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La Stampa Rassegna Stampa
11.09.2007 Verità e menzogna in politica e nella storia
ancora sul parallelo Vietnam-Iraq

Testata: La Stampa
Data: 11 settembre 2007
Pagina: 38
Autore: Giovanni De Luna
Titolo: «Se la menzogna è più ragionevole della verità»

La STAMPA dell'11 settembre 2007 pubblica un articolo di Giovanni De Luna che prendendo spunto da un libro di Hannah Arendt sulla guerra del Vietnam, propina al lettore la consueta propaganda per una rapida e totale sconfitta in Iraq.

Si potrebbe osservare che , anche se i celebri "Pentagon Papers" rivelarono che i funzionari del Pentagono pensavano il contrario, la disperata fuga dei  boat people dal Vetnam riunificato ha provato che a volere il comunismo non era il "popolo" del paese asiatico.
Si potrebbe osservare che dopo la caduta di Saigon il comunismo si è esteso alla Cambogia e al Laos, e che dunque alla fine un effetto domino c'è stato, sia pure, ancora una volta, non per volontà popolare, ma per la violenza delle guerriglie  degli eserciti.
Questo per quanto riguarda il termine di paragone storico.
Sull'Iraq, si deve osservare che il fatto che armi di distruzione di massa non siano state trovate nel paese liberato dalla dittatura di Saddam Hussein non prova che l'amministrazione Bush abbia mentito.

Ecco l'articolo:

E’ stato Bush a evocare la sindrome del Vietnam per motivare il rifiuto a ritirarsi dall'Iraq. Ed è stato, al solito, un boomerang. Con quella sortita ha materializzato un fantasma che gli americani tentavano in tutti i modi di esorcizzare ma, soprattutto, ha lasciato intravedere i contorni di una inquietante coazione a ripetere. Come a suo tempo il Vietnam, anche l'Iraq continua a causare morti e a stroncare carriere (da ultimo Alberto Gonzales; ma prima Paul Wolfowitz, Dick Bremer, Colin Powell, Donald Rumsfeld, Karl Rove e dozzine di altri) senza che si intraveda una via di uscita. Pure, l'impressione è che - proprio come si verificò per il Vietnam - non siano in gioco obiettivi strategici ma solo ed esclusivamente i problemi legati all'«immagine» dell’America come superpotenza, quasi che le ragioni di Bush e dei suoi uomini più che alla geopolitica e ai progetti di dominio imperiale appartengano integralmente al mondo del marketing e delle tecniche pubblicitarie.
Anni fa, nel 1971, Hannah Arendt scrisse uno straordinario pamphlet, recentemente ripubblicato in Italia (La menzogna in politica. Riflessioni sui «Pentagon Papers», Marietti 1820) in relazione a quello che viene ricordato come lo scandalo dei Pentagon Papers: il New York Times pubblicò allora i documenti segreti relativi all'impegno americano nel Sud-Est asiatico dalla fine della seconda guerra mondiale in poi (47 volumi con il resoconto completo delle teorie, delle strategie, delle valutazioni interne, dei processi decisionali dei cosiddetti esperti del Pentagono). Come notò subito la Arendt, da quella montagna di carte ciò che emerse con più forza era la paura ossessiva dell'impatto che avrebbe avuto una sconfitta, non sul benessere della nazione ma sulla reputazione degli Stati Uniti e del loro presidente, lo spettro dell'onta che sarebbe ricaduta su chi avesse dato l'ordine di abbandonare il campo di battaglia. A questo disperato bisogno di salvare l'immagine i redattori del materiale confluito nei Pentagon Papers (relazioni, informazioni segrete, studi strategici, verbali di colloqui diplomatici, stime economiche) sacrificarono la verità, scelsero consapevolmente la strada della menzogna.
In apparenza mentire è più facile che dire la verità: «la menzogna non entra mai in conflitto con la ragione, perché le cose potrebbero essere andate veramente così come dice il bugiardo. Le menzogne sono spesso più plausibili, più attraenti per la ragione di quanto non lo sia la realtà, dal momento che il bugiardo ha il grande vantaggio di sapere in anticipo cosa l'ascoltatore desidera o si aspetta di sentire. Colui che mente ha preparato la sua storia per il pubblico consumo, ben attento a renderla credibile, mentre la realtà ha la sconcertante abitudine di metterci di fronte all'imprevisto per cui non eravamo preparati». Provate ad applicare queste considerazioni della Arendt alle presunte armi di distruzione di massa in possesso di Saddam, sbandierate da Bush per giustificare la guerra; e ripensate all'incidente del golfo del Tonchino, ai «tentativi deliberati di indurre la Repubblica democratica del Vietnam del Nord a prender provvedimenti cui gli Stati Uniti avrebbero potuto rispondere con una sistematica campagna aerea». Ma nei Pentagon Papers non c'è solo l'uso intenzionale della menzogna, che altera i meccanismi della decisione politica costruendo un mondo falso perché quelle decisioni possano apparire vere; non c'è solo la segretezza richiesta a ogni potere politico per certe operazioni delicate (gli arcana imperii); c'è, in più, la conclamata e ribadita volontà del potere politico di ignorare o disprezzare i fatti.
I rapporti dell'intelligence documentavano dettagliatamente l'inutilità dei bombardamenti sul Nord, per l'assenza di bersagli significativi (fabbriche e stabilimenti industriali): si decideva invece di bombardare nella convinzione che Ho Chi Minh fosse più interessato a proteggere il proprio sistema produttivo che a liberare il Vietnam del Sud. I servizi insistevano sul carattere «interno» della guerriglia vietcong insistendo sul suo stabile insediamento tra la popolazione sudvietnamita: si decideva invece di trattarli come invasori stranieri. Gli analisti del Pentagono giuravano sull'inesistenza di un rischio immediato di contagio comunista verso i territori confinanti con il Vietnam del Sud: la Casa Bianca sbandierava lo spauracchio dell'«effetto domino», delineando lo scenario di una vittoria comunista in tutta l'Asia. L’elenco delle decisioni che attraverso la menzogna e l’autoinganno capovolgevano la realtà dei fatti è lunghissimo: il risultato era l'estrema confusione e mutabilità degli obiettivi concreti, con i fatti che si prendevano la loro rivincita sulla menzogna provocando un corto circuito che lasciava sprofondare il processo delle decisioni politiche in un groviglio di contraddizioni.
Un documento del 1965 indicava così gli obiettivi degli Usa: «70%, impedire una sconfitta disonorevole (data la nostra reputazione di garanti); 20%, impedire che il Sud Vietnam e i territori adiacenti finiscano in mano cinese; 10%, fare in modo che la popolazione del Vietnam del Sud goda di condizioni migliori e più libere». E la Arendt commentava: «È senz'altro vero che la politica americana non perseguiva alcun obiettivo, né buono né cattivo, che ponesse un limite e controllasse la pura fantasia: in Vietnam non si sono perseguiti né obiettivi di tipo territoriale né di tipo economico. Il solo scopo di quell'enorme e costosa faccenda è stato quello di creare uno specifico stato d'animo». E la ragione per cui fu concesso di impiegare mezzi eccessivamente costosi, sia in termini di vite umane sia di risorse materiali, per raggiungere quel tipo di obiettivo va ricercata non solo in quella che la Arendt definiva «la sfortunata sovrabbondanza propria di questo paese», ma nella sua incapacità di comprendere come anche una grande potenza sia un potere limitato.
Dietro il cliché costantemente ripetuto della «più grande potenza mondiale» si nascondeva il pericoloso mito dell’onnipotenza. C’era però un antidoto potente a questo delirio: tra i giovani americani chiamati alle armi, nel 1970 si contarono 89.088 disertori, 100 mila obiettori di coscienza e decine di migliaia di tossicodipendenti; appellandosi ai caratteri originari degli Stati Uniti, a un loro Dna nutrito di spirito anticolonialista e passione democratica, la Arendt scriveva: «Perché in questo paese possano condursi con successo delle politiche avventuriste e aggressive dovrebbe verificarsi un cambiamento netto nel carattere nazionale della popolazione americana». Ora è da vedere se, con l'11 settembre 2001, questo cambiamento si sia effettivamente verificato.

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