La pace possibile tra israeliani e palestinesi intervista allo scrittore israeliano Aharon Appelfeld
Testata: Avvenire Data: 04 ottobre 2007 Pagina: 31 Autore: Laura Silvia Battaglia Titolo: «Appelfeld: presto pace in Palestina»
Da AVVENIRE del 4 novembre 2007, un'intervista ad Aharon Appelfeld. La scelta di alcune domande lascia quanto meno perplessi:"Nel mondo molti sono convinti che gli israeliani stiano facendo pagare ai palestinesi ciò che hanno subito sessant’anni fa. È vero o no? ", "Cosa ne pensa degli ebrei che decisero di combattere accanto ai nazisti? Bryan Mark Rigg nel suo libro «I soldati ebrei di Hitler» rivela che furono centocinquantamila." Difficile non scorgere una certa malizia,ma le risposte dello scrittore israeliano, sempre pacate, riportano alla necessità di una visione più equilibrata. Ecco il testo:
C i tiene a sottolineare a ogni parola, a ogni libro, quanto sia importante il dialogo, quello che lascia spazio alle pause, alle riflessioni, al ritmo cardiaco che ogni uomo porta con sé, indipendentemente dall’appartenenza a qualsiasi nazione. Aharon Appelfeld, classe 1932, questa capacità la trova in sé come iscritta nel dna: ebreo assimilato, passato attraverso la Shoah, persi i genitori a otto anni, imprigionato e scappato dai campi di concentramento, quasi graziato dall’incontro con ladri e assassini che gli salvarono la vita, vagabondo per la Germania devastata dalla furia della Guerra, è approdato poi nella Terra promessa, a Tel Aviv, per ricominciare a vivere a 16 anni, avendo conosciuto molte lingue e non parlandone bene in realtà nessuna. Una vita che ha fatto di Appelfeld un saggio, già Israel Prize per la letteratura, tradotto in più di trenta lingue, e che oggi alle 21.00 sarà in Italia, ospite del Centro Culturale di Milano (sala di S. Antonio 5), per parlare del suo Badenheim 1939, pubblicato da Ugo Guanda editore. A presentare questo romanzo - la cronaca dell’estate 1939 nella località austriaca di villeggiatura Badenheim, in cui un gruppo di ebrei si illudono di non riconoscere i segnali che li porteranno ad essere vittime delle persecuzioni razziali - saranno Luca Doninelli e Susanna Nirenstein. Coordina Camillo Fornasieri. Nel 1939 a Badenheim nessuno sembra avere paura delle morte. Perché? «Le persone di cui parlo, delle quali descrivo la vita e le esperienze, sono ebrei assimilati. Persone cioè che si sentivano più europee che ebree. Di conseguenza non era possibile per loro avvertire la differenza, in una società di cui erano parte integrante. Per questo psicologicamente rifiutavano l’idea di una persecuzione nei loro confronti. Badenheim è un rifugio estivo e musicale: questa situazione faceva sentire gli ebrei immuni dalla Storia che si stava abbattendo su di loro. Non erano stupidi ma semplicemente ingenui. E soprattutto non si sentivano ai margini della Storia: gli ebrei non solo ascoltavano la musica e pagavano per andare ai concerti. Erano musicisti: suonavano e creavano la musica anche loro». In quel luogo ogni frase, anche ironica, acquista il significato di una profezia. Come quando i protagonisti ripetono: «Andremo in Polonia ». È vero? «È così. Quando i miei protagonisti desiderano andare, ritornare in Polonia, avvertono il loro destino. Ma si tratta, certo, di una cosa inconscia. Il mio desiderio, infatti, non era quello di scrivere un romanzo storico, ma un romanzo dell’inconscio. E l’inconscio parla al di là del cosciente, e delinea il futuro, la Storia. Nessuno dei miei personaggi avrebbe immaginato di raggiungere la Polonia per essere ucciso». Ci si può divertire prima di morire? E come? I suoi personaggi, in un certo senso, lo fanno. «Lo si può fare in molti modi. Il più immediato è godere dei piaceri della vita, a partire da quelli più semplici, come il mangiare, l’amare, il guardare un cielo terso, o fumarsi un sigaro. Sono delle illusioni di gioia e felicità: ma nessuno pensa con freddezza che domani morirà. Ogni giorno quindi è un godersi le gioie della vita prima di goderne una più grande. Io ho una certa età e dovrei convincere me stesso che domani potrebbe essere l’ultimo giorno. Ma continuo a mangiare: si tratta di illusioni di gioia, ma molto umane; rifugi, come quello musicale dei miei protagonisti, per non soffrire fino in fondo la crudeltà delle parole». Ed è possibile vivere meglio e illudersi se il pericolo è un nome e il nemico non ha un volto? «Certo. Ognuno di noi lo fa, quando capita qualcosa di cui non vuole essere cosciente fino in fondo». È un discorso che vale anche per Israele, oggi? «Negli ultimi due anni si parlava di bombe nucleari contro Israele. Ma per vivere diventa necessario alzarsi ogni mattina senza pensare che la bomba potrà scoppiarti in testa. Così abbiamo continuato a mangiare, dormire, divertirci, ridere, sposarci, divorziare, essere felici e piangere, come nulla fosse». Nel mondo molti sono convinti che gli israeliani stiano facendo pagare ai palestinesi ciò che hanno subito sessant’anni fa. È vero o no? «C’è una terra che si chiama Palestina e che ciascuno reclama come territorio proprio. Naturalmente ognuno porta avanti le sue ragioni, ed è facile anche che chi ha una giusta pretesa, come gli ebrei, la trasformi in errore. Peraltro, i politici, che vedono solo il bianco o il nero delle cose, non sono mai disposti a ragionare secondo complessità, perché questa è una questione davvero troppo complicata, piena di sfumature. Ma è opportuno ribadire che gli ebrei non sono dei mostri colpevoli e che gli arabi non sono angeli innocenti». Lei crede in un’ipotesi di pace? «La pace è possibile ma non può avvenire all’improvviso, per magia. Ci sono persone che vivono in entrambi i Paesi e che desiderano la pace. Sarei ottimista: quel giorno verrà». Cosa ne pensa degli ebrei che decisero di combattere accanto ai nazisti? Bryan Mark Rigg nel suo libro «I soldati ebrei di Hitler» rivela che furono centocinquantamila. «Erano pochi e questo mi porta a dire due cose: fu un fenomeno isolato, eccezionale, anche se quegli ebrei erano ascrivibili sempre alla categoria degli assimilati. Come ogni eccezione è un fenomeno che conferma la regola: e cioè che gli ebrei non amavano mica Hitler». Cos’è il silenzio per un ebreo e cos’è il silenzio per Aharon Appelfeld? «Il silenzio ha facce diverse. Nel cuore è importante, così come nella musica e nella scrittura. Se non c’è silenzio nel cuore, il cuore non è buono. Le intenzioni non sono meditate. Così come nella scrittura: la cattiva scrittura è una macchina di parole. Dove c’è silenzio la scrittura e la parola si fanno umane e si preparano al dialogo». «Sono ottimista. Dobbiamo capire che la ragione e il torto non sono solo di parte israeliana o di parte araba».
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