La democrazia possibile in Iraq il rapporto dell'ambasciatore a Baghdad Ryan Crocker al Congresso americano
Testata: Il Foglio Data: 13 settembre 2007 Pagina: 2 Autore: Ryan Crocker - Christian Rocca Titolo: «Il rapporto Crocker sulla democrazia possibile in Iraq - Il "fixer" era contrario alla guerra, ora si oppone al ritiro»
Dal FOGLIO del 13 settembre 2007:
Signor Presidente, la ringrazio per avermi dato l’opportunità di rivolgermi al Congresso questa settimana. E’ un privilegio e un onore per me poter servire il mio paese in Iraq in un momento in cui la posta in gioco è tanto elevata per gli Stati Uniti e per gli abitanti di tutta quella regione, e mentre molti valenti americani fanno lo stesso nell’esercito e nell’Amministrazione. So che sulle mie spalle grava la responsabilità di dare al paese il meglio di me, la valutazione più onesta della situazione in Iraq e delle sue ripercussioni sugli Stati Uniti. Gli americani, sia quelli riuniti in questa sala sia tutti gli altri, vogliono qualcosa di più di un semplice aggiornamento sugli ultimi avvenimenti. Vogliono avere risposta ad alcune domande chiave. I nostri obiettivi sono realistici? E’ possibile che l’Iraq divenga un paese unito e stabile, con un governo democratico che agisce secondo i princìpi dello stato di diritto? Qual è la strada intrapresa, e l’Iraq, nel complesso, si sta muovendo nella giusta direzione? Possiamo aspettarci qualcosa di più e in che tempi? Il nostro paese ha alternative possibili e migliori? Si tratta di domande che una nazione che tanto investe e sacrifica per un altro paese e un altro popolo ha ragione di porsi. Ma quando ci poniamo queste domande non dobbiamo perdere di vista l’interesse vitale degli Stati Uniti in un buon risultato in Iraq. E’ mia intenzione oggi darvi una valutazione degli sviluppi politici, economici e diplomatici in quel paese. Nel farlo non minimizzerò l’enormità delle sfide che il suo popolo deve affrontare, né la complessità della situazione. Ma allo stesso tempo voglio dimostrare che è possibile per il nostro paese vedere realizzati i propri obiettivi e che gli iracheni sono in grado di gestire e risolvere i problemi cui si trovano di fronte oggi. Un Iraq sicuro, stabile e democratico, in pace con gli stati confinanti è possibile. A mio giudizio, la traiettoria generale degli sviluppi politici, economici e diplomatici tende verso l’alto, anche se l’andamento della curva che descrive non è ripido. Il processo non sarà veloce, sarà accidentato, costellato di passi indietro e progressi, e richiederà grande determinazione e impegno da parte nostra. Non ci sarà un solo momento in cui potremo cantare vittoria; ogni svolta decisiva sarà probabilmente riconoscibile solo a posteriori. Questa è una valutazione sobria, ma non vuole essere scoraggiante. Ho trovato utile, nel periodo trascorso in Iraq, riflettere sulla nostra storia. Molte volte, nei primi anni, la nostra sopravvivenza, in quanto nazione, fu in dubbio. Gli sforzi di costruire le istituzioni di governo non furono sempre coronati da successo al primo tentativo. E alcune questioni fondamentali, come la schiavitù, il suffragio universale, i diritti civili e i diritti degli stati federati, furono risolti solo dopo dibattiti aspri e talvolta con la violenza. In Iraq è in corso una rivoluzione, non soltanto un cambiamento di regime. Solo capendolo possiamo valutare esattamente quanto sta succedendo in Iraq e quanto i suoi abitanti hanno già raggiunto, ed essere contemporaneamente realistici in merito alle sfide che rimangono. Valutare la posizione degli iracheni oggi ha senso solo nel contesto della posizione in cui erano precedentemente. Prima della liberazione, quattro anni e mezzo fa, qualunque iracheno sotto i 40 anni, ovvero la stragrande maggioranza della popolazione, non conosceva nulla al di fuori del potere del partito Baath. Quei 35 anni sono stati pieni d’ogni sorta di crimini contro l’umanità. Saddam Hussein amministrava il potere senza alcuna pietà, senza esitare ad usare la forza letale e la tortura anche contro chi faceva parte della sua cerchia più stretta. La sua campagna di sterminio contro i curdi e la crudeltà nei confronti degli Sciiti del sud del paese sono ben noti. Ma usò la violenza e l’intimidazione anche come strumenti per giungere alla completa distruzione della società irachena: nessuna organizzazione o istituzione potè sopravvivere, se non era legato in qualche modo alla protezione del regime; creò un clima diffuso di paura, in cui anche i membri della stessa famiglia avevano paura a parlarsi. Questa era l’eredità che costituiva la storia irachena quando la statua di Saddam crollò, il 9 aprile 2003. Non esisteva alcun Nelson Mandela che potesse emergere sulla scena politica nazionale; chi avesse avuto il suo talento nel guidare un popolo non sarebbe sopravvissuto. Bisognava costruire un nuovo Iraq, quasi letteralmente dal nulla, e persino gli architetti di quel nuovo paese, nella maggior parte dei casi, erano ridotti ad una identità basilare, etnica o settaria. Si sono fatti molti progressi, in particolare nella costruzione di un quadro istituzionale dove prima non c’era nulla. Ma in particolare gli ultimi 18 mesi, invece di aiutare a superare animosità e sospetti, hanno messo a dura prova la società irachena. La violenza settaria del 2006 e del primo 2007 affondava le radici nell’opera di distruzione sociale di Saddam, con conseguenze spaventose per il popolo e per la classe politica iracheni. Gli spostamenti di massa e i numerosi omicidi settari di al Qaida e di altri gruppi estremisti hanno logorato ulteriormente il tessuto già debole della società e della politica irachena. Non è un’esagerazione dire che l’Iraq è, e per qualche tempo rimarrà, una società traumatizzata. E’ su questa tela di fondo che dobbiamo vedere gli sviluppi in Iraq. I suoi cittadini si trovano ad affrontare sfide politiche, economiche e di sicurezza tra le più gravi che possano esistere. Non si stanno solo dibattendo per definire chi debba governare l’Iraq, si chiedono invece che tipo di paese sarà, come sarà governato e come i suoi abitanti condivideranno risorse e poteri gli uni con gli altri. La costituzione approvata in un referendum nel 2005 ha dato risposta ad alcune di queste domande in teoria, ma molto rimane incerto sia in termini di diritto che nella pratica. Alcuni degli sviluppi più promettenti a livello politico nazionale non possono essere misurati con semplici paragoni o non sono visibili da chi è lontano da Baghdad. Per esempio, tra i rappresentanti politici iracheni e, cosa ancora più importante, all’interno della comunità sunnita, sta nascendo un dibattito sul federalismo. Chi vive in luoghi come al Anbar e Salahaddin comincia a capire che il fatto che le comunità locali possano avere più di una voce in capitolo nel processo decisionale quotidiano può portare all’emancipazione delle loro comunità. Non si vede più in una Baghdad onnipotente la panacea per tutti i mali del paese. Queste riflessioni sono ancora in erba, ma sono fondamentali per l’evoluzione di un progetto comune a tutti i rappresentanti politici iracheni. Similmente, a Baghdad si percepisce una frustrazione palpabile di fronte al sistema partigiano utilizzato per suddividersi le spoglie del paese negli ultimi anni. I rappresentanti delle varie comunità riconoscono apertamente che l’essersi concentrati su benefici settari ha portato ad una cattiva amministrazione e non ha reso un buon servizio al paese. E molti sostengono di essere pronti a compiere i sacrifici necessari per mettere il buongoverno al di sopra dei timori settari ed etnici. Queste idee non sono più controverse, anche se la loro applicazione potrebbe esserlo. Finalmente vediamo che gli iracheni tentano di risolvere le questioni complesse non definendo prima un quadro nazionale, ma affrontando i problemi più immediati. Un esempio in questo senso è il modo in cui il governo centrale ha accettato oltre 1.700 giovani uomini provenienti dall’area di Abu Ghraib, a ovest di Baghdad, compresi alcuni che avevano fatto parte dei gruppi degli insorti, che sono confluiti nelle forze di sicurezza irachene. E anche il modo in cui il governo, senza troppi proclami pubblici, ha contattato migliaia di persone che lavoravano nell’ex esercito iracheno, offrendo loro una pensione, la possibilità di tornare a far parte delle forze armate o del pubblico impiego. Così, senza proclamare un’amnistia generale, la si concede coi fatti e si fa avanzare una riforma che libera il campo dai baathisti prima di averla approvata con leggi nazionali. In entrambi i casi, si stanno piantando i semi della riconciliazione. Il nostro paese però ha finito per associare l’idea di avanzamento verso la riconciliazione nazionale con l’approvazione di progetti legislativi fondamentali. C’è una logica dietro quest’idea, perché le leggi che noi chiediamo agli iracheni sono, in un modo o nell’altro, legate alla questione delle modalità di suddivisione delle risorse e dei poteri tra le tante comunità irachene. E sono legate al progetto di un futuro stato iracheno. Le norme per la suddivisione del petrolio e dell’indotto, per esempio, riguardano questioni più serie che non la semplice volontà degli iracheni che abitano in zone ricche di petrolio di condividere la loro ricchezza con gli altri connazionali. La difficoltà di queste leggi sta nel fatto che esse farebbero fare al paese un altro passo lungo il cammino che porta a un sistema federale, un sistema che non tutti hanno ancora ben compreso. Ma, una volta di più, vediamo che anche in assenza di un progetto legislativo si agisce nella pratica, perché il governo centrale condivide gli introiti provenienti dal petrolio in modo equo con tutte le province irachene, tramite lo stanziamento dei fondi. Sotto molti punti di vista, il dibattito attualmente in corso in Iraq è simile a quello che riguardava il movimento per i diritti civili o la lotta per il riconoscimento dei diritti degli stati federati negli Stati Uniti. Grazie alla de baathificazione, gli iracheni lottano per venire a patti con un passato brutale. Cercano di trovare un equilibrio tra la paura del possibile ritorno al potere, un giorno, del partito baathista, con il riconoscimento del fatto che molti ex membri del partito non hanno commesso alcun crimine e sono entrati a far parte dell’organizzazione non per reprimere gli altri ma per ragioni di sopravvivenza individuale. Col conferimento dei poteri alle province affrontano questioni molto serie, che riguardano il giusto equilibrio tra centro e periferie in Iraq. Alcuni ritengono che la concessione di quei poteri a regioni e province sia la migliore garanzia contro il futuro emergere di una figura tirannica a Baghdad. Altri ritengono che l’Iraq, per la sua complessità demografica, abbia bisogno di un’autorità centrale forte. In breve, non dobbiamo essere sorpresi né sgomenti perché gli iracheni non sono ancora riusciti a risolvere del tutto questi punti. Piuttosto, dovremmo chiederci se il modo in cui li stanno affrontando non indichi la loro serietà e sostanziale capacità di risolvere i problemi fondamentali dell’Iraq. L’insieme dei rappresentanti politici nazionali iracheni è pronta a fare dell’Iraq una priorità, mettendolo al di sopra degli interessi delle singole sette e comunità? Può e vuole raggiungere un accordo sull’Iraq che ciascuno di loro desidera? Credo che essi vogliano affrontare i problemi più stringenti per il paese, anche se ci vorrà più tempo di quanto avevamo inizialmente previsto, a causa dell’ambiente in cui operano e della gravità delle questioni che devono risolvere. Il primo ministro al Maliki e altre personalità politiche in Iraq hanno di fronte enormi ostacoli nel loro tentativo di governare in modo efficiente e svolgono il proprio compito con un profondo senso di impegno e patriottismo. Parte importante del mio giudizio positivo viene dagli sforzi fatti durante l’ultima estate: il 26 agosto, dopo settimane di lavori preparatori e molti giorni di incontri febbrili, le cinque maggiori personalità politiche del paese, provenienti dalle tre comunità principali, hanno diffuso un comunicato che rendeva noto un accordo in merito ad una proposta di legge sulla debaathificazione e sui poteri delle province. L’accordo non risolve certo tutti i problemi iracheni, ma l’impegno dei rappresentanti politici a lavorare insieme sulle questioni più spinose è incoraggiante. Forse l’elemento più significativo è stata la decisione congiunta dei cinque di esprimere pubblicamente il desiderio comune di sviluppare una relazione a lungo termine con gli Stati Uniti. Nonostante le molte differenze quanto a punti di vista ed esperienze, si sono trovati tutti d’accordo nel voler inserire nel testo alcune espressioni che riconoscono la necessità di una presenza continua delle forze multinazionali e che dicono la loro gratitudine per i sacrifici che quelle forze hanno compiuto per gli iracheni.no legate al progetto di un futuro stato iracheno. Le norme per la suddivisione del petrolio e dell’indotto, per esempio, riguardano questioni più serie che non la semplice volontà degli iracheni che abitano in zone ricche di petrolio di condividere la loro ricchezza con gli altri connazionali. La difficoltà di queste leggi sta nel fatto che esse farebbero fare al paese un altro passo lungo il cammino che porta a un sistema federale, un sistema che non tutti hanno ancora ben compreso. Ma, una volta di più, vediamo che anche in assenza di un progetto legislativo si agisce nella pratica, perché il governo centrale condivide gli introiti provenienti dal petrolio in modo equo con tutte le province irachene, tramite lo stanziamento dei fondi. Sotto molti punti di vista, il dibattito attualmente in corso in Iraq è simile a quello che riguardava il movimento per i diritti civili o la lotta per il riconoscimento dei diritti degli stati federati negli Stati Uniti. Grazie alla de baathificazione, gli iracheni lottano per venire a patti con un passato brutale. Cercano di trovare un equilibrio tra la paura del possibile ritorno al potere, un giorno, del partito baathista, con il riconoscimento del fatto che molti ex membri del partito non hanno commesso alcun crimine e sono entrati a far parte dell’organizzazione non per reprimere gli altri ma per ragioni di sopravvivenza individuale. Col conferimento dei poteri alle province affrontano questioni molto serie, che riguardano il giusto equilibrio tra centro e periferie in Iraq. Alcuni ritengono che la concessione di quei poteri a regioni e province sia la migliore garanzia contro il futuro emergere di una figura tirannica a Baghdad. Altri ritengono che l’Iraq, per la sua complessità demografica, abbia bisogno di un’autorità centrale forte. In breve, non dobbiamo essere sorpresi né sgomenti perché gli iracheni non sono ancora riusciti a risolvere del tutto questi punti. Piuttosto, dovremmo chiederci se il modo in cui li stanno affrontando non indichi la loro serietà e sostanziale capacità di risolvere i problemi fondamentali dell’Iraq. L’insieme dei rappresentanti politici nazionali iracheni è pronta a fare dell’Iraq una priorità, mettendolo al di sopra degli interessi delle singole sette e comunità? Può e vuole raggiungere un accordo sull’Iraq che ciascuno di loro desidera? Credo che essi vogliano affrontare i problemi più stringenti per il paese, anche se ci vorrà più tempo di quanto avevamo inizialmente previsto, a causa dell’ambiente in cui operano e della gravità delle questioni che devono risolvere. Il primo ministro al Maliki e altre personalità politiche in Iraq hanno di fronte enormi ostacoli nel loro tentativo di governare in modo efficiente e svolgono il proprio compito con un profondo senso di impegno e patriottismo. Parte importante del mio giudizio positivo viene dagli sforzi fatti durante l’ultima estate: il 26 agosto, dopo settimane di lavori preparatori e molti giorni di incontri febbrili, le cinque maggiori personalità politiche del paese, provenienti dalle tre comunità principali, hanno diffuso un comunicato che rendeva noto un accordo in merito ad una proposta di legge sulla debaathificazione e sui poteri delle province. L’accordo non risolve certo tutti i problemi iracheni, ma l’impegno dei rappresentanti politici a lavorare insieme sulle questioni più spinose è incoraggiante. Forse l’elemento più significativo è stata la decisione congiunta dei cinque di esprimere pubblicamente il desiderio comune di sviluppare una relazione a lungo termine con gli Stati Uniti. Nonostante le molte differenze quanto a punti di vista ed esperienze, si sono trovati tutti d’accordo nel voler inserire nel testo alcune espressioni che riconoscono la necessità di una presenza continua delle forze multinazionali e che dicono la loro gratitudine per i sacrifici che quelle forze hanno compiuto per gli iracheni.no legate al progetto di un futuro stato iracheno. Le norme per la suddivisione del petrolio e dell’indotto, per esempio, riguardano questioni più serie che non la semplice volontà degli iracheni che abitano in zone ricche di petrolio di condividere la loro ricchezza con gli altri connazionali. La difficoltà di queste leggi sta nel fatto che esse farebbero fare al paese un altro passo lungo il cammino che porta a un sistema federale, un sistema che non tutti hanno ancora ben compreso. Ma, una volta di più, vediamo che anche in assenza di un progetto legislativo si agisce nella pratica, perché il governo centrale condivide gli introiti provenienti dal petrolio in modo equo con tutte le province irachene, tramite lo stanziamento dei fondi. Sotto molti punti di vista, il dibattito attualmente in corso in Iraq è simile a quello che riguardava il movimento per i diritti civili o la lotta per il riconoscimento dei diritti degli stati federati negli Stati Uniti. Grazie alla de baathificazione, gli iracheni lottano per venire a patti con un passato brutale. Cercano di trovare un equilibrio tra la paura del possibile ritorno al potere, un giorno, del partito baathista, con il riconoscimento del fatto che molti ex membri del partito non hanno commesso alcun crimine e sono entrati a far parte dell’organizzazione non per reprimere gli altri ma per ragioni di sopravvivenza individuale. Col conferimento dei poteri alle province affrontano questioni molto serie, che riguardano il giusto equilibrio tra centro e periferie in Iraq. Alcuni ritengono che la concessione di quei poteri a regioni e province sia la migliore garanzia contro il futuro emergere di una figura tirannica a Baghdad. Altri ritengono che l’Iraq, per la sua complessità demografica, abbia bisogno di un’autorità centrale forte. In breve, non dobbiamo essere sorpresi né sgomenti perché gli iracheni non sono ancora riusciti a risolvere del tutto questi punti. Piuttosto, dovremmo chiederci se il modo in cui li stanno affrontando non indichi la loro serietà e sostanziale capacità di risolvere i problemi fondamentali dell’Iraq. L’insieme dei rappresentanti politici nazionali iracheni è pronta a fare dell’Iraq una priorità, mettendolo al di sopra degli interessi delle singole sette e comunità? Può e vuole raggiungere un accordo sull’Iraq che ciascuno di loro desidera? Credo che essi vogliano affrontare i problemi più stringenti per il paese, anche se ci vorrà più tempo di quanto avevamo inizialmente previsto, a causa dell’ambiente in cui operano e della gravità delle questioni che devono risolvere. Il primo ministro al Maliki e altre personalità politiche in Iraq hanno di fronte enormi ostacoli nel loro tentativo di governare in modo efficiente e svolgono il proprio compito con un profondo senso di impegno e patriottismo. Parte importante del mio giudizio positivo viene dagli sforzi fatti durante l’ultima estate: il 26 agosto, dopo settimane di lavori preparatori e molti giorni di incontri febbrili, le cinque maggiori personalità politiche del paese, provenienti dalle tre comunità principali, hanno diffuso un comunicato che rendeva noto un accordo in merito ad una proposta di legge sulla debaathificazione e sui poteri delle province. L’accordo non risolve certo tutti i problemi iracheni, ma l’impegno dei rappresentanti politici a lavorare insieme sulle questioni più spinose è incoraggiante. Forse l’elemento più significativo è stata la decisione congiunta dei cinque di esprimere pubblicamente il desiderio comune di sviluppare una relazione a lungo termine con gli Stati Uniti. Nonostante le molte differenze quanto a punti di vista ed esperienze, si sono trovati tutti d’accordo nel voler inserire nel testo alcune espressioni che riconoscono la necessità di una presenza continua delle forze multinazionali e che dicono la loro gratitudine per i sacrifici che quelle forze hanno compiuto per gli iracheni.A livello provinciale, i passi avanti politici sono stati più evidenti, in particolare nella parte settentrionale e occidentale del paese, in cui il miglioramento in termini di sicurezza è stato addirittura impressionante, a tratti. In queste zone, molte cose dimostrano come una maggiore sicurezza abbia spianato la strada a interventi politici più sensati. Ad al Anbar i progressi in quanto a sicurezza sono stati straordinari. Sei mesi fa la violenza dilagava, le nostre forze armate erano sottoposte ad attacchi quotidiani e gli iracheni arretravano impauriti davanti alla forza intimidatoria di al Qaida. Ma al Qaida ha rischiato troppo ad al Anbar, e i cittadini hanno iniziato a rifiutare i suoi eccessi: le decapitazioni dei bambini a scuola e le amputazioni di dita per aver fumato. Avendo compreso che la coalizione poteva aiutarli a scacciare al Qaida, le tribù hanno cominciato a lottare con noi, non contro di noi, e il risultato e un panorama completamente diverso ad al Anbar. I rappresentanti delle tribù fanno parte del consiglio provinciale, che oggi si riunisce periodicamente per trovare il modo di ripristinare i servizi, sviluppare l’economia e approvare un bilancio provinciale. Queste persone sono alla ricerca di un aiuto per ricostruire le città e parlano di investimenti attraenti. Scene simili si svolgono in alcune parti di Diyala e Ninewa, in cui gli iracheni si sono mobilitati, con l’aiuto della coalizione e delle forze di sicurezza irachene, per scacciare al Qaieda dalle loro comunità. Il mondo dovrebbe notare come, quando l’organizzazione ha iniziato ad attuare la sua visione distorta del califfato in Iraq, gli abitanti del paese, da al Anbar a Baghdad a Diyala l’hanno rifiutata in massa. Anche gli estremisti sciiti si vedono rifiutati. I recenti attacchi di Jaysh al Mahdi, sostenuto dall’Iran, contro i fedeli nella città santa di Karbala hanno prodotto una forte reazione contraria, tanto da portare Moqtada al Sadr a chiedere a Jaysh al Mahdi di interrompere gli attacchi contro gli iracheni e le forze della coalizione. Una sfida centrale per l’Iraq ora è collegare questi sviluppi positivi nelle province al governo centrale di Baghdad. A differenza degli stati che compongono gli Stati Uniti, le province irachene hanno capacità limitate in quanto a produzione di gettito fiscale tramite la corresponsione dei tributi, il che li rende più dipendenti dal governo centrale per l’ottenimento delle risorse. La crescente capacità delle province di preparare e attuare i bilanci, e la disponibilità del governo centrale a consegnare loro le risorse necessarie sono esempi di un grande successo. Il 5 settembre i vertici politici iracheni si sono riuniti ad al Anbar, dove hanno annunciato un aumento del 70 per cento del bilancio per la capitale della provincia e 50 milioni di dollari per compensare le perdite subite durante la lotta contro al Qaida. Il sostegno del governo centrale è necessario anche per mantenere la sicurezza raggiunta con tanta difficoltà in aree come al Anbar tramite la rapida espansione di forze di polizia di cui fanno parte gli abitanti delle varie comunità: il governo iracheno vi ha fatto confluire circa 21.000 cittadini di al Anbar.L’Iraq sta iniziando a fare concreti progressi sul terreno economico. Il miglioramento della sicurezza stimola il rilancio dei mercati, con la partecipazione attiva delle comunità locali. I danni provocati dalla guerra vengono riparati e gli edifici ricostruiti, le strade e gli impianti fognari rimessi in funzione e promosso il commercio. L’FMI calcola che nel 2007 la crescita economica supererà il sei per cento. Quest’anno i ministri e i consigli provinciali iracheni hanno ottenuto notevoli progressi nell’utilizzo delle rendite petrolifere per nuovi investimenti. Il bilancio governativo del 2007 ha destinato dieci miliardi di dollari (quasi un terzo delle entrate previste per le esportazioni di petrolio) agli investimenti di capitale. Oltre tre miliardi sono stati assegnati alle province e alla regione curda. I dati più recenti indicano che le autorità incaricate di gestire le spese (ministeri nazionali e consigli provinciali) hanno investito i propri fondi con un ritmo doppio rispetto a quello dell’anno precedente. A ottenere i migliori risultati sono state le autorità provinciali, che, inoltre, stanno acquisendo notevole esperienza nelle attività di pianificazione e decisione, così come nella organizzazione di corrette offerte d’appalto. In tal modo, stimolano lo sviluppo delle imprese locali e offrono possibilità nuove di lavoro. Si spera che, con il passare del tempo, lo sviluppo di autorità locali più responsabili farà mutare l’atteggiamento degli iracheni nei confronti dei propri leader eletti e quello delle province nei confronti di Baghdad. Nelle due conferenze tenutesi a Dubai nelle settimane scorse, centinaia di uomini d’affari iracheni si sono incontrati con altrettanti investitori stranieri interessati all’acquisto di azioni delle imprese irachene. Un’asta pubblica per la copertura dei telefoni cellulari condotta dalla Price Waterhouse Coopers ha fruttato al governo 3.75 miliardi di dollari, cifra ben superiore a quella che ci si aspettava. Il ministro delle Finanze intende usare questi fondi, insieme a tutte le rendite petrolifere del paese, per sostenere tutti gli investimenti e le spese necessarie. Nel complesso, tuttavia, l’economia irachena ha un rendimento nettamente inferiore alle sue possibilità. L’insicurezza che domina nelle regioni non urbanizzate fa salire i costi dei trasporti e danneggia gravemente l’agricoltura e l’industria manifatturiera. Il rifornimento di elettricità è migliorato in molte parti del paese, ma a Baghdad rimane del tutto insufficiente. La rete di distribuzione nazionale rifornisce molti quartieri della città soltanto per due ore al giorno, o anche meno, per quanto si debba notare che i servizi essenziali, come l’alimentazione delle pompe di distribuzione dell’acqua e il funzionamento degli ospedali, sono meglio garantiti. Il ministro dell’Elettricità ha detto la scorsa settimana che ci vorrebbero, da qui al 2016, circa 25 miliardi di dollari per soddisfare la richiesta complessiva di energia; ma ha anche aggiunto che, investendo efficacemente i due miliardi assegnati al ministero dal bilancio governativo e con il contributo degli investimenti privati, l’obiettivo potrà essere raggiunto. Quanto a noi, stiamo usando i nostri fondi di assistenza per dare un aiuto concreto e visibile a tutti gli iracheni e per promuovere i nostri obiettivi politici. Le unità militari stanno usando i fondi CERP (Commanders Emergency Response) per garantire che i cittadini iracheni possano vedere un reale cambiamento delle cose non appena si riduca la violenza che domina nei loro quartieri di residenza. Grazie ai fondi di Community Stabilization dell’USAID si creano migliaia di nuovi posti di lavoro. E grazie alla recente assegnazione di fondi aggiuntivi per il 2007 stiamo mettendo speciali “fondi di risposta rapida” (Quick Response Funds) nelle mani dei direttori dei nostri Provincial Reconstruction Team al fine di costruire comunità e istituzioni in un contesto di stabilità. L’addestramento professionale e vari programmi di microfinanza contribuiscono allo sviluppo dell’impresa privata. E a Baghdad stiamo rafforzando il nostro impegno per la ricostruzione in collaborazione con il governo iracheno.L’impegno internazionale e regionale in Iraq è in costante aumento. Ad agosto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, su invito dell’Iraq, ha rinnovato il mandato affidato alla UNAMI (United Nations Assistance Mission in Iraq) con la Risoluzione 1770. Il lavoro dell’International Compact prosegue incessante, sotto la direzione congiunta dell’Iraq e dell’Onu. Settantaquattro paesi, nella conferenza ministeriale tenutasi lo scorso giugno, hanno offerto il proprio appoggio alla realizzazione di riforme economiche in Iraq. Le Nazioni Unite hanno riferito che si sono fatti buoni progressi nel 75 per cento delle quattrocento aree individuate dal governo iracheno per un immediato intervento. Alla fine di settembre il primo ministro iracheno e il segretario generale delle Nazioni Unite presiederanno a un incontro a livello ministeriale che si terrà a New York per discutere i modi più efficaci per ottenere ulteriori progressi e mettere in atto la risoluzione 1770. Molti paesi vicini all’Iraq sono perfettamente consapevoli di avere un concreto interesse nell’esito dell’attuale conflitto iracheno e si stanno impegnando in modo costruttivo. Un incontro tra i ministri di questi paesi tenutosi a maggio, al quale hanno partecipato anche i membri del P-5 e del G- 8, è stato seguito da altri incontri di specifici gruppi di lavoro, dedicati ai temi della sicurezza, dei confini territoriali e dell’approvigionamento energetico. A Baghdad si è appena concluso un incontro tra gli ambasciatori dei medesimi paesi, e ad ottobre se ne terrà un altro a Istanbul, questa volta a livello ministeriale. Sullo sfondo di questi nuovi meccanismi si stanno creando normali rapporti di vicinato. Per la prima volta in anni e anni, l’Iraq sta esportando petrolio facendolo passare attraverso la Turchia, così come attraverso il Golfo Persico. L’Iraq e il Kuwait stanno per stipulare un contratto commerciale che permetterà al Kuwait di rifornire di carburante diesel il suo vicino settentrionale, che ne ha estremo bisogno. La Giordania ha recentemente fatto sapere di approvare il recente leaders’ communiqué e di appoggiare gli sforzi per la riconciliazione profusi dal governo iracheno. E l’Arabia Saudita intende aprire un’ambasciata a Baghdad, che mancava fin dai tempi della caduta di Saddam. Il ruolo della Siria è stato più problematico. Da un lato, la Siria ha ospitato un incontro del gruppo di lavoro sulla sicurezza dei confini e ha impedito il passaggio di un certo numeri di terroristi stranieri in Iraq. Dall’altro, gli attentatori-suicidi continuano ad attraversare il confine siriano per andare a uccidere innocenti civili iracheni. L’Iran ha un ruolo estremamente dannoso per l’Iraq. Pur proclamando il proprio appoggio alla transizione irachena, l’Iran l’ha volontariamente ostacolata contribuendo a rafforzare le capacità belliche dei nemici dello stato iracheno. Facendo così, il governo iraniano sembra ignorare i rischi che l’instabilità dell’Iraq pone ai suoi stessi interessi.Il 2006 è stato un brutto anno per l’Iraq. Il paese è quasi arrivato al collasso sul piano politico, economico e della sicurezza. Il 2007 ha portato alcuni miglioramenti. Rimangono ancora enormi sfide da affrontare. Gli iracheni devono ancora risolvere questioni fondamentali sui modi di condivisione del potere, sull’accettazione delle differenze e sul superamento del proprio passato. I mutamenti apportati alla nostra strategia lo scorso gennaio hanno contribuito a dare una svolta positiva alla situazione interna dell’Iraq. La nostra intensificata presenza ha fatto capire alle comunità assediate che, con il nostro aiuto, potevano sconfiggere al Qaida. Le nostre misure per garantire la sicurezza della popolazione hanno reso molto più difficile ai terroristi sferrare i propri attacchi. Abbiamo dato agli iracheni il tempo e lo spazio necessari per riflettere su come vogliono che sia il proprio paese. Quasi tutti accettano sinceramente l’idea di un Iraq con una società multi etnica e pluralista; ciò che rimane ancora da definire è l’equilibrio delle forze. Se l’Iraq riuscirà a sfruttare sino in fondo tutte le sue possibilità sarà, naturalmente, il frutto delle decisioni prese dagli stessi iracheni. Ma il coinvolgimento e il sostegno degli Stati Uniti avrà un’importanza fondamentale per raggiungere un risultato positivo. Il nostro paese ha dato un grande contributo di sangue e di risorse per ottenere la stabilizzazione dell’Iraq e aiutare gli iracheni a costruire nuove istituzioni che garantiscano la nascita di un paese unito, democratico e governato dai principi dello stato di diritto. Per realizzare questo obiettivo gli Stati Uniti dovranno impegnarsi ancora a lungo. Non posso assicurare che otterremo un successo in Iraq. Ritengo però, come ho già detto, che sia possibile riuscirci. Sono convinto che ridurre o addirittura interrompere i nostri attuali sforzi ci porterebbe alla sconfitta e che le conseguenze di una tale sconfitta devono essere ben comprese. La ricaduta dell’Iraq nel caos o nella guerra civile significa enormi sofferenze per gli esseri umani – ben più spaventose di quelle già subite. Potrebbe anche provocare l’intervento di alcuni stati della regione, i quali vedono il proprio futuro connesso in un modo o nell’altro con quello dell’Iraq. Senza dubbio, in uno scenario di questo tipo, il vero vincitore sarebbe l’Iran, che consoliderebbe la sua influenza sulle risorse e forse anche sul territorio iracheno. Il presidente iraniano ha già annunciato che l’Iran andrà a riempire qualsiasi vuoto che si apra in Iraq. In un simile contesto, tutti i successi ottenuti contro al Qaida e altri gruppi estremisti potrebbero facilmente svanire e gli stessi terroristi potrebbero costruire roccaforti e rifugi da cui lanciare attacchi regionali o internazionali. La via sulla quale stiamo procedendo è dura. Ma le alternative sono ben peggiori. Con il passare del tempo, ogni strategia richiede nuovi adattamenti. Questo è particolarmente vero in Iraq, dove i cambiamenti avvengono a ritmo quotidiano. Come capo della missione in Iraq, valuto costantemente i risultati dei nostri sforzi e cerco di assicurare che siano coordinati e complementari con quelli delle nostre forze militari. Ritengo che, grazie all’appoggio del Congresso, abbiamo una corretta presenza civile in Iraq. Nel corso del prossimo anno continueremo a incrementare il nostro impegno in questo ambito nelle regioni esterne a Baghdad e alla zona internazionale. Questa presenza ci ha permesso di concentrarci sullo sviluppo delle capacità concrete, soprattutto nelle province, che dovrebbero acquisire maggiore influenza mano a mano che il potere viene decentralizzato. Quest’anno il numero dei nostri Provincial Reconstruction Team è passato da dieci a venticinque. Per realizzare questi obiettivi, chiederemo al Congresso di assicurarci una maggiore assistenza finanziaria. Cercheremo anche di ottenere l’approvazione di due importanti proposte che hanno lo scopo di creare nuovi posti di lavoro permanente per migliaia di iracheni. La prima riguarda la creazione di un “Iraqi-American Enterprise Fund”, a imitazione dei riusciti modelli utilizzati in Polonia e in altri paesi dell’Europa centrale. Questo fondo potrebbe servire per fare investimenti in nuove imprese con sede in Iraq. La seconda riguarda una struttura operativa di ampia portata, basata sul modello del nostro Highway Trust Fund. Questo fondo servirebbe all’addestramento degli iracheni nella gestione di importanti infrastrutture del settore pubblico (centrali elettriche, dighe, strade). Continueremo a fare ogni sforzo per assistere gli iracheni nel loro impegno per la riconciliazione nazionale, pur riconoscendo che, in questo ambito, il progresso può assumere varie forme e sarà comunque opera degli stessi iracheni. Cercheremo altri modi per impedire le interferenze regionali e per aumentare e rafforzare il sostegno regionale e internazionale. E aiuteremo gli iracheni a consolidare i positivi risultati ottenuti a livello locale, connettendoli al contempo con il governo nazionale. Infine, mi auguro che profonderemo tutto il nostro impegno per sviluppare l’alleanza strategica tra gli Stati Uniti e l’Iraq, che è di importanza fondamentale per il futuro di entrambi i paesi. Ryan Crocker (traduzione di Aldo Piccato ed Elia Rigolio)
Un ritratto di Crocker scritto da Christian Rocca:
New York. L’ambasciatore Ryan Crocker era contrario alla guerra in Iraq e aveva previsto le difficoltà dell’operazione, anche perché era ben consapevole dei danni causati alla società irachena dai 35 anni di feroce dittatura saddamita. Ecco perché il suo cauto e moderato ottimismo espresso lunedì e martedì nelle aule del Congresso di Washington è apparso più credibile rispetto a valutazioni precedenti di altri esponenti dell’Amministrazione Bush e ha lasciato spiazzato gli oppositori di George W. Bush. Quando, nel 2002, l’allora segretario di stato Colin Powell gli chiese di preparare un memorandum segreto per esaminare i rischi di un’eventuale invasione, Crocker scrisse sei pagine intitolate “La tempesta perfetta”, nelle quali prevedeva che destituire Saddam Hussein avrebbe potuto scatenare le tensioni etniche e settarie a lungo represse dal dittatore, ma anche che la minoranza sunnita non avrebbe facilmente abbandonato il potere e che le potenze regionali come l’Iran, la Siria e l’Arabia Saudita avrebbero fatto un passo avanti e cercato di influenzare gli eventi iracheni. Crocker aveva inoltre avvertito che l’America si sarebbe dovuta impegnare a ricostruire da zero il sistema politico ed economico, perché Saddam aveva ridotto a brandelli le infrastrutture irachene. Nato cinquantasette anni fa nello stato di Washington da una famiglia di militari, da ragazzo Crocker ha vissuto in Marocco, Canada e Turchia. Si è laureato in letteratura inglese e parla persiano e arabo. Il suo primo incarico è stato in Iran, prima della rivoluzione khomeinista, poi tutte le sue tappe professionali, fino a essere nominato “ambasciatore di carriera” da Bush, non si sono mai discostate dal mondo islamico: Qatar, Tunisia, Iraq, Turchia, Libano, Egitto e dopo l’11 settembre primo rappresentante americano nel nuovo Afghanistan post talebano, consigliere in Iraq e ambasciatore in Pakistan. A Washington, Crocker ha sempre seguito dossier arabi, da vice direttore dell’ufficio degli affari arabo-israeliani del Dipartimento di stato (anni di Ronald Reagan) e da direttore della task force sull’Iraq costituita subito dopo l’invasione saddamita del Kuwait. “E’ uno dei nostri migliori diplomatici”, ha detto Powell di Crocker, alimentando le aspettative degli oppositori della guerra in Iraq. Nei giorni precedenti l’audizione di Crocker e di Petraeus, infatti, quando si è capito che il generale avrebbe dipinto una situazione irachena più rosea del previsto, i grandi giornali liberal si sono concentrati su Crocker e sulle notizie negative che certamente un diplomatico pragmatico e preparato come lui avrebbe riportato al Congresso. Sicché sulla prima pagina del Washington Post e negli editoriali del New York Times e di Time si è letto che, malgrado i riflettori fossero su Petraeus, il vero uomo da ascoltare sarebbe stato Crocker. Timido, maratoneta, tifoso dei Red Sox e fan degli Iron Maiden e dei Black Crows, Crocker è scampato per un pelo al primo attentato terrorista islamico contro gli Stati Uniti. Nel 1983 si trovava all’ambasciata di Beirut, quando Hezbollah con un’autobomba fece saltare il quartier generale americano, uccidendo 63 persone. L’esplosione lo scaraventò contro il muro e rimase ferito. Crocker e sua moglie, una funzionaria d’ambasciata conosciuta in Libano, sono abituati al pericolo e alle situazioni estreme. Nel 1998, durante il bombardamento clintoniano sull’Iraq, la sua residenza di ambasciatore a Damasco è stata attaccata da estremisti siriani e Christine Crocker è stata costretta a rifugiarsi dentro una stanza blindata, mentre i siriani saccheggiavano la casa. Quando, la settimana scorsa, l’inviato di Time Joe Klein gli ha chiesto “e ora che facciamo?”, lui, ridendo, ha risposto: “Be’, come dico sempre, ‘Quando superano il filo spinato... non facciamoci prendere dal panico”. Klein assicura che Crocker è “l’antitesi agli ideologhi che hanno fornito le motivazioni intellettuali alla guerra in Iraq, anzi è l’esempio classico di quelli che i neoconservatori in modo sprezzante definiscono un ‘arabista’. Parla farsi e arabo e ha una vera affinità per la cultura della regione”. La domanda da porgli, ha scritto Klein alla vigilia dell’audizione di Crocker al Senato, è se gli Stati Uniti sono in grado di imporre una democrazia, una costituzione, un esercito nazionale a un non paese diviso in tribù, sette e dinastie familiari. La risposta di Crocker è stata questa: “Un Iraq sicuro, stabile e democratico è raggiungibile”.
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