Il "diritto al ritorno", il dialogo con Hamas che porterà alla pace, la "provocazione" israeliana alla Siria ideologia e disinformazione sul quotidiano comunista
Testata: Il Manifesto Data: 13 settembre 2007 Pagina: 0 Autore: Michele Giorgio - Paolo Gerbaudo Titolo: «La lezione di Stefano - Dallo spazio alle baraccopoli - Tel Aviv ammette il raid L'obiettivo? «Siti nucleari»»
In un articolo sui campi profughi palestinesi in Libano Michele Giorgio sostiene il "diritto al ritorno" dei "profughi" (categoria che includerebbe i rifugiati arabi della querra del 1948 e i loro discendenti) in Israele, che segnerebbe la fine dello Stato ebraico. Le leggi libanesi che mirano a impedire l'integrazione dei palestinesi e che proibiscono loro svariate professione e interventi di miglioramento sugli edifici dei campi non sono citate. Ecco il testo (da pagina 3):
Alle cinque in punto in via Hamra, nello storico cuore commerciale della Beirut sunnita, tra due ali di folla tenute a distanza da decine di soldati la banda dell'esercito ha cominciato a intonare l'inno nazionale. «L'orgoglio del Libano è stato esaltato dalla vittoria dei nostri coraggiosi militari, a Nahr al Bared sono state costruite le forze armate di tutti i libanesi», esultava ieri sera un alto ufficiale salito sul palco, decorato per l'occasione con fiori e bandiere con il cedro. Tanti gli applausi e gli slogan in sostegno degli «eroi» della battaglia contro Fatah al Islam, conclusasi nei giorni scorsi dopo quasi quattro mesi di scontri. Poche ore prima 180 km a nord, a Beddawi (Tripoli), uno dei 12 campi profughi palestinesi in Libano, Abu Khaled, a nome dei Comitati popolari, aveva descritto con tono preoccupato i problemi gravissimi che stanno affrontando gli oltre 30mila sfollati di Nahr al Bared e con loro gli abitanti e le strutture civili di Beddawi. L'eliminazione - ancora da verificare - di Fatah al Islam, che i comandi militari e l'intera popolazione libanese considerano una vittoria, un «punto di svolta» per la costruzione dell'unità nazionale da sempre fragile in questo paese, per i palestinesi ha significato un nuovo, enorme disastro. Nahr al Bared, dove grazie al commercio con la Siria circa 40mila rifugiati vivevano in condizioni migliori rispetto agli altri campi, è ora una città-fantasma, ridotta in macerie nella parte più vecchia, quella meridionale. Le cannonate che per giorni hanno preso di mira i palazzi hanno avuto effetti devastanti: per la gente che viveva nelle migliaia di case crollate o danneggiate, da quattro mesi accampata nel minuscolo Beddawi, il rischio di perdere tutto è altissimo. E tanti hanno già perduto tutto, proprio come nel 1948, nella Nakba (in arabo la «catastrofe»). Per loro è sempre più concreta la prospettiva di rimanere bloccati per anni in quel «campo di accoglienza provvisoria» di cui parlano le Nazioni Unite e che dovrebbe vedere la luce nei prossimi mesi. Sarebbe un nuovo esodo per decine di migliaia di profughi, il pericolo tante volte denunciato da Stefano Chiarini, indimenticato giornalista e mediorientalista del manifesto, che aveva dedicato parte della sua esistenza alla difesa dei diritti dei profughi e alla memoria di oltre 3mila palestinesi massacrati nel 1982 a Sabra e Shatila dalle milizie falangiste libanesi alleate di Israele. Ieri Abu Khaled, gli altri membri dei Comitati popolari di Beddawi e il direttore di Rinascita Maurizio Musolino, a nome del Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila, hanno ricordato a Beddawi l'impegno di Stefano e la sua insistenza affinché non venga cancellato il diritto al ritorno per i profughi palestinesi, sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite. «È nostra precisa volontà continuare l'attività di Stefano, per questo motivo ribadiamo che non potrà esserci una soluzione del conflitto (in Medio Oriente) senza la realizzazione del diritto al ritorno per tutti palestinesi, quelli che vivono in Libano e quelli sparsi in altri paesi» ha detto Musolino. Negli anni passati, dalla fondazione del Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila, Stefano aveva portato in Libano centinaia di italiani, per fargli conoscere la realtà dei rifugiati con incontri e visite ai campi profughi. E per coloro che l'hanno avuto affianco in tutto questo tempo non è facile accettare la sua scomparsa. «Stefano aveva la capacità di darti coraggio, di invogliarti a realizzare progetti ed iniziative. La sua determinazione e pazienza erano fuori dal comune. Non vederlo qui tra di noi, a capo della delegazione italiana, mi lascia senza parole», dice Kassem Aina, direttore della ong palestinese Beit al Atfal al Sumud, con la quale il nostro compagno e collega aveva stabilito un lungo rapporto di amicizia e di lavoro. Se fosse ancora in vita, Stefano ora sarebbe a Beddawi - camminando a passo svelto lungo le stradine dove i palestinesi hanno affisso i poster con la sua immagine - per studiare come portare solidarietà politica agli sfollati di Nahr al Bared. Perché hanno bisogno soprattutto di aiuto politico i profughi che da settimane vivono ammassati nelle aule della scuola elementare «Bakrak» delle Nazioni Unite. «Abbiamo perduto tutto, siamo disperati. Quello che vogliamo da voi europei però non sono soldi o cibo, ma una campagna per darci giustizia. Qui in Libano, dove ci negano diritti e non possiamo fare decine di lavori ma soprattutto nei confronti di Israele, che non vuole farci tornare alle case, ai villaggi dai quali i nostri genitori furono cacciati nel 1948. Siamo forse essere umani inferiori agli altri?», si chiede Maysun Mustafa, 25 anni, nata e cresciuta a Nahr al Bared ma che continua a sentirsi di Jesh, il villaggio arabo della Galilea dal quale furono espulsi i suoi nonni. Aiuto politico prima di tutto ma anche umanitario perché le condizioni di vita degli sfollati sono penose. Nelle aule scolastiche trasformate in stanze vivono fino a 50 persone, le condizioni igieniche peggiorano con il passare delle settimane. Ma è in tutta Beddawi che si soffre. Manca l'elettricità, per molte ore al giorno e si va avanti con i generatori. Le infrastrutture civili ormai non reggono il peso di oltre 40mila profughi in un campo che potrebbe accoglierne non più di 15mila. Cresce perciò il desiderio di tornare subito a casa. «Sono pronta a vivere tra le macerie piuttosto che restare ancora in questa scuola - protesta Warde Sayyed, 50 anni -. Dateci una tenda e non avremo paura di vivere nel nostro campo». Un desiderio destinato a rimanere per ora un sogno. Lunedì scorso le Nazioni Unite hanno chiesto finanziamenti per 55 milioni di dollari, ma la ricostruzione di Naher al Bared - alla quale si oppongono i libanesi che vivono nei centri vicini al campo profughi - rimane un'ipotesi vaga. Secondo Abdallah Al-Hut, responsabile di Beit Atfal al Sumud nel nord del Libano, solo 700 famiglie (circa 7 mila persone) potranno far ritorno a casa entro qualche mese, perché i loro appartamenti sono stati danneggiati lievemente. Le altre case sono da ricostruire. Per i loro proprietari non resta che affidarsi agli aiuti dell'Unrwa, l'agenzia dell'Onu che assiste i profughi palestinesi, che ha messo a disposizione 600 dollari al mese per 1.700 famiglie, in modo che possano pagare l'affitto di una abitazione. Ma questo aiuto non andrà oltre i tre mesi. Dall'autostrada che da Tripoli, costeggiando il mare, arriva fino al confine con la Siria, le case abbattute di Nahr al Bared appaiono all'improvviso, quando meno te lo aspetti. Si rimane senza fiato pensando che quello che era il campo con un reddito minimo assicurato da commerci e contrabbando, oggi non esiste più. L'esercito lo circonda completamente e non permette a nessuno di avvicinarsi, mentre la possibile presenza del leader di Fatah al-Islam, Shaker al-Absi, nelle province settentrionali libanesi insieme ad altre decine di suoi uomini riusciti a sfuggire alla morte o all'arresto, preoccupa le popolazioni locali. Si moltiplicano i rastrellamenti da parte dell'esercito e a finire in manette non sono solo miliziani islamici, ma anche profughi palestinesi, sommariamente sbattuti in carcere e interrogati perché sospettati di far parte di Fatah al Islam e puniti per aver violato l'ordine di rimanere a Beddawi. «Ma noi dobbiamo lavorare - spiega Samer Zatout, scappato assieme a moglie e figli da Nahr al Bared -. Dobbiamo sfamare le nostre famiglie, come possono obbligarci a rimanere chiusi a Beddawi mentre manca il pane nelle nostre case?»
Umberto Guidoni, parlamentare dei comunisti italiani, sostiene la necessità del dialogo con Hamas, naturalmente per "accelerare la soluzione di un conflitto che ha già fatto troppe vittime". Un conflitto che Hamas, in realtà, fa di tutto per mantenere aperto, continuando a perseguire l'obiettivo della distruzione di Israele. I riconoscimenti diplomatici al gruppo islamista non contribuiscono, come crede Guidoni, ad "aiutare la comprensione dei problemi e avvicinare una giusta soluzione di pace", ma al contrario a confermarne l'intransigenza e la spietatezza. Come prova il fatto, per esempio, che gli elogi di Hamas al governo italiano dopo le sue imprudenti "aperture" siano stati accompagnati dalla riproposizione del rifiuto dell'esistenza di Israele. Ancora da pagina 3:
Umberto Guidoni qualche anno fa non pensava di ritrovarsi un giorno alla periferia di Beirut, in un campo profughi palestinese, davanti al memoriale che ricorda le vittime di Sabra e Shatila. Ma per l'italiano che per due volte ha volato sullo shuttle (1996 e 2001) ed è stato il primo europeo a lavorare nella stazione spaziale internazionale, la curiosità e la voglia di conoscere sono la base della vita. «Certo l'impegno politico di oggi è un'attività molto diversa da quella dell'astronauta, però in comune c'è la voglia di raggiungere risultati». Abbandonata Houston, nel 2004 è diventato un europarlamentare del Partito dei Comunisti Italiani (Pdci). «All'università - ricorda Guidoni - partecipavo a dibattiti e attività studentesche ed ero vicino al Partito comunista italiano. Così, terminata l'esperienza in terra americana, ho avuto un incontro con Oliviero Diliberto che mi ha proposto di candidarmi nella lista del suo partito. Ho accettato e posso dire che è un impegno nel quale credo molto». Da qualche giorno l'ex astronauta si trova in Libano, assieme alla delegazione del Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila, per un viaggio di conoscenza nei campi profughi palestinesi. Certo il suo è un bel salto, dallo spazio alla realtà palestinese. Amici e conoscenti sono rimasti sorpresi e in qualche caso si sono anche sbizzarriti con le battute, quando hanno appreso della mia intenzione di entrare in politica. In ogni caso sono molto convinto di questo impegno che sto portando avanti e non ho fatto fatica ad entrare nei panni dell'europarlamentare, perché i miei valori e la vicinanza alla sinistra, anche in passato mi avevano portato ad interessarmi e ad analizzare ciò che accade in Italia e nel resto del mondo. Da quando segue la questione palestinese? Mi sono occupato dei palestinesi già nel 2006, quando come europarlamentare ho seguito da osservatore le elezioni in Cisgiordania e Gaza, vinte dal movimento islamico Hamas. Ora sto cercando di capire il problema dei profughi qui in Libano e, evidentemente, se esiste una possibilità concreta per risolverlo. Il quadro è molto preoccupante, la condizione di coloro che vivono nei campi è disperata, senza dimenticare che, oltre al conflitto con Israele, i profughi palestinesi sono considerati ospiti poco graditi dai libanesi. Un problema politico ed umanitario allo stesso tempo che richiede un forte intervento internazionale ed europeo. Eppure l'Europa non riesce o non vuole impegnarsi sul terreno del rispetto dei diritti dei palestinesi e preferisce non entrare in rotta di collisione con la politica americana in Medio Oriente. L'Italia e l'Europa devono impegnarsi di più per i palestinesi in Libano, non solo attraverso l'Unifil (il contingente dell'Onu che opera in Libano del sud e di cui fanno parte migliaia di soldati italiani, ndr). È necessario un risveglio politico dell'Ue che non deve più dipendere solo dalle decisioni della Nato, anche perché l'area del Mediterraneo rappresenta una parte importante degli interessi europei ad ogni livello. In questi giorni lei ha avuto modo di ascoltare le analisi della situazione fatte da esponenti di varie fazioni palestinesi, incluso il rappresentante di Hamas in Libano, Osama Hamdan. Crede che il dialogo, sino ad oggi escluso da Bruxelles, tra l'Ue e il movimento islamico possa dare un contributo alla soluzione della crisi interna palestinese? Parlare con Hamas non significherebbe accettarne l'ideologia o la pratica politica, ma tentare di capire e di risolvere i conflitti esistenti. Sono convinto che il dialogo con tutte le parti coinvolte nel conflitto in Medio Oriente non può far altro che aiutare la comprensione dei problemi e avvicinare una giusta soluzione di pace per questa regione. Quando ero astronauta vivevo con colleghi provenienti da ogni parte del globo e aver conosciuto ognuno di loro mi ha arricchito e fornito informazioni utili per comprendere alcune questioni. Parlare con Hamas quindi non può che accelerare la soluzione di un conflitto che ha già fatto troppe vittime.
La Siria, proprio la Siria che sostiene Hezbollah e Hamas, alleata dell'Iran e, secondo le ultime notizie, come l'Iran interessata a dotarsi di armi nucleari, "non sembra disposta ad ingoiare l'ennesima provocazione israeliana". Bloccando le armi dirette a Hezbollah (in violazione della risoluzione Onu sul Libano) e informandosi sulle mosse di un regime che non è nemmeno mai uscito ufficialmente dalla stato di guerra, Israele, secondo Paolo Gerbaudo, autore del pezzo, "provoca". Il titolo "Tel Aviv ammette il raid L'obiettivo? «Siti nucleari»" è fuorviante, perché i "siti nucleari" non sarebbero stati attaccati, ma fotografati.
Ecco il testo (da pagina 10): «La risposta siriana deve ancora arrivare» ha detto perentoriamente il delegato siriano all'Onu Bashar al-Jaafari consegnando due lettere di protesta al Consiglio di Sicurezza in cui si accusa Israele di aver lanciato missili contro la Siria. Ma sull'incursione aerea israeliana, che giovedì scorso ha colpito la provincia di Dayr az Awar nella zona nord-orientale della Siria vicino al fiume Eufrate, il mistero rimane fitto. In Israele generali e ministri ostentano soddisfazione sul risultato della missione, ma le bocche rimangono rigorosamente cucite quanto agli obiettivi. La giornata di ieri è stata segnata da un flusso di notizie di corridoio e ricostruzioni contrastanti sull'azione condotta dagli F15 israeliani. Secondo un anonimo funzionario della Casa Bianca, intervistato dal New York Times, l'aviazione israeliana avrebbe fotografato installazioni missilistiche nucleari che il paese starebbe costruendo con l'aiuto della Corea del Nord. Lo stato sudorientale, in base a un trattato sottoscritto con gli Stati Uniti, si deve liberare del suo arsenale nucleare entro l'anno in cambio di aiuti e secondo fonti americane ne starebbe vendendo pezzi a Iran e Siria. Tuttavia fonti diplomatiche viennesi vicine all'agenzia sull'energia atomica negano che ci siano prove convincenti di traffici nucleari tra Corea del Nord e Siria. Una versione alternativa sostiene che l'obiettivo del raid fosse un carico d'armi destinato ad Hezbollah. Una terza ipotesi sostiene che l'incursione israeliana abbia voluto testare la capacità di risposta della difesa aerea israeliana dopo l'acquisto di nuovo equipaggiamento dai russi. In base ad un'ultima versione infine, il supposto bombardamento sarebbe servito come diversione per una incursione via terra, forse servita per dimostrare alla Siria come Israele possa lanciare a proprio piacimento le truppe sul suo territorio. Ma cosa è successo veramente giovedì scorso? La spiegazione che al momento appare più accreditata appare quella che l'attacco israeliano fosse mirato ad armamento in transito dall'Iran verso i miliziani sciiti di Hezbollah in Libano. La versione potrebbe essere avvalorata dalla dichiarazione di Shimon Perez, l'unica autorità israeliana di alto profilo che è intervenuta sulla questione sostenendo che «il problema centrale con la Siria è il Libano. Il problema è capire se il Libano debba essere libanese o iraniano. Finché la Siria farà arrivare armi agli Hezbollah ci sarà tensione nell'aria». La crisi diplomatica tra Israele e Siria si è aggravata durante l'ultimo anno dopo l'attacco israeliano al Libano. Un'altro fattore di scontro è l'irrisolta questione delle alture del Golan, dopo i colloqui falliti nel 2000. Il presidente siriano Bashar al-Assad ha fatto capire che se Israele non riprenderà il negoziato sulla regione contesa la Siria potrebbe considerare l'opzione militare per riappropriassi della regione. Siamo a un passo dalla guerra? Israele è ottimista: secondo informazioni filtrate dal ministero della difesa si prevede che la tensione diminuirà nei prossimi giorni. Ma stando alle dichiarazioni rilasciate dai propri diplomatici, la Siria non sembra disposta ad ingoiare l'ennesima provocazione israeliana.
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