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27.09.2007 |
La politica americana in Iraq secondo Henry Kissinger
l'analisi dell'ex segretario di Stato
Testata: La Stampa
Data: 27 settembre 2007
Pagina: 1
Autore: Henry Kissinger
Titolo: «Iraq, per evitare l'apocalisse»
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Da La STAMPA del 27 settembre 2007:
Sono due le realtà che definiscono i confini di un dibattito serio sulla politica irachena: la guerra non può finire solo grazie a strumenti militari, ma non è nemmeno possibile porvi una «fine» cedendo il campo di battaglia alla sfida jihadista che non conosce frontiere. Le decisioni che l’America dovrà prendere nei prossimi mesi non potranno portare a una soluzione della crisi irachena, e più in generale del Medio Oriente, prima del cambio dell’amministrazione a Washington. Anche quando il ciclo politico porta alla tentazione di lanciare un dibattito basato sui sondaggi, resta l’imperativo di una politica estera bipartisan. L’esperienza del Vietnam è spesso citata come esempio della potenziale débâcle che ci aspetta in Iraq. Ma non impareremo mai le lezioni della storia se continueremo a raccontarcela come un mito. I passeggeri degli elicotteri americani che fuggivano da Saigon non erano militari americani, ma civili vietnamiti. Le truppe americane erano uscite dal Paese due anni prima. A far collassare il Vietnam fu la decisione del Congresso di ridurre di due terzi gli aiuti al Paese, e di tagliarli del tutto alla Cambogia nonostante la massiccia invasione dei vietnamiti del Nord, che violavano gli accordi di pace di Parigi. Perché l’America dovrebbe di nuovo infliggersi una ferita con le proprie mani? Un precipitoso ritiro dall’Iraq non porrà fine alla guerra, ne cambierà solo i bersagli. Nel Paese il conflitto settario potrebbe assumere le dimensioni di un genocidio e riemergerebbero le basi terroristiche. Nell’impatto del ritiro americano il Libano può finire in mano agli Hezbollah, alleati iraniani. Una guerra siriano-israeliana o un attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani diventerà più probabile in quanto Israele cercherà di rompere l’accerchiamento in cui si verrà a trovare. Turchia e Iran schiacceranno l’autonomia curda, i taleban in Afghanistan riceveranno una spinta ad agire. Paesi dove la minaccia radicale è già alta, come l’India, vedranno nuove sfide interne. Il Pakistan, che vive una delicata trasformazione politica, subirà pressioni più radicali e potrebbe addirittura divenire una minaccia. Per ritiro «precipitoso» s’intende una ritirata dopo la quale gli Usa perdono la possibilità d’influire sugli eventi: in Iraq, nella battaglia contro la jihad, nel mondo. Il giusto livello delle truppe da tenere in Iraq non uscirà da un compromesso politico domestico. Si tratta di non trattenere in Iraq forze oltre l’indispensabile. La definizione di «indispensabile» deve basarsi su criteri strategici e politici. Se la riduzione delle truppe diventa una cartina di tornasole per la politica americana, ogni ritiro produrrà richieste di ulteriori riduzioni fino al collasso dell’assetto politico, militare e psicologico. Una strategia appropriata per l’Iraq richiede una direzione politica. Ma essa dev’essere alleata della strategia militare, non una sua negazione. Ritiri simbolici, richiesti da uomini di Stato vecchi e saggi come i senatori repubblicani John Warner e Richard Lugar, potrebbero assecondare la preoccupazione immediata dell’opinione pubblica. Ma devono venire interpretati come palliativi: la loro utilità dipende dall’equilibrio tra la capacità di rassicurare il pubblico americano e quella d’incoraggiare gli avversari degli Usa a credere che si tratti di premesse per un ritiro definitivo. L’argomento che la missione delle truppe Usa dovrebbe essere limitata a combattere il terrorismo, difendere le frontiere e prevenire la nascita di strutture di tipo talebano, rimanendo fuori dagli scontri della guerra civile, potrebbe rappresentare una tentazione. Ma sarebbe estremamente difficile distinguere con precisione tra i diversi aspetti del conflitto. Qualcuno replica che il miglior risultato politico si può raggiungere con un ritiro totale. Ma alla fine i leader verranno ritenuti responsabili - dal loro elettorato, e sicuramente dalla storia - non solo per quello che avevano sperato, ma anche per quello che avrebbero dovuto temere. L’ingrediente che manca è un disegno politico e diplomatico connesso alla strategia militare. Troppo tempo è stato perso nel tentativo di replicare l’esperienza delle occupazioni della Germania e del Giappone. Questi esempi non sono applicabili. La questione non è se le società arabe e musulmane potranno mai diventare democratiche: il problema è se possano diventarlo sotto la guida militare americana, in tempi sostenibili per il processo politico americano. La democrazia occidentale e giapponese si sono sviluppate in società in larga parte omogenee. L’Iraq è multietnico e multireligioso. La setta sunnita ha dominato la maggioranza sciita e soggiogato la minoranza curda per tutta la storia dell’Iraq. In società omogenee una minoranza può aspirare a diventare maggioranza in seguito alle elezioni. Ma ciò è improbabile quando rancori storici vanno lungo linee etniche o religiose, e si rispecchiano nella struttura politica grazie a elezioni premature. Le esortazioni americane per una riconciliazione nazionale si basano su principi costituzionali attinti dall’esperienza occidentale. Ma è impossibile raggiungerla dopo sei mesi dall’incremento delle truppe americane in uno Stato creato artificialmente e dilaniato dall’eredità millenaria di conflitti etnici e settari. L’esperienza avrebbe dovuto insegnarci che il tentativo di manipolare una fragile struttura politica - soprattutto se prodotta da elezioni sponsorizzate dagli americani - di solito fa il gioco dei radicali. Né l’attuale frustrazione per la performance di Baghdad può essere una scusa per imporre a noi stessi un disastro strategico. Non importa quanti americani possano dissentire sull’intervento in Iraq, o sulla politica successiva, ma gli Usa oggi sono in Iraq in buona parte per adempiere all’impegno americano per un ordine globale, e non per fare un favore al governo di Baghdad. È possibile che le attuali strutture di Baghdad siano incapaci di produrre una riconciliazione nazionale, in quanto le elezioni si sono svolte su una base settaria. Sarebbe più saggio concentrarsi sulle tre regioni principali, e promuovere in ciascuna un’amministrazione tecnocratica, efficiente e umana. L’erogazione di servizi, la sicurezza, lo sviluppo economico, scientifico e intellettuale potrebbero rappresentare la migliore occasione per inculcare un senso di comunità. Un governo regionale più efficiente che porta a un calo della violenza, a un aumento della legalità e a mercati funzionanti può, alla lunga, offrire agli iracheni la riconciliazione nazionale, soprattutto quando nessuna regione è abbastanza forte da imporre la sua volontà alle altre. Se si fallisse questo obiettivo, il Paese potrebbe andare verso la deriva d’una partizione di fatto, sotto l’etichetta dell’autonomia, come nella già esistente regione curda. Una tale prospettiva potrebbe spingere le forze politiche di Baghdad verso la riconciliazione. Molto dipende dalla possibilità di creare un esercito autenticamente nazionale al posto dell’agglomerato di milizie concorrenti. La seconda - e decisiva - strada per superare la crisi irachena è quella della diplomazia internazionale. Oggi gli Usa si assumono il maggior fardello militare, politico ed economico per garantire la sicurezza della regione, mentre Paesi che pure ne hanno sofferto le conseguenze restano passivi. Eppure tante altre nazioni sanno che la loro sicurezza interna e, in qualche caso, la loro stessa sopravvivenza dipendono dall’esito della vicenda irachena, e dovrebbero preoccuparsi per i rischi imprevedibili che affronterebbero se la situazione sfuggisse al controllo. Questa passività non può continuare. Il modo migliore per gli altri Paesi di risolvere le loro preoccupazioni sarebbe quello di partecipare alla costruzione di una società civile. Il nostro modo migliore per coinvolgerli è trasformare la ricostruzione in uno sforzo internazionale sotto una gestione multilaterale. Non sarà possibile raggiungere questi obiettivi in un’unica mossa a effetto. Il risultato militare in Iraq dovrà alla fine avere un qualche riconoscimento internazionale. La conferenza dei Paesi limitrofi dell’Iraq, con i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, potrebbe essere una sede. Il ruolo delle Nazioni Unite potrebbe favorire un tale risultato politico. Questa strategia sarebbe alla lunga la migliore per ridurre la presenza militare americana, mentre una drastica riduzione delle forze americane impedirebbe il lavoro della diplomazia e allestirebbe la scena per crisi militari ancora più intense in futuro. Il proseguimento del lavoro diplomatico inevitabilmente pone la questione dell’Iran. La cooperazione è possibile e dovrebbe venire incoraggiata, a condizione che il dialogo si svolga con un Iran in cerca di stabilità e collaborazione. Ma un Iran che pratica la sovversione e cerca l’egemonia nella regione dovrà venire affrontato fissando linee rosse da non superare. Le nazioni industrializzate non possono accettare che le forze radicali dominino una regione dalla quale dipendono le loro economie, e l’acquisizione da parte dell’Iran di armi nucleari è incompatibile con la sicurezza internazionale. Queste banalità devono tradursi in politiche efficaci, preferibilmente da perseguire insieme agli alleati e agli amici. Nessuno di questi obiettivi però può essere raggiunto senza che vi siano due condizioni. La prima è che gli Usa devono mantenere nella regione una presenza sulla quale i loro seguaci possono contare, e che venga presa sul serio dagli avversari. E, soprattutto, il Paese deve riconoscere che una politica bipartisan non è più una tattica, ma una necessità. © 2007 Tribune Media Services, Inc.
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