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La Repubblica Rassegna Stampa
22.09.2007 Il conflitto tra israeliani e palestinesi
come lo racconta Amos Oz

Testata: La Repubblica
Data: 22 settembre 2007
Pagina: 29
Autore: Amos Oz
Titolo: «La nostra vita sotto il vulcano»

Da REPUBBLICA di oggi, 22/09/2007, a pag. 29, un testo di Amos Oz, dal titolo "La nostra vita sotto il vulcano".

Immaginate un paesino ai piedi di un vulcano prossimo all´eruzione. Per tutta la notte il vulcano trema e sussulta, emette fumo e lapilli, brontola e rimbomba e di tanto in tanto scaglia sul villaggio massi incandescenti.
Qui, nel villaggio, c´è una donna che non riesce a prender sonno. Non perché abbia paura del vulcano ma perché sente che il figlio, sedicenne, nell´altra stanza, si rivolta nel letto, insonne. Il ragazzo non riesce a dormire non per il pensiero del vulcano, bensì perché, nella sua eccitata immaginazione spasima di desiderio per la vedova che abita in fondo al vicolo. E la vedova sta anch´essa sveglia tutta la notte, non per paura del vulcano, ma perché sua figlia, una ragazza giovane, frequenta un uomo che ha il doppio della sua età. Anche l´uomo anziano veglia tutta la notte, non per via dell´imminente eruzione, ma perché agogna ad essere eletto nel consiglio comunale, pur avendo scarse possibilità di riuscire nel suo intento.
Questo contesto immaginario rappresenta Israele in tempo di guerra, di territori palestinesi occupati, di minacce di distruzione, di terrore, di colonie, e di timore per la sua stessa esistenza. La vita quotidiana, la routine, va avanti a dispetto di tutto, prosegue da un anno all´altro nella sua mediocrità e meschinità, con tutta la maestà della sua forza eroica. Uomini e donne annaffiano le piante, crescono i figli, sognano di acquistare un´auto nuova o una nuova casa, discutono con la banca, spettegolano sui vicini e vanno dal dentista per un´otturazione.
Ma non è solo l´immagine di Israele dalla sua fondazione nel 1948 ai giorni nostri. Rappresenta anche la condizione umana in sé. Tutti noi, ovunque, viviamo realmente alle falde di un vulcano attivo. Forse il vulcano mediorientale è più attivo di quello europeo, ma ogni essere umano, in ogni luogo e in ogni epoca vive a stretto contatto con la disperazione, la paura e la catastrofe. Solitudine, delusione, insuccesso, alienazione, disgrazia, malattia, declino, e la morte è sempre in attesa, di ciascuno di noi, appena fuori dalle mura domestiche.
Ciò nonostante il vulcano non controlla la nostra vita e non possiamo consentirglielo. Le nostre notti sono sempre piene – ed è meglio così – di smanie, ambizioni, tutta una serie di progetti e ipotesi, piccole speranze e piccole delusioni, preparativi per il giorno dopo, passioni segrete, e infinita ansia per i nostri cari. Ogni notte, tute le notti, facciamo sogni ridicoli, confusi, vividi. E tutto questo è stato, è e continuerà ad essere oggetto della letteratura della commedia umana. (Non sto parlando per il momento di quel genere di letteratura che ha perso interesse nella nostra tragica farsa, abbandonando il villaggio ai piedi del vulcano per una qualche Disneyland in cui si lancia in corsa su montagne russe verbali).
Ora immaginiamo che nel paesino alle falde del vulcano, oltre alla vedova e a sua figlia, al ragazzo e al politico abiti uno scrittore. Che farà in quelle notti a tratti illuminate dalla lava fiammeggiante?
Finché la vedova resterà sveglia, il ragazzo si rivolterà nel letto in preda alle sue fantasie e il candidato misurerà a passi nervosi la stanza, al nostro scrittore non mancherà il materiale.

Quando ero ragazzo a Gerusalemme avevamo un parlamento di quartiere, ovvero chi aveva desiderio di parlare e discutere si radunava ogni sera nella drogheria all´angolo, di proprietà del signor Auster. Tra i membri del parlamento c´erano ideologi e ideofili, e c´era anche un rilegatore che aveva elaborato in dettaglio un teoria utopica di comunismo erotico globale. Tutti, uomini e donne, sarebbero stati disponibili a concedersi a chi li desiderasse, facendo sparire dalla terra definitivamente odi, gelosie, rivalità, guerre e pregiudizi sociali. Il nostro ideologo espose il suo pensiero in lunghe lettere che inviò a Stalin e, in copia, al Papa a Roma e al Mahatma Gandhi in India. Ma ogni volta che doveva pronunciare la parola "donna" o la parola "gambe", avvampava e iniziava a balbettare. C´era anche un giovane nazionalista radicale che giurava che avrebbe ucciso con le sue mani l´alto commissario britannico a Gerusalemme ma una volta che al signor Auster uscì il sangue dal naso, svenne nella drogheria.
Non ci sarà mai bisogno di cercare nuovi soggetti per la letteratura.
Ma ora domandiamoci: lo scrittore del villaggio ai piedi del vulcano ha anche una qualche responsabilità di carattere morale, sociale o politico? Deve alzar la voce per protesta? Ogni giorno? Tutto il giorno? O forse solo una volta la settimana?
Mettiamola in questi termini: uno scrittore lavora con le parole. Da mattina a sera è circondato dai trucioli e dalla segatura del suo linguaggio, come un falegname lo è dai vapori del legno e della colla. Questo impone allo scrittore una responsabilità nei confronti del linguaggio. Ovunque parole cariche d´odio siano brandite come un´ascia contro determinati gruppi di esseri umani ben presto comparirà una vera ascia. Lo scrittore può fungere da pompiere del linguaggio o quanto meno da rivelatore antincendio. Può farlo, quindi deve.
Ecco un esempio che mi riguarda personalmente: le parole "cosmopolita", "parassita" e "intellettuale disimpegnato" sono epiteti spregiativi usati sia dai nazisti che dai comunisti. Mio padre e mia madre, i miei nonni e le mie nonne, appartenevano per lo più proprio a questa categoria: erano intellettuali europei cosmopoliti. I nazisti e per i comunisti li giudicavano anche dei parassiti, così cacciarono i miei nonni e i miei genitori dall´Europa negli anni ´30. Li cacciarono disgustati perché in quegli anni i miei familiari, ed altri ebrei come loro, erano gli unici europei nell´intera Europa. Tutti gli altri erano patrioti lettoni o patrioti serbi. In quegli anni i muri d´Europa erano coperti di scritte piene d´odio: «Ebrei tornate in Palestina», proprio come oggi quegli stessi muri sono coperti di scritte piene d´odio che dicono: «Fuori gli ebrei dalla Palestina». In realtà i miei familiari furono fortunatissimi. Se l´Europa non li avesse cacciati negli anni ´30 trenta, la Germania li avrebbe ammazzati negli anni ´40.
Cosmopoliti, parassiti. Intellettuali disimpegnati. Uno dei compiti dello scrittore è intervenire e dare l´allarme ogni volta che il linguaggio, che è il suo strumento di lavoro, viene profanato. Ogni volta che un gruppo etnico o religioso o di altro genere riceve epiteti come "feccia", "cancro" o "minaccia strisciante", lo scrittore deve intervenire e, quanto meno, suonare la campana del villaggio.

E cosa non dovrebbe fare?Non dovrebbe rinunciare alla sua particolare attitudine ad avere una visione d´insieme e non scambiarla con una semplicistica nel momento in cui prende una posizione politica. Molti intellettuali europei si beffano degli americani in genere e di Hollywood in particolare per la visione del mondo superficiale e infantile tipica dei film western, in cui è sempre chiaro chi sono i buoni e chi sono i cattivi. Ma nel momento in cui quegli stessi intellettuali europei si esprimono sul conflitto in medio oriente, subito ricalcano la sceneggiatura di un western hollywoodiano.
Sono irresistibilmente spinti a schierarsi dalla parte dei buoni e a condannare i cattivi, a firmare petizioni, ad organizzare manifestazioni per i buoni contro i cattivi per poi farsi una bella dormita.
Quando si discuteva di colonialismo e decolonizzazione era facilissimo individuare i buoni e i cattivi. Durante la guerra nel Vietnam era facile e giusto non fare sfumature. Di fronte all´apartheid in Sud Africa era chiaro chi fossero le vittime e chi i carnefici. Ma il conflitto arabo-israeliano non è un film western, è una tragedia. Una tragedia nell´antica accezione del termine: lo scontro tra due facce della giustizia. Gli arabi palestinesi sono in Palestina perché la Palestina è la loro patria. Non hanno altra patria nel mondo. Gli ebrei israeliani sono in Israele perché per migliaia di anni non è esistito un altro paese in cui gli ebrei, come nazione, potessero sentirsi in patria. Come individui sì, ma come nazione gli ebrei non hanno mai avuto altra patria che Israele.

metà degli ebrei israeliani, come i miei familiari, sono stati cacciati fuori a calci dall´Europa. L´altra metà è stata scacciata, o è fuggita appena in tempo dalle terre degli arabi e dei musulmani.
Così né i palestinesi né gli israeliani hanno un altro posto dove andare. Poiché non c´è modo di costringerli a diventare una famiglia felice (gli israeliani e i palestinesi non sono una famiglia – sono due famiglie infelici), la loro piccola abitazione deve essere divisa in due appartamenti ancor più piccoli in cui possano vivere come vicini di casa. Una sorta di divorzio di velluto come quello tra i cechi e gli slovacchi. E´ tutto così dolorosamente semplice, e sarà questa la realtà, perché non esiste altra possibilità.


rubrica.lettere@repubblica.it

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