La notte delle faville Livio Isaak Sirovich
Mursia Euro 18,00
La salvezza della letteratura verrà dalle frontiere? In un periodo di offuscamento delle capitali dell’impero, gli occhi sono puntati ai margini, per captare ogni segno di vitalità. Culture “altre”, voci di minoranza: cerchiamo tutto quanto appartiene ai confini. Livio Isaak Sirovich ha ottime credenziali biografiche per partecipare al gioco letterario di fuga dal centro. Di madre ebrea lituana tedesca e di padre di antica origine dalmata, è, per di più, insediato a Trieste, caposaldo tradizionale di marginalità creativa.
Nel suo romanzo, “La notte delle faville”, il numero delle frontiere sembra moltiplicarsi in progressione geometrica. A far da sfondo al racconto è
la Carnia
, coi suoi “depositi di ghiaie bianchissime, sfasciati da torrenti”, e le immense pareti dei monti “striate di bave nerastre”. Poi, frontiera nella frontiera, un paesino di inatteso meticciato linguistico. Gli idiomi che si mescolano a Speterborg sono degni di un pastiche rabelaisiano, con i villici che innestano, in una stessa frase, approssimativi stralci d’italiano, frammenti friulani e un loro tedesco medievale, barbaro di suoni come un temporale alpino.
Non meno slabbrato è il filo cronologico, teso tra l’8 settembre, la disfatta finale dei nazisti e la zona franca del dopoguerra. Nessuno sa veramente chi è: non Alvise, voce narrante, indeciso tra un cattolicesimo fiabescamente controriformistico e suggestioni marxiste; non i montanari, disorientati tra ritmi di vita millenari e la guerra e la guerra entro casa; non i partigiani, divisi su tutto, e nemmeno i tedeschi, ormai intrisi di sconfitta.
In fuga dalla milizia repubblichina, Alvise si va a cacciare proprio a Speterbong. In compagnia di questo “forestiero”, che sgrana gli occhi sui “todeschi” del villaggio di confine, e su quegli altri tedeschi, molto più minacciosi, dell’esercito nazista, il lettore si perde in cerchi sempre più larghi d’incertezze.
Mentre infuriano i rastrellamenti, Speterbong viene precariamente reintegrato entro i confini austriaci e gode di una parvenza di quiete. Il parroco del paese, cerca, come può, di contribuire all’ambiguità generale, ingraziandosi contemporaneamente, partigiani, SS, e poveri cristi. Quanto ad ambiguità, don Paolo può, in effetti, molto, forse perché ha da nascondere, visti i tempi, le proprie origini ebraiche.
A questo punto, la scenografia dello straniamento è pronta per l’ingresso di altri attori in maschera. Sono i cosacchi dell’atamano Piotr Krasnòv, che hanno collaborato coi tedeschi in Europa orientale e a cui, in cambio, è stata promessa una improbabile “Kosakenland”, proprio in Carnia. Il fato grottesco e tragico dei cosacchi in Friuli rende ancor più sincopato il ritmo del libro. Quando, in un nevoso maggio, anche quest’armata di fieri straccioni fugge coi tedeschi, rimane a Speterbong, assieme allo stupore dei sopravissuti, un misterioso tesoro.
Il territorio entro cui si muove Sirovich è ad alta densità letteraria. Dei cosacchi hanno scritto, per esempio, Claudio Magris e Carlo Sgorlon. Pure, questa nuova perlustrazione carnica non è priva di scoperte. Sebbene sia solo un piccolo punto sul confine orientale delle patrie lettere, il paesino di Speterbong entra a buon titolo nell’atlante del realismo magico. Del resto, un villaggio simile, con cinquecento anime e un vecchissimo dialetto, esiste davvero. Ma anche se avete il navigatore satellitare è meglio, per trovarlo, portarsi appresso “La notte delle faville”.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore