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Il Mattino Rassegna Stampa
15.09.2007 Sabra e Shatila sul quotidiano napoletano
Una rievocazione che ha dell'incredibile

Testata: Il Mattino
Data: 15 settembre 2007
Pagina: 12
Autore: Stefano Poscia
Titolo: «Sabra e Shatila, memoria di una carneficina»

Nella gara con il MANIFESTO, oggi vince il MATTINO, il quotidiano napoletano. Baste leggere, nemmeno con tanta attenzione la rievocazione di Sabra e Shatila di Stefano Poscia uscito il 14/09/2007, per rendersene conto.

1) dopo una ricostruzione dell'eccidio, ecco che ritorna il vecchio ritornello, Sharon non l'ha fermato, quindi il responsabile è lui, è Israele.

2) è completamente mistificata la situazione libanese, non v'è traccia di un qualsiasi riferimento all'occupazione da parte dei palestinesi dell'OLP  di Arafat, che provocò la reazione dei cristiani maroniti, autori della strage

3) con chi se la prendono i famigliari degli uccisi ? con chi ha commesso il crimine ? con la Siria ? no di certo, davanti al tribunale internazionale è Sharon che vogliono portare. Incredibile, ridicolo, sono gli aggettivi che di debbono usare per defini l'articolo del MATTINO.

Sabra e Shatila, memoria di una carneficina

 
 


STEFANO POSCIA
Beirut. Ali e Zeinab avevano 10 e 16 anni. Non passa il dolore di Samiha Ijazi, che 25 anni dopo piange sempre i due figli, massacrati dai miliziani falangisti durante la strage del 1982. E le sue lacrime sono contagiose nel piccolo gruppo di rifugiati palestinesi riunito nella povera abitazione nel campo profughi di Shatila, alla periferia sud di Beirut. «Era il tramonto di giovedì, io ero nel rifugio e Ali e Zeinab erano da mio cognato Fahad. Hanno iniziato a sparare e lanciare bombe illuminanti e un'ora dopo ho incontrato la mia vicina, Um Salah, e le ho detto: ”Il mio cuore sanguina. Sento che hanno ucciso i miei figli”», racconta questa donna libanese di 68 anni, vedova di un palestinese «scomparso» nel 1976 a Tal al-Zaatar, l'altro campo profughi nella zona est di Beirut espugnato dopo 53 giorni di combattimenti dalle milizie falangiste grazie alla complicità dell'esercito siriano. «Ci ho messo una settimana a ritrovarli: Zeinab era stata sgozzata, come mio cognato, mentre Ali era senza cervello. Li abbiamo avvolti nelle coperte. Mi ricordo tutto, ma non ce la faccio a parlarne. La mia vita è stata spezzata», continua Samiha, mostrando le foto dei due figli massacrati. Le stesse portate qualche anno fa a Bruxelles, dove un gruppo di famigliari delle vittime di Sabra e Shatila aveva cercato di far processare Ariel Sharon, l'ex premier israeliano che, all' epoca della strage e in veste di ministro della Difesa, era al comando dell'esercito che aveva invaso il Libano e le cui truppe circondavano i due campi profughi alla periferia di Beirut. Sono passati 25 anni dal massacro di Sabra e Shatila. In quelle misere baraccopoli, fra il 14 e il 16 settembre 1982, fu scritta una delle pagine più nere del conflitto mediorientale, con circa 1500 vittime (ma secondo altre stime i morti sarebbero stati anche di più), tra cui molte donne e bambini. Da mesi il Libano viveva una forte tensione. Nel Paese erano entrate le truppe israeliane. La situazione precipitò il 14 settembre, quando a Beirut fu assassinato il presidente Bashir Gemayel, cristiano maronita. La vendetta dei falangisti, una formazione estremista di destra alleata dei maroniti, fu tremenda e si abbattè sui palestinesi inermi dei campi di Sabra e Shatila, che niente avevano a che fare con l'omicidio Gemayel. L'eccidio fu scoperto il 18 settembre e il giorno dopo le sconvolgenti immagini di corpi trucidati e ammucchiati fecero il giro del mondo. Accuse pesanti furono rivolte all'esercito di Israele e al ministro della Difesa Ariel Sharon, per non aver fermato il massacro. Una commissione d'indagine israeliana inchiodò alle sue responsabilità Sharon che, travolto dalle polemiche, fu costretto alle dimissioni. Nel 2001 la denuncia di un gruppo di palestinesi e libanesi fece aprire un'inchiesta in Belgio contro Sharon per crimini contro l'umanità. Poi l'inchiesta belga fu archiviata e nessuno è mai stato processato. «Ho portato le foto dei miei figli in Belgio per far processare Sharon, ma mi hanno detto ”no, no, no”. Ho capito subito che cane non morde cane», racconta Samiha. Ma per un attimo, il suo pensiero e quello degli altri palestinesi riuniti nella povera casa va anche ai nuovi ospiti accolti a Shatila: 250 famiglie di rifugiati fuggiti da Nahr al-Bared, il campo profughi nel nord del Libano raso al suolo in 105 giorni di combattimenti tra esercito e miliziani integralisti di Fatah al-Islam. «Nel 1982, siamo scappati e ci hanno costretti ad andarcene dalle nostre case senza neppure le scarpe. Proprio com'è successo adesso a Nahr al-Bared», commenta Samiha, mentre non lontano è in corso una distribuzione di aiuti (cibo, medicinali, detersivi) raccolti per i fuggiaschi di Nahr al-Bared dall'Associazione dei medici dell'Università americana di Beirut. «Nahr al-Bared non c'entra niente con le aggressioni israeliane contro palestinesi e libanesi. Quello di Sabra e Shatila è un evento del tutto diverso», osserva Wassim Farhat (60 anni), un altro sopravvissuto al massacro del 1982, che rivendica orgoglioso la sua quarantennale militanza in Al-Fatah, il movimento fondato da Arafat

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