme, la capitale della musica ortodossa e dei suoi fan, gli hippy del XXI secolo, borghesia medio-bassa, età media trent'anni, almeno tre figli a coppia. Dal 1998 ogni anno, all'inizio di ottobre, una carovana di station wagon e pulmini stile famiglia Bradford con gli adesivi del movimento contro il ritiro da Gaza, confluisce qui da tutto il Paese per il Festival del rock ebraico, due giorni di concerti gratuiti, sacchi a pelo, colonie di bambini in salopette jeans e l'orologio fermo al 15 agosto 1969. Look e modi da figli dei fiori sono gli stessi degli originali di Bethel, ma al posto di Joan Baez e Arlo Guthrie con il simbolo della pace appeso al collo ci sono gli Hamadregot, Shlomo Katz, i SoulFarm, Chaim Dovid e i Silmply Tsfat, menestrelli in kippà che cantano e rendono pop i brani della Torah, ultimo avamposto del collettivismo nella società degli individui soli.
«Il rock ebraico costruisce identità più che business», spiega Jonty Zwebener, in arte Jonty, padre del Festival e agente dei gruppi più famosi, un nome e un logo in Israele. Jonty, 45 anni, è emigrato dagli Stati Uniti nel 1986. Da allora con la TighRope Productions si occupa di musica, di questa musica: «Se un disco va forte, può vendere anche diecimila copie. I Moshav Band per dire, sono prodotti dalla Sony, evidentemente hanno un mercato. Ma il numero degli album acquistati non rende giustizia alla diffusione reale». Perchè gli hippy del XXI secolo non comprano cd, ascoltano la radio, saccheggiano a man bassa Internet, campeggiano nel parco di Bet Shemesh dove un guru come Eitan Katz suona per duemila dollari, cinque volte meno di un collega «secolare». E' la musica come religione pre-mercato, è Woodstock.
«E' strano pensare che il rock possa rilassare, vero? Eppure il nostro rock lo fa». Elisheva, 17 anni, studentessa di Bnei Brak, un distretto ortodosso vicino Tel Aviv, casaccone patchwork e scarpe con la zeppa, lavora al chiosco della pizza, un trancio di rossa a 8 schekel, circa un euro e mezzo. Alla sua destra e alla sua sinistra si allunga una fila di bancarelle, cd nuovi e usati, foulard indiani e borse di cuoio fatte a mano, zucchero filato.
«Chi pensa che preghiera e divertimento siano inconciliabili dovrebbe passare a trovarci una volta o l'altra», nota Benjiamin Broskj, 27 anni, originario di Cleveland, Ohio, deejay di Israel National Radio, un'emittente politicamente molto conservatrice che manda solo musica religiosa. La festa è qui, idealmente senza tempo. Aron, 19 anni, uniforme e mitraglietta M16 a tracolla, balla con i coetanei dimenticando per una sera il fronte: questa non è Londra, San Francisco, Berlino. E' Bet Shemesh, Israele, il cuore del Medio Oriente in trincea.
«E adesso dedichiamo una canzone ai fratelli di Hebron» urla dal palco Aron Razel e gira il microfono verso la platea per raccogliere l'assenso corale di diecimila voci, bambini compresi. Un brano per la cacciata degli ebrei dall'Egitto, uno per le famiglie numerose d'Israele, un altro per i soldati rapiti a Gaza e nel Sud Libano. I coloni, l'esodo come destino, la guerra: presente, passato, futuro. E in sottofondo, potente come un'identità, un'unica colonna sonora, ortodoxrock.

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