Dal GIORNALE del 26 settembre 2007:
Che cosa significa, in definitiva, la visita del presidente iraniano Ahmadinejad a New York? Il suo scopo, la propaganda dei suoi fini, è stato raggiunto? Oppure la miseria dei suoi discorsi e anche della sua figura, così distante da quella della nobile immagine persiana che ci proviene dalla storia e anche dalla grazia di tanti iraniani, hanno invece giocato contro di lui? L’esposizione a New York, alla Columbia University e al Club della Stampa dell’ignoranza e della retorica del presidente iraniano, la sua presenza all’Onu contengono un bene e un male. Perché è significativo per capire l’effetto dell’invito alla Columbia la risata degli studenti quando Ahmadinejad ha sostenuto per due, tre volte consecutive che in Iran non esistono omosessuali. Ma lo è altrettanto l’applauso quando ha detto, in risposta alla domanda sulle sue intenzioni, più volte ripetute dall’ottobre 2005, di distruggere Israele, che i Palestinesi non devono pagare per gli eventuali (non accertati, secondo la sua versione) crimini dell’Olocausto.
Tre sono i punti fondamentali che possono guidare il giudizio sull’invito ad Ahmadinejad all’Università, e in genere sulla sua visita a New York.
La prima: si è dimostrato attraverso il discorso, bellissimo, del presidente della Columbia Lee Bollinger, e già ne avevamo parlato da queste colonne, che la nostra cultura è un’arma dirimente nello scontro con l’integralismo islamico, che ridicolizza le ragioni del terrorismo e i dittatori perché confrontate con la nostra cultura esse appaiono in tutta la loro disarticolazione; si sente che la sofisticazione della cultura occidentale, la stessa, per dirla in modo sincopato, che ha portato all’emancipazione femminile e ai diritti umani, allo sviluppo scientifico e tecnologico, a Mozart e a Picasso, la cultura capace di mettersi in giuoco mille volte, di autodistruggersi e di risorgere dalle ceneri della sua stessa autocritica, non ha rivali. È un’arma di per sé, se la impugniamo. Essa dà il coraggio che ha dimostrato Bollinger nello sfidare Ahmadinejad con la semplice verità dei fatti, trattandolo da “piccolo odioso dittatore” e spiegandogli il perché: 210 condannati a morte in un anno, di cui 21 solo il passato 15 settembre, la negazione di uno degli eventi più accertati della storia, la Shoah, il brutale attacco dei dissidenti, il sostegno del terrorismo in tutto il mondo, la corsa alla bomba atomica. Chi può andarsi a sentire su internet il discorso di introduzione ad Ahmadinejad lo faccia: è l’esempio di come tutti noi dovremmo parlare all’Iran, sfidandolo sul terreno dei fatti accertati, e poi compiendo dei passi concreti, come ha fatto il presidente offrendo un posto a un professore di pianificazione urbana Kian Tajbakhsh, dissidente iraniano laureato alla Columbia, appena liberato dagli arresti. La sequenza delle accuse è stata porta senza orpelli, con quella brutale sincerità che nessun politico ha mai osato utilizzare: quando parlando della negazione della Shoah Bollinger ha detto ad Ahmadinejad che lo faceva o per disgustosa aggressiva provocazione o per indicibile ignoranza, toccava proprio le corde più profonde del discorso che in generale Ahmadinejad ha introdotto nel mondo. Infatti l’arma di Ahmadinejad è stata, rispondendo alle domande, di negare e negare ancora l’evidenza della sua volontà di distruzione, della condizione femminile conculcata, dei dissidenti martoriati, delle condanne a morte... Il vero non era per lui di nessuna importanza. Ma lo era invece usare stereotipi come quello dei palestinesi sacrificati per Israele, che sapeva avrebbe trovato eco anche fra gli intellettuali.
E qui viene il secondo punto: se è vero che la cultura, il ragionamento, è la grande arma di cui noi Occidentali disponiamo, pure non è possibile contarci fino in fondo. Ahmadinejad è stato battuto, la sua ottusità intellettuale, anche se condita da furbizia, si è certo appalesata, ma non così l’uso degli stereotipi che egli sa essere presenti e determinanti fra i giovani. Dire che Israele è sorto in seguito all’Olocausto è una stupidaggine, tutti lo dovrebbero sapere, ma pochi invece lo sanno o vogliono saperlo; non si vuole ricordare che la prima promessa di uno Stato Nazionale è del 1917 con la dichiarazione Balfour, che nel ’37 con tutte le cautele esso veniva reiterata fino a che nel ’47 ebbe luogo la partizione con i palestinesi, che peraltro non avevano mai, proprio mai, al contrario degli ebrei, avuto uno Stato. Si sa, ma non si ricorda che il primo congresso sionista ebbe luogo a Basel nel 1897, dopo che già una prima Aliah si andava ad unire agli ebrei che sebbene perseguitati sulla loro terra dal 70 dopo Cristo, cioè dalla distruzione del Secondo Tempio da parte dei Romani, erano sempre rimasti in gruppi che a Gerusalemme, a Safed e a Hevron furono quasi sempre maggioranza. Vi erano rimasti, e si moltiplicarono in Europa negli anni delle aspirazioni nazionali, i rappresentanti di quel normale desiderio che per ogni popolo è legittimo, e che solo agli ebrei è sempre stata negata. Ahmadinejad lo sa? Sa che il Mufti di Gerusalemme fu alleato attivo, comunque, del nazismo, e che la responsabilità della Shoah fu anche dei palestinesi? Sa che i palestinesi, nonostante ciò, hanno ricevuto sempre la proposta di uno Stato palestinese a fianco di quello d’Israele, e l’hanno rifiutato? Si suppone che lo sappia, ma molti dei suoi ascoltatori sono prigionieri di uno stereotipo, ed egli lo ha trasmesso di nuovo con forza nel momento in cui istituzioni riverite come l’Onu o la Columbia University, o anche reti importanti come la Cnn lo invitano parlare dai loro scranni. La legittimazione di ciò che potrebbe dire alla Columbia il capo del Ku Klux Klan o Pinochet ancora non è mai avvenuta: e allora perché si è invitato fra la gente decente un personaggio che cerca solo pubblicità e legittimazione? Che usa la libertà d’opinione per negarla?
Quindi, alla fine, e qui è il terzo punto, si ripropone sempre la medesima questione, quella dell’utilità di interloquire e di offrire palcoscenici a chi ha espresso la determinazione a distruggerci, e il suo disprezzo per la nostra civiltà. Anche se si presenta con un sorrisetto da gatto proletario suggerendo alla folla un messaggio amichevole del genere: «Voi poveretti, manipolati da poteri occulti, non sapete niente di quello che vi stanno facendo, ora vi spiego io». Molti rideranno, ma molti invece possono restare irretiti. Parlare con chi ti disprezza è, anche nella vita, altamente dannoso. È deprimente, è degradante, e se il messaggio dell’interlocutore è una velata minaccia di morte, terrorismo in nome di Dio, annichilimento del tuo sistema di vita, ciò è così estraneo al nostro modo di discutere da lasciare i più deboli senza forza, convinti che anche quel punto di vista sia accettabile e che tutte le colpe siano nostre. Nell’era dei media, promuovere il messaggio di chi è dichiaratamente un violento nemico significa farlo passare dentro le nostre linee. È degradante per la nostra cultura accettare un linguaggio misero, una serqua di notorie bugie quando la nostra civiltà ha tutti i mezzi per conoscere la verità, e vuole conoscerla. Prima del viaggio a New York già sapevamo e sappiamo che Ahmadinejad nega la Shoah per avere una scusa per distruggere Israele, che intende farlo, che vede l’Occidente come un luogo di peccato e di menzogna, che crede che il mahdi porterà presto la definitiva vittoria dell’Islam su tutti noi. Non avevamo bisogno di legittimarlo con un invito alla Columbia per saperlo di nuovo. Sappiamo anche che per realizzare i suoi scopi ha messo in piedi un vasto esercito che comprende la Siria, gli hezbollah, Hamas, ormai armati di tutto punto secondo patti e piani ben meditati e di altissimo costo. Il perché l’ha spiegato da solo nel gennaio 2006: «Noi non ci vergogniamo di dichiarare che l’Islam è pronto a governare il mondo». È con questo, non con quell’inutile sorrisetto che dobbiamo confrontarci.
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