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La Repubblica Rassegna Stampa
01.10.2007 Se la Palestina è impossibile non è colpa di Israele, come pensa Lucio Caracciolo
ma del terrorismo e del rifiuto dell'esistenza di Israele

Testata: La Repubblica
Data: 01 ottobre 2007
Pagina: 29
Autore: Lucio Caracciolo
Titolo: «L'impossibile indipendenza della Palestina»

Da La REPUBBLICA del 1 ottobre 2007, uno stralcio dell´editoriale di Lucio Caracciolo pubblicato nel numero di Limes in edicola, "La Palestina impossibile".

Caracciolo dovrebbe spiegare nel pezzo perché "la Palestina non esiste", non avendo nessuno dei due elementi indispensabili per fare uno Stato.
Ma la sua analisi trascura completamente le responsabilità dei dirigenti palestinesi, risolvendosi in un implicito atto d'accusa contro Israele, falsato da una ricostruzione storica faziosa.

Non c'è solo la falsa e ormai comune accusa di pulizia etnica, nel 48 e oggi.
Caracciolo arriva all'assurdo di definire Hamas "vincitore delle ultime elezioni palestinesi ma battezzato terrorista dalle potenze che contano".
Un gruppo responsabile di efferate campagne di terrorismo suicida sarebbe terrorista solo perché così  " battezzato" dalle "potenze che contano".

Caracciolo non si limita nemmeno al rifiuto di spendere la parola " terrorismo" per le stragi suicide. La sua sottovalutazione del fenomeno è anche politica.
Lo si capisce quando evoca la possibilità che i palestinesi rinuncino ai mezzi violenti e chiedano semplicemente la cittadinanza israeliana:
 " i palestinesi ", scrive "non minacciano l´esistenza di Israele con il terrorismo o con qualsiasi forma di lotta armata. La loro bomba atomica sarebbe la resa".

In realtà, però, è il terrorismo che obbliga Israele a mantenere il controllo della Cisgiordania e dei confini di Gaza.
Le due strategie, terrore e demografia, sono in realtà già usate congiuntamente dai gruppi palestinese e dalla più ampia cerchia dei loro sostenitori.
Da un lato la prospettiva di uno Stato palestinese base di attacchi contro Israele rende ancora inattuabile la spartizione, dall'altro si denuncia un'inesistente regime di apartheid per delegittimare Israele come Stato ebraico.

Ma se la Palestina è "impossibile", è proprio perché il progetto che troppe forse continuano a perseguire non è l'indipendenza nazionale, ma la distruzione dell'indipendenza nazionale di un altro popolo.

Ecco il testo:




 Per fare uno Stato ci vogliono una terra e un popolo sovrano. La Palestina non esiste perché non ha né l´una né l´altro. La terra che per quasi universale convenzione potrebbe spettarle, è controllata da Israele (Cisgiordania) o in mano ad Hamas (Gaza), vincitore delle ultime elezioni palestinesi ma battezzato terrorista dalle potenze che contano. Il popolo è perlopiù in diaspora. Oppure sotto occupazione, umiliato dagli israeliani, ostaggio delle fazioni armate e dei feudatari che si contendono rabbiosamente quanto resta di una terra che sentono propria. E che Israele ha subappaltato a un´amministrazione fantasma – l´assai poco autorevole Autorità nazionale palestinese, in Cisgiordania – o lasciato predare da Hamas, nella gabbia sigillata di Gaza, di cui conserva le chiavi. I più fortunati sono i palestinesi israeliani, pur sempre sorvegliati speciali in uno Stato che non sentono loro ma si tengono strettissimo, perché ci vivono piuttosto bene.
Le cifre della dispersione parlano da sole. Su circa 12 milioni di palestinesi, solo un terzo vive nei Territori occupati. Nella Striscia di Gaza - il territorio più sovraffollato al mondo, vasto quanto la provincia di Prato - si accalca 1 milione e mezzo di disperati. In Cisgiordania, meno estesa della provincia di Perugia, se ne contano quasi due e mezzo. Il resto è cittadino sui generis di Israele (1,3 milioni) o della Giordania (1,1 milioni, rifugiati esclusi), profugo nei paesi arabi vicini (4,5 milioni) o sparso nel mondo (1,2 milioni). Da geopolitica, la questione palestinese rischia di ridursi ad umanitaria. (…)
Che una Palestina davvero indipendente e autosufficiente (viable, in gergo diplomatico) sia ormai impossibile lo temono molti palestinesi. I fatti compiuti sul terreno sono troppo profondi. Il sospetto reciproco fra nemici di lunghissima data sembra trasmettersi per via genetica. Circolano amare battute sul trionfo della soluzione dei due Stati – sì, ma entrambi palestinesi, a Gaza e in Cisgiordania. Il condirettore del Journal of Palestine Studies, Jamil Hilal, ha pubblicato un volume collettaneo in cui studiosi palestinesi (insieme a colleghi israeliani e di altri paesi) ragionano sulla fine del sogno di un proprio Stato nazionale. Dalle ceneri della Palestina alcuni immaginano possa rinascere l´araba fenice dell´Israstina, come Gheddafi battezzò l´ipotesi di uno Stato binazionale sull´intero ex Mandato britannico.
Ma per la grande maggioranza degli israeliani l´Israstina è un incubo. Entro questo decennio fra mare e fiume – Mediterraneo e Giordano – vi saranno più arabi che ebrei. Mentre la diaspora ebraica sembra aver esaurito i flussi verso Israele. Già nel 2003 Olmert fu molto chiaro sulla minaccia demografica: "I palestinesi vogliono cambiare l´essenza del conflitto dal paradigma algerino a quello sudafricano: da una lotta contro quella che chiamano ‘occupazione´ alla lotta per ‘una testa un voto´. Questa è naturalmente una lotta molto più pulita, molto più popolare e alla fine molto più potente. Per noi significherebbe la fine dello Stato ebraico".
Il primo ministro di Gerusalemme coglie un paradosso. I palestinesi non minacciano l´esistenza di Israele con il terrorismo o con qualsiasi forma di lotta armata. La loro bomba atomica sarebbe la resa: sciogliere il fantasma dell´Anp (e dell´Olp), consegnarsi agli occupanti - magari con un festoso referendum nei Territori - e chiedere di diventare cittadini a pieno titolo della democrazia israeliana. Di cui sarebbero ipso facto maggioranza. Annullando d´un colpo la fatica e il sangue di generazioni di sionisti. Oppure gli ebrei d´Israele sarebbero costretti a respingere gli aspiranti israeliani - replicando il piano Dalet adottato nel marzo 1948 per sgomberare dagli arabi il territorio del loro Stato - se non a rovesciare le istituzioni democratiche in nome dell´emergenza etnica. Fantasie, per ora.
Siamo dunque all´impasse totale. I più ottimisti fra i fautori della formula "due popoli due Stati" si aggrappano a uno scenario di medio periodo. Si passerà per la ricomposizione della frattura palestinese attorno a una leadership spendibile e legittimata, insieme a un radicale cambio politico in Israele. A quel punto riprenderà corpo il piano di Ginevra (lanciato nel dicembre 2005), con vari correttivi a consolidare il controllo indiretto dello Stato ebraico sui Territori che dovrà sgomberare. E che considererà sempre, come minimo, sua primaria sfera d´influenza.
Ma prima ancora che nuove e meno precarie élite politiche nei due campi, qualsiasi accordo di pace richiede, per non evaporare nel nulla, un doloroso esercizio spirituale. Il primo presidente di Israele, Chaim Weizmann, amava ripetere che non è difficile mettersi d´accordo fra capi in un albergo di lusso. Il problema è far penetrare la pace nella coscienza di popoli nati, vissuti e formati nell´odio. Possono palestinesi ed israeliani, arabi ed ebrei riprendere ad ascoltarsi, provare a capirsi, rischiare di fidarsi? L´alternativa è perdere tempo. O prenderlo per la prossima guerra.

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