L'ESPRESSO di questa settimana pubblica due interesssanti servizi su Primo Levi. Il primo, di Meron Rapoport, è una ricostruzione che tende a riproporre la tesi di un supposto complotto israeliano, cioè ignorare i libri del grande scrittore torinese. Il secondo è invece la registrazione della deposizione di Levi una volta tornato a casa.
Partiamo dalla tesi del complotto. Abbiamo conosciuto troppo bene Levi per crederci, anche se la voce di una sua esclusione dalla cultura israeliana circolava già negli anni '70. Ma non la prendeva sul serio nemmeno lui. Il fatto è che l'opera di Levi ha incontrato il successo mondiale solo dopo la consacrazione americana, dovuta in larga parte a Philip Roth. Eravamo presenti quando i due si incontarono a Torino (prima la loro era una conoscenza solo epistolare), e fu dopo quell'incontro che,grazie all'influenza di Roth, Levi ebbe quell'enorme successo negli Stati Uniti, che dura tuttora. E' opportuno ricordare che quando scrisse " Se questo è un uomo", il libro, su consiglio di Natalia Ginszburg, venne respinto dall'editore Einaudi. Uscì da un piccolo editore torinese, De Silva. Il successo di Primo Levi venne dopo, solo quando alla Einaudi si accorsero dell'enorme errore commesso e ripararono con la stampa di tutti i suoi libri. Si può affermare che i suoi libri sono stati, e sono, i più letti- e amati- dagli italiani. Anche in Europa, la fama gli giunse un poco allavolta, prima in Francia poi in Germania, meno in Inghilterra, dove arrivò in seguito all'enorme successo di critica e vendite in Italia.Primo Levi, ce lo confidò molte volte, era dispiaciuto di non avere traduzioni in ebraico, anche perchè non era assolutamente vero che non fosse sionista. Lo dimostra l'ultimo romanzo che scrisse " Se non ora quando", una storia di tragedia e salvezza che si chiude nel nome di Israele. Per copertina volle i colori bianco e azzurro, come la bandiera israeliana, se questo non è sionismo.... e poi si può essere sionisti anche senza vivere in Israele. Levi consosceva molto bene l'editoria internazionale,era al corrente delle dinamiche che ne regolano la produzione, sapeva anche che il tema della Shoah molti erano gli scrittori ad averlo affrontato, non era il solo. Sapeva però di non essere solo quel tipo di scrittore, come i i suoi libri successivi hanno poi dimostrato. Voleva scrivere un seguito a " Se non ora quando", ambientato in Israele. Purtroppo la morte ha vinto sulla sua vita terrena, quel libro non uscirà più.
Ecco i due servizi dell'ESPRESSO:
Meron Rapoport-Ma Israele lo ignorò
La scoperta del testo di Primo Levi che leggete qui non è risultato di una lunga e travagliata ricerca. 'La deposizione del Dott. Primo Levi, abitante in Torino, C. Vittorio 67' giaceva da quarantasette anni nell'archivio di Yad Vashem, e reca in testa il timbro in ebraico e in inglese 'Central Archives for the Disaster and the Heroism'. 'Disaster' era un goffo tentativo di rendere in inglese l'intraducibile parola Shoah. E Yad Vashem è il più importante centro di documentazione della Shoah, appunto. Un giorno dunque, una studiosa israeliana, Margalit Shlain, preparando, per un convegno, una relazione sulla 'Percezione dell'opera di Primo Levi in Israele' ha pensato di visitare quell'archivio, e così ha trovato la deposizione di Levi stilata a Roma il 14 giugno 1960, e giunta a Yad Vashem nello stesso anno.
Della Shoah, dei suoi molteplici aspetti, ci si occupa in Israele quotidianamente. E allora può essere difficile capire come un testo di uno scrittore come Levi, conosciuto in tutto il mondo per i suoi libri su Auschwitz, non sia stato ritrovato per così lungo tempo. La direzione dell'archivio di Yad Vashem ha detto a 'L'espresso' che la deposizione di Levi arrivò nelle loro mani nel 1960 insieme ad altri documenti provenienti dall'Italia. Levi l'avrebbe affidata ai rappresentanti della magistratura israeliana che lavoravano all'istruttoria del processo ad Adolf Eichmann, l'ideatore della 'soluzione finale del problema ebraico', catturato in Argentina dagli agenti del Mossad nel 1960 (il premier David Ben Gurion ne diede l'annuncio alla Knesset il 23 maggio di quell'anno). La testimonianza di Levi, racconta Shlain, insieme ad altre 50 testimonianze di ebrei italiani, venne trasmessa agli uffici della Procura a Gerusalemme, ma Levi non fu chiamato a testimoniare davanti al tribunale che condannò Eichmann a morte.
Il processo di Eichmann non era un semplice atto giudiziario. Nei primi anni dell'esistenza dello Stato di Israele della Shoah si parlava pochissimo. Il processo, trasmesso in diretta dalla radio per mesi e mesi, era, per Ben Gurion, un'ottima occasione per presentare lo Stato ebraico come l'erede di un ebraismo ferito a morte, un erede che ha però imparato la lezione (mai più Auschwitz e mai più vita in Diaspora), e per raccontare la Shoah al pubblico israeliano. Ecco perché il pubblico ministero Gideon Hausner pensò di convocare come testimoni persone che fossero conosciute al pubblico. Uno di questi era Yehiel Dinur-Feiner, un reduce di Auschwitz, che firmava con lo pseudonimo Ka-Tzetnik i suoi libri un po' scandalistici e con scene molto crude sugli orrori dei campi di sterminio e che era molto popolare negli anni Cinquanta in Israele. Lo scrittore svenne sul banco dei testimoni dopo aver pronunciato parole che sarebbero rimaste impresse nella memoria degli israeliani: "Sono venuto da un altro pianeta, dal pianeta delle ceneri che si chiama Auschwitz".
Levi non era a Gerusalemme. In Israele, Levi era sconosciuto. Così rimase quasi fino alla sua morte. Nel 1968 fece una visita in Israele con una delegazione di partigiani di Torino. Lo storico Isaac Garti lo incontrò a Gerusalemme. Garti aveva letto in italiano 'Se questo è un uomo', era rimasto commosso e voleva tradurlo. Levi, ricorda Garti, era molto interessato a una traduzione del libro. "Aveva contattato parecchie case editrici, ma tutte avevano rifiutato. Gli dicevano: 'Un altro libro sulla Shoah? Ne abbiamo fin troppi. Nessuno lo comprerà'". Levi, ricorda Garti, sorrideva dicendo che capiva benissimo. Un eco di questo incontro con l'incomprensione della sua opera in Israele, si ritrova nella prefazione che Levi scrisse per la traduzione de 'La Tregua', il suo primo libro uscito in ebraico nel 1979. "Sono molto felice e fiero che la mia 'Tregua' vede luce in Israele, molti anni dopo la sua nascita in Italia", scriveva. "Non è strano che il mio primo libro, 'Se questo è un uomo', non sia tradotto in ebraico. 'Se questo è un uomo' è un diario di un campo di concentramento, un soggetto troppo conosciuto". 'La Tregua', sosteneva Levi, racconta invece una storia inedita, per cui era ragionevole sperare in un suo successo. La speranza venne delusa. 'La Tregua', nella sua prima edizione israeliana ha venduto 500 copie. 'Se questo è un uomo' è stato pubblicato in Israele, nella traduzione di Garti, soltanto un anno dopo la morte di Levi. Perché tanto ritardo? Ariel Rathaus, professore di letteratura italiana all'Università di Gerusalemme, dice che Israele segue l'America. Quando in America si cominciò a parlare di Levi (metà anni Ottanta), anche in Israele ci si accorse di lui. 'Il sistema periodico' uscì nel 1987 ed ebbe successo. Più tardi anche gli altri libri di Levi sono stati tradotti in ebraico: il ritardo era solo questione di moda.
Non tutti sono d'accordo. Dan Miron, autorevole critico letterario, ha scritto che l'establishment israeliano non poteva accettare Levi perché il suo modo di concepire la Shoah era contrario alla maniera in cui Israele voleva vedere quel periodo. L'Auschwitz di Levi, dice Miron, non era "un altro pianeta", ma "la continuazione e la manifestazione della 'normale' condotta umana". Israele invece voleva trattare la Shoah come un evento unico, ragione per cui, "il migliore scrittore della Shoah" era ignoto agli studenti israeliani. Anche per Margalit Shlain non è stato un caso se Levi è stato ignorato. Israele cercava eroi, e Levi non era un eroe. La letteratura israeliana sulla Shoah versava sul patetico e Levi guardava Auschwitz con un occhio quasi calmo. E poi non era sionista. Oggi le cose sono cambiate: nei licei si studiano i racconti di Levi, all'università si scrivono tesi sulla sua opera. Perfino Olmert ha citato Levi in uno dei suoi discorsi. Ma poi il convegno per cui Shlain ha scritto la relazione sulle opere di Levi ha avuto luogo in Belgio, non in Israele, e anche lì quel testo che qui potete leggere è stato solo menzionato, non citato nella sua interezza. Per Levi in Israele la strada è ancora lunga.
L'ESPRESSO riproduce fedelmente un documento trovato negli archivi di Yad Vashem (l'istituto per la memoria della Shoah) di Gerusalemme. Si tratta di una deposizione di Primo Levi, in cui lo scrittore dà conto delle sue vicende a partire dal 9 settembre 1943 e fino al ritorno a casa, nell'ottobre 1945.
Odissea Auschwitz di PRImo levi
Roma 14 Giugno 1960
DEPOSIZIONE DEL DOTT. PRIMO LEVI abitante in Torino - C.Vittorio 67
Il 9 settembre 1943 insieme ad alcuni amici mi rifugiai in Val d'Aosta e precisamente a Brusson, sopra St.Vincent, a 54 km. dal capoluogo della regione.
Avevamo costituito un gruppo partigiano nel quale figuravano parecchi ebrei fra i quali ricordo GUIDO BACHI, attualmente a Parigi in qualità di rappresentante della Soc. OLIVETTI, CESARE VITA, LUCIANA NISSIM sposatasi poi con Momigliano e attualmente domiciliata a Milano e autrice del libro: 'Donne contro il mostro'; WANDA MAESTRO, deportata e deceduta in un campo di sterminio.
Si aggregò a noi un tale che si faceva chiamare MEOLI e che, essendo una spia non tardò a denunciarci. Ad eccezione di CESARE VITA, che riuscì a fuggire, fummo tutti arrestati il 13 settembre 1943 e trasferiti ad AOSTA nella caserma della Milizia Fascista. Lì trovammo il centurione FERRO, il quale, saputo che eravamo tutti laureati, ci trattò benevolmente; egli fu poi ucciso dai partigiani nel 1945. Debbo confessare che, come partigiani, noi eravamo piuttosto inesperti; non meno inesperti però ci apparvero i militi fascisti che imbastirono una specie di processo. C'era fra loro un italiano dell'Alto Adige che parlava perfettamente il tedesco; un certo CAGNI che aveva già denunciato un'altra banda partigiana e c'era pure il 'nostro' MEOLI. Essi pretendevano da noi i nomi di altri partigiani e sopra tutto quelli dei capi. Per quanto forniti di documenti falsi, dichiarammo subito di esser ebrei, il che ci risultò poi vantaggioso, dato che la perquisizione effettuata nelle nostre stanze fu talmente superficiale che nella mia non vennero neppure rinvenuti i fogli clandestini e la rivoltella che vi avevo nascosti. Il centurione, appreso che eravamo ebrei e non dei 'veri partigiani' ci disse: "Non vi succederà nulla di male; vi invieremo al campo di FOSSOLI, presso Modena".
Ci veniva regolarmente distribuita la razione di vitto destinata ai soldati e alla fine di gennaio 1944 ci portarono a Fossoli con un treno passeggeri.
In quel campo si stava allora abbastanza bene; non si parlava di eccidi e l'atmosfera era sufficientemente serena; ci permisero di trattenere il denaro che avevamo portato con noi e di riceverne altro da fuori. Lavorammo in cucina a turno e assolvemmo altri servizi nel campo, fu organizzata anche una mensa, in verità piuttosto scarsa!!
Trovai a Fossoli ARTURO FOÀ di Torino, che guardavamo con certa diffidenza conoscendo le sue simpatie per il Fascismo; tutti i mendicanti del ghetto di Venezia e i vecchi di quell'ospizio. Ricordo una certa Scaramella e una USIGLI.
C'erano pure da 2 a 300 jugoslavi e alcuni sudditi inglesi.
Quando il 18 febbraio apprendemmo che erano giunte in paese le SS tedesche, ci allarmammo tutti e infatti il giorno successivo ci avvertirono che saremmo partiti entro 24 ore. Nessuno tentò di fuggire.
Ci caricarono su vagoni bestiame sui quali era scritto: 'Auschwitz' nome che in quel momento non ci diceva proprio nulla..... Il viaggio durò tre giorni e mezzo; avevamo preparato una scorta collettiva di viveri che ci avevano autorizzato a recare con noi. Eravamo 650 ebrei....
Durante il viaggio la scorta di SS si dimostrò dura e inumana; molti furono picchiati a sangue. All'arrivo ad Auschwitz ci chiesero chi fosse capace di lavorare. Rispondemmo in 96 affermativamente, dopo di che ci condussero a 7 km. dal campo a BUNA MANOWITZ (in realtà Monowitz ndr.). 26 donne capaci di lavorare furono trasferite al campo di lavoro di Birkenau; tutti gli altri furono avviati alle camere a gaz!!!
Nel nostro campo di lavoro v'erano alcuni medici ebrei. Ricordo il Dott. COENKA di Atene, il Dott. WEISS di Strasburgo, il Dott. ORENSZTEJN, polacco che si comportarono assai bene; non posso dire la stessa cosa del Dott. SAMUELIDIS di Salonicco che non ascoltava i pazienti che a lui si rivolgevano per cure e denunciava gli ammalati alle SS tedesche!!! Parecchi medici francesi di nome LEVY risultarono invece piuttosto umani!
Il nostro capo reparto era l'ebreo olandese JOSEF LESSING, di professione orchestrale; ebbe ai suoi ordini da 20 a 60 uomini e, nella sua qualità di responsabile del 98 reparto, si dimostrò non soltanto duro, ma malvagio.
Fra i lavoratori di quel campo ricordo un certo DI PORTO di Roma, un certo PAVONCELLO, LELLO PERUGIA pure di Roma, EUGENIO RAVENNA commerciante e GIORGIO COHEN di Ferrara, nonchè un tale VENEZIA mezzo greco da Trieste. Il 95% dei lavoratori di quel campo erano ebrei!! La direzione della fabbrica, nella quale ho prestato la mia opera, non volle allora riconoscerci gli emolumenti dovutici per legge e avvenne così che, rientrato in patria, dopo parecchi anni, in seguito ad una azione legale comune intentata dai superstiti contro quella fabbrica, mi vennero riconosciute e liquidate Lit. 800.000 quale mercede dovutami a termini di legge!!!
Dopo l'arrivo delle truppe sovietiche, venimmo nuovamente trasferiti al campo di Auschwitz, in attesa di poter esser rimpatriati.
L'odissea del ritorno fu piuttosto lunga; i russi ci dissero che avevano soltanto la possibilità di rimpatriarci via mare, imbarcandoci niente meno che ad Odessa!!
Ci trasferirono prima a Katowice, poi a Minsk, poi a Sluck e, quando Dio volle, rientrammo finalmente in Italia.
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