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La Stampa Rassegna Stampa
27.09.2007 Amato loda il multiculturalismo e l'islamicamente corretto
che però nasconde realtà drammatiche

Testata: La Stampa
Data: 27 settembre 2007
Pagina: 11
Autore: Federico Geremicca
Titolo: «Perché dico si al velo ? Lo portano anche le suore»
Intervista a Giuliano Amato, che ribadisce la sua linea politca "islamicamente corretta", sulla STAMPA del 27 settembre 2007:


All’indomani del suo intervento in consiglio comunale, il sindaco di Genova Marta Vincenzi è tornata a parlare del progetto di costruzione di una moschea a Genova. «Non vi è alcun pregiudizio da parte nostra - ha detto -; la nostra rimane una logica di accoglienza e solidarietà. Se il mio discorso è stato accolto come uno stop alla moschea è stato male interpretato. Le mie parole sono state chiare, si è trattato di una dichiarazione di responsabilità. La moschea sarà costruita in maniera tale da garantire al tempo stesso libertà di culto e sicurezza. Ne torneremo a parlare con il ministro Amato, ma non credo si tratti di una priorità per il 2009». «Sicuramente non verrà posto un referendum popolare per chiedere un giudizio sulla costruzione della moschea - ha concluso il sindaco -. L’obiettivo non è quello di non farla ma di farla bene». In Consiglio Marta Vincenzi aveva parlato di un superamento del punto di vista localistico, per inquadrare la nascita di nuovi luoghi di culto islamici «in un contesto europeo».
Schematizziamo molto e mettiamola così: a torto o a ragione, questo governo passa per essere più severo con gli italiani che con gli immigrati, regolari o clandestini che siano. Per i primi giri di vite, inasprimenti di pene e perfino l’invio a casa di deflagranti verbali di multa, se sorpresi con prostitute; per i secondi, libertà di costruire moschee dove gli pare, musulmane in giro col velo, campi rom ovunque e via elencando. Questa, almeno, è l’accusa che arriva dall’opposizione. Ciò nonostante, di certo in coerenza con valori e posizioni di una vita, qualche giorno fa Giuliano Amato è andato a Firenze e alla platea della Conferenza nazionale sull’immigrazione ha spiegato: «Vietare il velo vuol dire imporre un’ideologia imperialista occidentale agli occhi di chi ci vede diversamente da noi».
Signor ministro, magari non era il caso...
«Era senz’altro il caso, e le spiegherò anche perché. A patto che mi conceda una premessa: che vorrei, però, non suonasse eccessivamente polemica».
Premetta pure.
«Un’opinione pubblica che ha molte ragioni di diffidenza e di difficoltà ha bisogno di una classe dirigente che non esasperi le pulsioni emotive ma che ragioni; che non crei falsi problemi estremizzando la realtà ma si adoperi per trattarla con prudenza e ragionevolezza. Le faccio un esempio: se sappiamo tutti che a Napoli servono sia più poliziotti che più maestri nelle scuole, perché dobbiamo dividerci come se uno sostenesse che servono solo i maestri e un altro solo i poliziotti? Oppure: se siamo tutti d’accordo nel vietare che si possa andare in giro col volto coperto, dunque per esempio col burqa, perché poi riaprire la discussione su una legge che vieti in modo indiscriminato anche di portare il semplice velo? Aggiungo: non riflettendo sulle conseguenze».
Quali conseguenze?
«Per esempio impedire alle suore che frequentano le università di continuare a farlo, a meno che non vi vadano a capo scoperto».
Beh, ci sarà un modo...
«Se si vieta il velo in maniera generalizzata, non credo vi sia un modo. Le suore cos’hanno in testa?».
Il velo, certo. Ma prevedendo delle eccezioni il problema forse si supera, no?
«Allora dovremmo vietare il velo solo alle donne islamiche? Se fai una legge che proibisce di portare il velo nei luoghi pubblici, la prima questione che sorge è: perché una suora può portarlo e una donna islamica no? Osservo: se una islamica fa l’infermiera in un ospedale deve farlo a capo scoperto, e una suora che fa? O smette di fare l’infermiera o lo fa a capo coperto? E perché lei sì e la donna islamica no? C’è una sola risposta: perché la suora lo fa in nome del tuo Dio, mentre l’islamica in nome del suo. E qualcuno ha il coraggio di sostenere che una legge così andrebbe fatta in nome dell’uguaglianza!».
Beh, in Francia esiste una legge che vieta il velo, no?
«Certo, ma è vietato anche il crocifisso. Guardi, è meglio smetterla con discussioni così, perché stiamo solo corrodendo alcuni tessuti di possibile intesa e consenso. Siamo d’accordo a vietare qualunque cosa copra interamente il volto, e dunque il burqa, perché offende la dignità delle donne islamiche. Ma vietare il velo non c’entra niente».
E se le obiettano che non c’è reciprocità di comportamenti, cioè che nei Paesi islamici non ci sono tutele e rispetto per chi professa la religione cattolica?
«Rispondo che il problema esiste e riguarda soprattutto i luoghi di culto, però. L’articolo 19 della nostra Costituzione, infatti, afferma che “tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa...” eccetera eccetera. Il punto possono dunque essere i luoghi di culto: ma anche qui bisogna discuterne evitando demagogie tipo “non costruiscono le case per gli italiani e invece fanno le moschee ai musulmani”...».
Perché non è così?
«Non è così. La moschea se la costruiscono da soli, è un diritto per la realizzazione del quale non attendono i soldi dello Stato. I problemi veri sono altri: e cioè che noi dobbiamo esser certi che la moschea sia finanziata con risorse trasparenti che non fanno capo a centrali del terrorismo e che chi va a predicare la loro religione sia un ministro di culto riconosciuto come tale e non un predicatore di violenza. Insomma, su questa questione - e al netto del fattore-terrorismo - non dovrebbero esistere altri problemi, anche senza reciprocità. Vede, non possiamo sostenere la superiorità della democrazia liberale e poi condizionare i diritti e le libertà che essa riconosce alla reciprocità in tutti i paesi del mondo. Il valore della democrazia liberale è anche nel suo essere esemplare».
Ammetterà che con i tempi che corrono questi principi sono difficili da affermare.
«Ed è infatti questo il problema vero. La questione di fondo è il rapporto con l’Islam e i due diversi problemi che esso ci pone».
Descriva il primo.
«Spesso gli islamici arrivano da paesi molto arretrati e sono portatori, dunque, di valori assai più arretrati dei nostri, che attribuiscono alla loro religione: si pensi, ne parlavamo prima, al ruolo e alla condizione della donna. C’è dunque un conflitto di valori tra società modernizzate e società che ancora non lo sono che spesso assume i caratteri di conflitto tra culture religiose».
E il secondo?
«Nel mondo islamico c’è oggi una fenomenologia degenerata di fondamentalismo bellicoso e distruttivo, e abbiamo ragione di temere che metta radici anche nei nostri Paesi. E’ per la somma di queste due ragioni che l’Islam si presenta come un problema. Per intenderci: se non esistesse Bin Laden e se il fondamentalismo fosse esclusivamente religioso, avremmo soltanto il primo dei due problemi. Invece esistono entrambi, e nell’immaginario collettivo spesso si accavallano, determinando anche qualche confusione».
Per esempio?
«Per esempio quanti italiani sanno che ijhad vuol dire “sforzo per un risultato meritevole” e non semplicemente guerra? La storia dei Paesi musulmani è piena di jihad che sono state fatte per rendere virtuosa la società, per rimuovere ingiustizie. Poi la jihad è diventata anche guerra: ma non è per definizione quella di Bin Laden e dei suoi accoliti. E’ un po’ come le Crociate...».
Che c’entrano le Crociate, scusi?
«A noi è noto che Chiesa e Crociate non sono la stessa cosa: e che una crociata contro il male non significa necessariamente far partire degli uomini armati... Comunque, detto questo, è evidente che bisogna combattere il terrorismo con ogni mezzo a disposizione. Ma ci sono diversi modi per condurre la battaglia: uno è senz’altro prevenire la radicalizzazione dei giovani musulmani. Non possiamo farlo, certo, con i giovani che vivono in Egitto: ma con quelli che sono in Italia, in Inghilterra e nel resto d’Europa sì. Questo significa promuoverne l’integrazione, rendendoli partecipi della la nostra stessa identità: perché la radicalizzazione nasce sempre da un’identità negata».
Difficile che su questo possa trovare solidarietà e consenso da parte del centrodestra, no?
«Esistono differenze nell’approccio, questo è evidente. E da quella parte c’è spesso la propensione a pigiare solo il pedale delle maniere forti. Ma non tutto il centrodestra ragiona così: io e Pisanu, in fondo, magari con accenti diversi, in questi anni abbiamo detto e tentato di fare le stesse cose».

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