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Il Foglio Rassegna Stampa
14.09.2007 In Iraq l'America può raggiungere i suoi obiettivi
un editoriale del Wall Street Journal sul rapporto Petraeus

Testata: Il Foglio
Data: 14 settembre 2007
Pagina: 3
Autore: un giornalista
Titolo: «Dopo Petraeus, tocca a Bush»
Il FOGLIO del 14 settembre 2007 pubblica a pagina 3  un editoriale del Wall Street Journal sul rapporto Petraeus:

I due uomini che, meglio di chiunque altro, potevano fare un quadro della situazione irachena onesto ed esauriente sono sfilati davanti al Congresso per dire – e dimostrare – che il “surge” funziona e che gli obiettivi che l’America si era posta sono ancora a portata di mano. Il fatto che la prova tangibile di questi progressi non abbia trovato spazio nei titoli di testa dei principali media è però un segnale di come sia orientato il dibattito politico negli Stati Uniti. La “notizia”, infatti, è sembrata essere più che altro la raccomandazione del generale Petraeus, che ha acconsentito a un limitato ritiro dall’Iraq di cinquemila uomini entro la fine dell’anno e alla possibilità, se si continuerà a registrare progressi, di tornare a uno schieramento di forze in campo ai livelli precedenti all’inizio del “surge” entro il prossimo luglio. La notizia non è di poco conto, ma ha finito per oscurare il messaggio, più ampio, delle testimonianze rese dal generale e dall’ambasciatore Crocker. E cioè che gli Stati Uniti stanno guadagnando terreno in Iraq e lo stanno facendo, spesso, nel modo più imprevedibile. Prendiamo alcuni stralci della testimonianza di Crocker. Il governo iracheno mette all’asta la copertura dei telefoni cellulari e incassa quasi 4 miliardi di dollari, andando oltre le migliori previsioni. A una recente conferenza a Dubai, “centinaia di uomini d’affari iracheni si sono incontrati con altrettanti investitori stranieri interessati all’acquisto di azioni delle imprese irachene”. Il petrolio iracheno esce ora dal paese grazie agli oleodotti turchi e il Fondo monetario internazionale prevede per l’Iraq una crescita economica del 6 per cento quest’anno. Nei pressi di Abu Ghraib 1.700 uomini – molti dei quali ex insorti sunniti – si sono uniti alle forze di sicurezza irachene a maggioranza sciita. Il governo iracheno sta offrendo posti di lavoro o la possibilità di andare in pensione a migliaia di ex militari, molti dei quali erano un tempo membri del partito Baath. E lo sta facendo significativamente senza compiere passi politicamente sensibili come la dichiarazione di un’amnistia generale o il varo di una legge di debaathificazione del paese. Come nota Crocker, questi sviluppi “non sono né misurabili in obiettivi, né tantomeno visibili da chi è lontano da Baghdad”. E’ un punto, questo, che sembra essere sfuggito ai democratici che siedono nelle commissioni Forze armate e Affari esteri del Senato, come ai repubblicani come John Warner e Dick Lugar. La loro visione collettiva sembra essere che l’Iraq è una causa persa perché il governo del primo ministro Nouri al Maliki non ha raggiunto la “riconciliazione nazionale” sulla base di una serie di obiettivi legislativi che non sono ancora stati centrati.
A dire il vero, non conosciamo nessuno che si opponga alla “riconciliazione nazionale”, sebbene solo a Capitol Hill essa pare misurata più con il metro della quantità di leggi approvate che non con quello della qualità della vita dei cittadini iracheni. E sì che negli Stati Uniti solitamente si utilizza il metro inverso. E poi la “riconciliazione” non è un qualcosa che precede temporalmente il raggiungimento di un livello minimo di sicurezza. Ne è la conseguenza.
Nella sua audizione il generale Petraeus ha fatto notare come in Iraq le morti violente di civili siano scese del 45 per cento a livello nazionale e del 70 a Baghdad. Gli attentati con autobomba o kamikaze sono diminuiti del 50 per cento da marzo a oggi, un’altra sorprendente inversione di tendenza. E anche in questo caso le buone notizie arrivano dal luogo più inaspettato: la provincia di Anbar, dove leader tribali sunniti (uno dei più importanti è stato ucciso ieri, ndr) e molti ex insorti hanno capito che il modo migliore per curare i loro interessi è stare con gli Stati Uniti e con un governo iracheno democratico dove possono aspirare ad aver voce in capitolo, e non rimanere al fianco di al Qaida. I critici dicono che questa loro presa di coscienza non abbia nulla a che fare col “surge”, ma di sicuro i capitribù non avrebbero rischiato di combattere al Qaida se non avessero creduto alla volontà di Stati Uniti e governo iracheno di restare al loro posto e prevalere sul nemico. E i progressi ad Anbar sarebbero stati più difficili da ottenere se solo Maliki non avesse acconsentito al riarmo dei capitribù sunniti, nonostante questo atto metta in pericolo, in prospettiva, il mantenimento del potere da parte degli sciiti. Maliki ha anche dimostrato coraggio politico permettendo agli americani di dare la caccia all’Esercito del Mahdi di Moqtada al Sadr, che soltanto un anno fa aiutò l’attuale primo ministro a ottenere il suo incarico. Sadr ha recentemente accettato un cessate il fuoco unilaterale dopo l’attacco, portato a termine dai suoi uomini, contro i fedeli sciiti a Kerbala. Come è successo anche ad al Qaida in Iraq, anche a Sadr la situazione può essere sfuggita di mano, e una ragione in più perché il “surge” continui è dare il tempo al generale Petraeus di neutralizzare altri elementi dell’Esercito del Mahdi, così da aiutare le forze di sicurezza irachene – dopo il “surge” – a mantenere l’ordine pubblico.

La lezione degli ultimi mesi
Un altro elemento mancante è la “non interferenza” dei vicini dell’Iraq negli affari del paese. Con il candidato alle primarie democratiche Dennis Kucinich presente, lo stesso che ha reso omaggio alla corte di Damasco questa settimana, è stato particolarmente utile sentire il generale Petraeus descrivere come “maligno” il ruolo svolto dalla Siria in Iraq e fornire i dettagli di come l’Iran partecipi alle uccisioni di soldati americani e di leader governativi iracheni. Le nostre stesse fonti ci dicono che le milizie sostenute dall’Iran sono ormai responsabili del 70 per cento dei ferimenti di militari statunitensi. Il problema dell’Iran in Iraq varrebbe da solo un altro editoriale, ma con il “surge” ancora in corso d’opera il presidente Bush dovrà dare prova a Teheran di far seguire le parole ai fatti, e che ci saranno “conseguenze” per le uccisioni di americani. Finora Bush ha dimostrato il contrario.
Quanto alla politica americana, infine, la lezione degli ultimi mesi è che non si guadagna terreno a Capitol Hill promettendo il ritiro delle truppe. Come l’esperienza del Vietnam ha già dimostrato, questi ritiri diventano rapidamente una droga parlamentare. Tutti gli americani vogliono meno truppe in Iraq. La maggior parte degli americani vuole anche, però, che la ritirata sia onorevole e vittoriosa. L’unico modo per fermare, o diradare, le richieste di troppo rapidi ritiri è riuscire a ottenere altri successi militari e politici in Iraq. Il successo del “surge” raggiunto finora ha dato a Bush più tempo e un più ampio sostegno per premere per un’iniziativa che porti a soluzioni per Baghdad e il medio oriente. E’ al generale Petraeus e alle truppe americane che egli deve la possibilità di sfruttare questa apertura su tutti i fronti. Compresi la Siria e l’Iran.
© The Wall Street Journal
per gentile concessione di MF

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