Iran: serve il coraggio di dire la parola "guerra" l'editoriale di Fiamma Nirenstein sulle dichiarazioni di Bernard Kouchner
Testata: Il Giornale Data: 18 settembre 2007 Pagina: 18 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «La guerra come antidoto»
Dal GIORNALE del 18 settembre 2007:
Dire la parola «guerra» è di per sé, in Europa, un gesto di coraggio. Il fatto solo di pronunciarla senza paura, come ha fatto il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, ha un valore innovativo molto preciso: esso indica infatti all’Europa la strada della deterrenza attiva nei confronti di un nemico estremista e omicida, l’Iran, che prepara il potere atomico mentre minaccia l’Occidente e per primo Israele, con i suoi annessi strategici, la Siria, e connessi, Hezbollah, Hamas, Jihad Islamica... «Nemico» per noi europei è un concetto tabù. Noi «parliamo», «dialoghiamo», convinti che la pace sia raggiungibile purché la si persegua. Ripetiamo la sciocchezza che «con i nemici si dialoga»: attenzione, si parla con chi è determinato a diventare tuo amico anche se ci sono conflitti in atto, non con chi vuole semplicemente distruggerti in nome di Dio. Il mondo occidentale democratico creò strumenti di deterrenza, come la Nato, quando l’Urss lo minacciava negli anni della Guerra Fredda. Ma dagli anni ’50 il fardello della vera deterrenza è stato solo sulle spalle degli Usa e anche di Israele, che affrontava in Medio Oriente lo schieramento arabo che di fatto serviva all’Urss da ripostiglio strategico. L’Europa scivolava, negava la dura realtà cercando ogni strada per non rompere con quello che invece era di fatto anche il suo nemico comunista. Vedeva, certo, che la deterrenza era l’arma che, per esempio, consentì di vincere la potenza comunista, basta pensare alla crisi cubana del 1962; vedeva che la costruzione della centrale di Dimona da parte israeliana era insieme all’eccellenza dell’esercito israeliano una muraglia filoccidentale che difendeva anche il vecchio Continente dalla creazione di un Medio Oriente sovietizzato. Capitanata proprio dalla Francia, l’Europa ha scelto la debolezza a fronte di uno schieramento islamista che ha stretto patti di ferro nel 2005, che diventa sempre di più un largo esercito misto di sunniti e sciiti, che si avvale dei civili e usa il terrorismo contro i civili, armato con missili ultimo modello, con un progetto di «reconquista», e con intenzioni atomiche. Adesso Kouchner, che già durante la sua visita in Irak aveva mostrato di capire la necessità di una forte alleanza interatlantica, di fatto, sia detto dunque senza l’ombra di biasimo, usa toni di minaccia: se l’Iran continua a costruire la bomba atomica, alla fine saremo costretti a fargli la guerra. È il ristabilirsi della deterrenza. Ahmadinejad, che neppure per un giorno ci priva delle sue minacce, deve essere rimasto di sale a sentire quella parola: guerra, nella bocca di un francese. Mentre Kouchner conduceva per mano l’Europa sulla soglia di una deterrenza attiva, seguito poco dopo timidamente da Ulrich Wilheelm, portavoce del governo tedesco (anche se dalla Germania viene un doppio messaggio sulle sanzioni) e dal ministro degli Esteri Martin Jaeger, Israele meditava una frase del generale Amos Yadlin, capo dei servizi dell’Esercito, detta in una riunione della Knesset: «Abbiamo ristabilito la deterrenza nei confronti della Siria e dell’Iran». Yadlin si riferiva, senza però concedere una parola (nessuno qui parla) all’operazione compiuta nel nord della Siria su una struttura che pare fosse, secondo informazioni non controllate ma sempre più definite, un deposito o una raffineria di materiali nucleari nord coreani, frutto di compravendite collegate alle attività iraniane sul territorio sia nord coreano sia del suo alleato siriano. Le fonti sono molteplici e specifiche. Perché Yadlin parla di deterrenza? Israele dopo la guerra contro gli hezbollah ha avuto certo un gran calo nell’opinione pubblica araba, si è sparsa l’idea che sia facilmente battibile. Adesso il fatto che una squadriglia di 8 Raam F15I, l’ultima generazione di bombardieri che può volare per 2000 chilometri, accompagnata da un Elint, un jet da ricognizione, abbia in ordine: attraversato uno spazio così lungo nel cielo siriano e su quello turco (in Turchia si sono ritrovati i serbatoi scaricati dagli aerei israeliani), e chissà dove altro, senza essere intercettati; che siano stati messi fuori uso, certo con mezzi elettronici, i sistemi antimissili Pantsyr russi comprati con l’aiuto iraniano; che, come sembra dimostrato da immagini, sia stato probabilmente scavato un cratere togliendo di mezzo rifugi sotterranei; che i Paesi arabi non reagiscano con decisione; che, soprattutto, sia stata colpita una «facility» di cui si dice che sia nucleare... tutto questo parla in lingua deterrente allo schieramento khomeinista-qaedista dicendo: possiamo, sappiamo, osiamo colpire. Senza attaccare il Paese, solo le strutture pericolose. Senza infierire, senza vendicarci, ma non ci faremo intimidire da nessuno. Questa azione, simile a quella dell’81 a Osirak se non per il silenzio israeliano, marcia parallela alla ripresa di un discorso realistico sull’Iran da parte degli Usa, che stanno ponderando di nuovo, pare, l’eventualità di distruggere le centrali in costruzione, e al cambiamento di linea della Francia. E noi? Seguiteremo a essere disperatamente arretrati, a credere nel potere della parola anche quando si tratta di Hamas, degli Hezbollah, di Ahmadinejad che ci mandano continui chiarissimi messaggi? Continueremo a parlare con Bashar Assad, cercheremo la fiducia di Nasrallah, ci sforzeremo di essere simpatici a Khaled Mashaal e soprattutto a Ahmadinejad? Non serve invece un inno europeo di orgoglio che somigli un po’ alla Marsigliese?
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