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Il Foglio Rassegna Stampa
26.09.2007 Ahmadinejad scandalizza i liberal negando che in Iran esistano gli omosessuali
intanto Bush e Sarkozy difendono la libertà all'Onu

Testata: Il Foglio
Data: 26 settembre 2007
Pagina: 3
Autore: la redazione - Marina Valensise
Titolo: «La bomba gay - Bush marcia a fianco dei monaci buddisti - Libertà e giustizia - Europa e sanzioni»
Dal FOGLIO del 26 settembre 2007, un editoriale sul discorso di Ahmadinejad alla Columbia e sulle reazioni suscitate dalla sua negazione dell'esistenza dei gay iraniani.
Ecco il testo:

Mahmoud Ahmadinejad, Iran’s president, told Americans yesterday his country had no nuclear weapons programme, but then called his own credibility into question by insisting it had no gay people either”. Ah, la lingua. Tradotte spicciativamente, queste parole comparse ieri nel sito leftist del Guardian, suonano così. Ahmadinejad ha detto di non volere la bomba, ma poi ha perso la sua credibilità dicendo che nel suo paese non ci sono gay.
Anche dalla cronaca di Maurizio Molinari, per la Stampa, emerge dalla bolla ideologica della Columbia University questa buffa surrealtà. Finché Ahmadinejad si scontra in nome dei principi sacri dell’ospitalità con il presidente dell’Università, Lee Bollinger, che lo ha invitato e poi bollato come spietato dittatore introducendolo al pubblico, la platea è divisa, ma la sua maggioranza occhieggia benevola al capo iraniano. Finché è in questione il diritto di Israele ad esistere, visto che per l’illustre ospite è uno stato razzista che va cancellato dalla carta geografica, qualche buuh viene coperto da atteggiamenti dubbiosi e distinzioni certosine tra ebraismo e politica del governo israeliano, con un pensiero reverente al crudele destino del popolo palestinese. Finché è in ballo l’uranio arricchito, e con esso la minaccia intollerabile di sanzioni e addirittura di guerra a un paese indipendente e sovrano, quel che emerge è la radicale opposizione studentesca e dei docenti pacifisti e orientalisti alla politica di guerra al terrore di George W. Bush e dei suoi accoliti, una mascheratura dei soliti disegni imperialisti. Serpeggiano dubbi, magari, ma si discute. Finché quello dice che la donna iraniana è libera e quella occidentale asservita alla logica del mercato, bisbigli. E anche la negazione della shoah è ormai presso quel pubblico ultraliberal un argomento come gli altri, e Ahmadinejad segna un punto a proprio favore, conquistando consenso quando rivolge il dito ammonitore contro le misure repressive che colpiscono la libertà di ricerca storica in occidente, dove i negatori delle camere a gas se la passano in effetti maluccio.
Però quando un negazionismo circolare porta il presidente iraniano a sterminare in via preventiva i gay del suo paese, negandone senza tanti complimenti la formale e sostanziale esistenza, scoppia un casino indemoniato e Ahmadinejad perde in un boato di dissenso oltraggiato la sua forte credibilità, la sua capacità di mettere in discussione tutto il resto. Felici che per una volta la piattaforma libertaria e desiderante di una platea occidentale, nell’occasione in tema di omosessualità, abbia aiutato a sputtanare almeno parzialmente un dittatore islamista prenucleare, amico e sostenitore del terrorismo, ci limitiamo però ad osservare che, se la gay culture è l’ultimo scudo della decenza politica occidentale di fronte all’assalto dei mullah e dei loro portavoce, la nostra linea di difesa è un po’ fragile.

Dalla prima pagina, un articolo sul discorso di Bush all'Onu:

Con il discorso di ieri all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in cui ha annunciato nuove sanzioni contro la giunta militare che opprime la Birmania con il suo “regime di terrore”, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush ha messo di nuovo sotto il naso degli antibushisti irrevocabili il solito problema. Il presidente mantiene quello che promette, e quello che promette e mantiene sono cose buone e necessarie, nel vecchio senso filosofico “che non potrebbero essere altrimenti”. Al momento della sua seconda investitura, nel gennaio del 2005, tutti si attendevano da lui un discorso di accettazione giocato su uno schema di funzionamento sicuro, metà retorica buona per ogni stagione e metà rivendicazione prudente dei risultati raggiunti fino ad allora (suffragio universale in Iraq e in Afghanistan, reti inviolate sul fronte della sicurezza interna). Poteva tenersi al riparo di una linea difensiva inattaccabile. Il presidente scelse invece il rilancio, con un discorso d’inizio mandato che è diventato il più radicale manifesto libertario degli ultimi decenni. Un discorso che secondo Peggy Noonan, ex speechwriter di Ronald Reagan, sarà ricordato come “The liberty speech”, il discorso della libertà. Questo fu il passaggio più impegnativo, che fece rizzare i capelli sulla nuca dei cosiddetti realisti: “La politica degli Stati Uniti è quella di cercare e di sostenere la crescita dei movimenti democratici in ogni nazione e in ogni cultura, con l’obiettivo finale di porre fine alla tirannia nel mondo”. Capito il presidente petroliere, conservatore, figlio di papà? “Sostenere la crescita dei movimenti democratici in ogni nazione”. Premio finale: la fine della tirannia nel mondo. Due anni e mezzo dopo, Bush procede sullo stesso binario. Stesso mandato, stessa visione, stessa marcia condivisa idealmente con le colonne di monaci rasati che guidano la protesta in Birmania, come l’ha chiamata il presidente con il vecchio nome cancellato dalla giunta militare. Un paese dove i dissidenti politici consumano il tempo della loro pena ai lavori forzati, sul ciglio delle strade e sugli argini in terra dei fiumi o chiusi in gabbie per cani nella prigione di Insein (secondo il rapporto di Amnesty International). Dove la pena per i reati di pensiero parte dai dieci anni di carcere, solo per avere scritto una lettera con contenuto non autorizzato o per avere fatto volantinaggio. Dove l’esercito costringe la popolazione a fuggire dai villaggi, brucia le case e uccide chi tenta di farvi ritorno. Dove la maggioranza degli pseudoministri appartiene alle forze armate. Ora, dice il presidente americano, arrivano sanzioni più dure contro il regime e contro chi lo sostiene finanziariamente e anche un bando sui visti dei responsabili delle violazioni più plateali dei diritti umani. Avviso per la militanza antibushista. Il presidente della libertà George W. Bush ha citato anche Darfur, dove il suo pressing è già decisivo, Cuba e Zimbabwe.

Un confronto tra i discorsi alle Nazioni Unite di Bush e Sarkozy, di Marina Valensise da pagina 1 dell'inserto:

Roma. Francia e America, le due nazioni portatrici di valori universali, mostrano sfumature diverse nel proporre le stesse priorità. Lo dimostrano i discorsi dei rispettivi presidenti tenuti ieri alla 62esima Assemblea delle Nazioni Unite. L’americano George W. Bush ha invocato la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo per affrontare le “minacce a lungo termine” e “i bisogni immediati”. Ha esortato alla liberazione dalla tirannia, dalla violenza, dalla povertà e dalla disperazione. “Il modo migliore per sfidare un estremista è sfidare la sua buia ideologia con un’idea di maggiore speranza”. E in nome della libertà ha chiamato le nazioni a sostenere l’Ucraina, la Georgia, il Marocco, i leader moderati palestinesi, e a rispondere alla richiesta di aiuto di Libano, Afghanistan e Iraq. Contro il regno della paura, che da 19 anni domina in Birmania, Bush ha chiesto nuove sanzioni. E ha chiesto alle nazioni civili di assumersi le loro responsabilità verso regimi brutali e repressivi, come quelli che esistono in Bielorussia, Corea del nord, Siria e Iran. Quando non è la tirannia, è la miseria che va combattuta, dando sostegno all’agricoltura locale, contrastando la malaria che con la puntura di un moscerino uccide milioni di bambini, e favorendo l’istruzione, che aumenta la ricchezza delle nazioni. Infine, Bush si è detto favorevole all’ingresso del Giappone come membro permanente del Consiglio di sicurezza, ma a condizione di una più ampia riforma dell’Onu. Un’ora dopo ha parlato Sarkozy e nel Palazzo di vetro è riecheggiata un’epica solenne. Il presidente francese ha reso omaggio ai fondatori dell’Onu, che in uno dei momenti più tragici dell’umanità hanno opposto alla violenza e alla barbarie la giustizia e la pace. L’Onu, ha detto Sarkozy, fissando i rappresentanti dei 192 membri, “non è una semplice costruzione politica e giuridica, ma il sussulto della coscienza contro tutto ciò che minaccia di distruggere l’umanità”. Lungi dal denunciarne l’inutilità, Sarkozy dunque ha voluto esaltarne i meriti per rafforzarne il ruolo, “perché nessun paese al mondo – ha detto – può combattere da solo le conseguenze del surriscaldamento del pianeta, delle epidemie, dello scontro di civiltà”. Da qui un rinnovato appello alla coscienza universale, e cioè “alla pace, all’apertura, alla diversità e alla gustizia”. Niente buonismo, però, niente irenismo. La dottrina sarkozista è chiara. Fedeltà ai valori comuni e amicizia tra stati non significano sottomissione, la comprensione non vuol dire debolezza, perché “quando si è deboli ci si prepara ad accettare la guerra”, ha spiegato il presidente francese. Perciò fermezza contro il terrorismo, contro le guerre in medio oriente, e ancora di più di fronte alla proliferazione delle armi nucleari. Tolleranza zero con l’Iran, perché è inaccettabile che un regime non democratico disponga dell’atomica, ma al tempo stesso rispetto della diversità, della religion, dell’identità e dei costumi tradizionali, perché negare tutto questo significa alimentare l’umiliazione e l’integralismo fanatico. Sarkozy ha proposto un nuovo ordine mondiale, dove il Libano possa essere realmente indipendente, Israele e i palestinesi vivano in pace, gli iracheni trovino la loro via alla riconciliazione e il mondo intero diventi più giusto. Più tardi, nella conferenza stampa, ha ammesso che paesi come l’India, il Brasile, il Messico e il Sudafrica “oggi meritano di più che un invito a pranzo”, alludendo alla riforma dell’Onu. Ma dalla tribuna del Palazzo di vetro, riprendendo la parola d’ordine di Roosevelt, si è limitato a lanciare un “New Deal” ecologico ed economico su scala planetaria. In un secolo segnato dal ritorno della parità, è il suo pensiero, la comunità internazionale deve avere pari accesso alle risorse vitali, come acqua ed energia, e procedere a una più giusta ripartizione dei profitti e delle rendite. Da qui l’appello messianico a moralizzare il capitalismo finanziario, a battere il sistema delle rendite che penalizza i paesi più poveri, a lottare contro la corruzione e a cambiare mentalità. “Insieme possiamo costruire un avvenire migliore, dipende solo da noi, dalla nostra capacità di essere fedeli ai valori in nome dei quali siamo riuniti qui. La Francia – ha concluso Sarkozy – pensa che non ci sia più tempo di aspettare e incoraggia l’azione a servizio della pace nel mondo”.

La strategia delle sanzioni approntata  da Francia e Germania per fermare l'Iran atomico.

Bruxelles. La proposta del presidente francese, Nicolas Sarkozy, di sanzionare l’Iran fuori dal quadro delle Nazioni Unite costerà caro all’Europa. Nonostante il programma nucleare, il Vecchio continente è rimasto il principale partner commerciale della Repubblica islamica. Nel biennio 2003- 2005, le esportazioni europee sono aumentate del 29 per cento, le importazioni dall’Iran del 62 per cento. Nel 2005, 12,9 miliardi di euro di prodotti industriali e chimici, provenienti in gran parte da Germania, Italia e Francia, sono stati scambiati con 11,4 miliardi di euro di petrolio e gas. Se la Russia si ostinerà a mettere il veto a una terza risoluzione del Consiglio di sicurezza, Sarkozy chiederà all’Unione europea di adottare un “arsenale di fermezza” per convincere i mullah a interrompere l’arricchimento dell’uranio. Oltre alle misure adottate dall’Onu – embargo sui materiali militari legati ai programmi nucleare e balistico e divieto di ingresso per le personalità connesse con l’arricchimento dell’uranio – la Francia vuole sanzioni economiche unilaterali europee analoghe a quelle americane. L’obiettivo è di “colpire i patrimoni del leader del regime e le banche iraniane”, spiegano al Quai d’Orsay. A rimetterci saranno anche le imprese europee, ma è il prezzo da pagare per evitare quella che Sarkozy ha definito “l’alternativa catastrofica” tra “la bomba iraniana e il bombardamento dell’Iran”. L’Eliseo ha deciso di dare il buon esempio e ha chiesto alle imprese francesi di sospendere i nuovi investimenti nella Repubblica islamica. Total e Gaz de France dovranno rinunciare a contratti da tre miliardi di dollari per lo sfruttamento del giacimento di gas di South Pars, per il quale il gruppo petrolifero ha investito in passato altri due miliardi. Le banche Bnp-Paribas e Societé Générale saranno costrette a rallentare le transazioni finanziarie con Teheran. Anche la jointventure automobilistica Renault-Pars potrebbe risentirne. Quella di Sarkozy è una rottura brutale con la politica del predecessore Jacques Chirac. Tra il 2000 e il 2006, gli scambi commerciali tra Francia e Iran e gli investimenti nell’economia iraniana erano aumentati costantemente, arrivando a 21,3 miliardi di euro. Le inchieste e le multe del Dipartimento della Giustizia americano contro le società che fanno affari con la Repubblica islamica avevano imposto maggiore prudenza ai gruppi francesi. Ora la Francia potrebbe chiedere alle sue multinazionali di sospendere tutte le attività iraniane. Resiste soltanto Steinmeier La Germania è l’architrave dell’economia iraniana e da uno scontro a Berlino rischiano di dipendere le sanzioni unilaterali europee. Nel 2005, con 5,5 miliardi di euro, l’Iran era secondo solo alla Cina quanto a garanzie per i crediti alle esportazioni concesse dal governo tedesco, senza cui il 65 per cento del commercio era a rischio. Circa 5 mila imprese tedesche operano in Iran e “i due terzi del settore industriale iraniano dipendono dalla nostra tecnologia”, spiega Michael Tockuss, ex presidente della Camera di commercio germano-iraniana. Nel 2006 Siemens ha firmato un contratto da 450 milioni per la costruzione di 150 locomotive destinate alle ferrovie iraniane, ogni anno Basf fattura in Iran 70 milioni. La cancelliera Angela Merkel ha detto ieri che la Germania è “pronta a chiedere ulteriori sanzioni” perché la bomba iraniana “avrebbe conseguenze devastanti per Israele, l’intera regione e per tutti noi in Europa e nel mondo”. Secondo il settimanale Spiegel, il ministro degli Esteri socialdemocratico e aspirante alla cancelleria nel 2009, Frank-Walter Steinmeier, intende opporsi alle sanzioni europee di Sarkozy, con un dossier per denunciare “l’ipocrisia” di Francia e Stati Uniti. Secondo i dati del suo dipartimento economico, le esportazioni francesi verso Teheran sarebbero aumentate, mentre imprese americane avrebbero aggirato l’embargo in vigore dal 1979 con società di facciata a Dubai. “Le imprese tedesche sono spinte fuori dal mercato iraniano”, accusa il ministero degli Esteri. Tuttavia, è proprio dalla cancelliera che sono partite le pressioni per disimpegnarsi dall’economia iraniana. Dal suo arrivo al potere, Merkel ha convinto Deutsche Bank, Dresdner Bank e Commerzbank a chiudere gli sportelli iraniani e ha tagliato i due terzi delle garanzie ai crediti alle esportazioni. Risultato: per la prima volta, nel 2006 le esportazioni tedesche verso l’Iran sono diminuite. E se in Europa non ci sarà l’accordo, è pronto un gruppo di “paesi volontari” con Regno Unito e Olanda

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