Comunisti e islamisti uniti contro il "nemico comune" l'idillio dei terroristi di Nablus
Testata: La Stampa Data: 20 settembre 2007 Pagina: 3 Autore: Francesca Paci Titolo: «A Nablus, dove Hamas spaventa Abu Mazen»
Comunisti e islamisti uniti nella lotta al comune nemico israeliano e all'Autorità palestinese lontana dal popolo. Il reportage di Francesca Paci da Nablus è costruito intervistando terroristi, che non vengono mai chiamati con con il loro nome e vengono idealizzati come coraggiosi combattenti e come rappresentanti dei sentimenti del "popolo". Ecco il testo:
Gaza è perduta, ammette il comandante Sharon Biton, responsabile dell’amministrazione civile di Giudea e Samaria, l’unità delle Forze armate israeliane che collabora con la polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese per garantire la sicurezza nei Territori. Dal suo ufficio, nella base di Beit El, si vede uno dei check point di Ramallah. Laggiù, al di là del blocco, l’umore è lo stesso: «Gaza è perduta», concordano nei corridoi della Muqata, il parlamento palestinese. Il problema oggi è evitare che la guerra civile tra Hamas e Fatah dilaghi in Cisgiordania, a Hebron, Betlemme, Jenin. E soprattutto a Nablus, «la capitale del terrorismo» per i servizi segreti israeliani, dove martedì, durante una delle irruzioni quotidiane dell’esercito con la stella di David nelle sezioni di Hamas, è rimasto ucciso un giovane soldato originario del Golan. Un incidente? No, la prova del nove del terremoto in arrivo, secondo il comandante Biton: «Se i nostri militari si ritirassero, anche la Cisgiordania sarebbe perduta nel giro di pochi mesi». Per capire la polveriera palestinese bisogna andare a Nablus, seconda città dei Territori, 250 mila abitanti di cui un terzo stipati nei campi profughi, 700 morti durante l’Intifada di al Aqsa, quattro check point blindati a bloccare le arterie principali, il 60 per cento di disoccupazione e le pregiate pietre esportate un tempo in tutto il Medio Oriente abbandonate nella cava deserta, munizioni d’emergenza quando il kalashnikov è temporaneamente fuori uso. «Qui siamo tutti armati perché dobbiamo difenderci dagli israeliani e da noi stessi», spiega Asem Abdalhadi, membro dell’ufficio politico del Palestinian Peoples Party, il partito comunista palestinese che resiste al terzo piano di in una palazzina scalcinata e senza bandiere accanto al suq della frutta. Accende una Davidoff dopo l’altra e soffia via il fumo verso la finestra incorniciata da un poster di Che Guevara e uno della Cupola della Roccia a Gerusalemme. Sessantaquattro anni, le dita ingiallite dal tabacco, la sagoma inconfondibile di una pistola sotto la camicia a quadri, all’altezza della cintura, il compagno Asem è il termometro della crisi palestinese. Sebbene non raggiunga neppure il 3 per cento dei voti, il suo partito, a Nablus, lavora gomito a gomito con Hamas. Uniti contro Fatah: «Certo loro sono molto religiosi e noi materalisti atei, ma ci rispettiamo. Siamo entrambi nemici della corruzione e dell’occupazione, quando la Palestina sarà uno Stato ci scontreremo alle urne...». Cala il silenzio. Nella stanza è entrato, felpato, Abu Osam Schackual, trent'anni, barba lunga scura, camicia abbottonata sul collo. Non si è fatto annunciare: è un uomo di Hamas, passava di qua ed è salito «per un saluto». L’amministrazione di Nablus è in mano a Fatah, ma nella medina, la città vecchia cuore della resistenza dell’Intifada al Aqsa, sventola incontrastato il vessillo verde di Hamas. Qui, tra i vicoli polverosi, gli edifici spettri dell’antico splendore archittetonico, le lapidi degli shahid, i martiri adolescenti che segnano ogni angolo come funeste pietre miliari, i blindati israeliani irrompono ogni notte, cercano casa per casa i nemici d’Israele e dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ahmed al Aez, storico leader locale di Hamas, è stato arrestato ieri mattina, il collega Amjed Alia Saad Zamal la settimana scorsa, due ragazzi sono stati uccisi dieci giorni fa e la conta dei feriti negli scontri bifronti, con l’esercito nemico e con la polizia «sorella» del presidente Abu Mazen, è senza fine. Secondo un sondaggio dell’Università cittadina A-Najah, una delle maggiori in Cisgiordania con 18 mila iscritti provenienti anche dalla diaspora, la popolarità di Hamas sarebbe in calo. Il 78 per cento dei palestinesi è rimasto deluso dalla performance del partito islamico, spiega l’analista Hussein Ahmed: «Alla prova dei fatti, gli uomini di Ismail Haniyeh si sono dimostrati uguali a quelli di Fatah, tradendo le speranze che li avevano portati al potere». Eppure i graffiti sui muri sbrecciati dai proiettili raccontano un’altra storia: «Never forgive, never forget». Non perdonare, non dimenticare. Nablus ricorda. «Siamo un bersaglio perché abbiamo la fama di essere una città di combattenti, il cuore politico della Palestina», dice Aluit Hamed, 27 anni, referente locale di organizzazioni non governative prestigiose tipo Care ma impossibilitato a uscire dalla città. «Gli israeliani rilasciano permessi solo a chi ha compiuto quarant’anni, io sono in un età a rischio terrorismo». Aluit non simpatizza per Hamas, piuttosto per la bandiera rossa del compagno Asem, ma si dissolve nell’umore della medina, un corpo unico con i ragazzini che giocano mimando una raffica di mitra e le ragazzine incantate davanti ai bazar con gli zainetti di Fulla, la Barbie islamica velata di nero fino ai piedi. «Il nemico comune annulla le nostre differenze», osserva Tasir Alhrat, 38 anni, medico e frequentatore abituale del ristorante Kunafa, punto di riferimento degli amanti del thaine, una crema agliosa da mangiare con la pita. Chi è il nemico comune di Hamas, dei comunisti, della gente qualsiasi di Nablus, ieri capitale economica della Cisgiordania oggi «capitale dei terroristi»? Israele ma anche l’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen, percepita come estranea, impersonale, distante quanto Ramallah. Un’afasia quanto il silenzio inquietante della città vecchia, che può far perdere anche la Cisgiordania. 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