Mantova, 7 settembre 2007
Ospite atteso e acclamato in molte edizioni del Festival della Letteratura di Mantova, quest’anno torna dopo la terribile tragedia che lo ha colpito l’estate scorsa: la perdita del figlio URI, comandate carrista, durante la seconda guerra del Libano.
Un applauso scrosciante, una standing ovation accoglie David Grossman al suo ingresso a Piazza Castello.
Con Peter Florence, il promotore del Festival di Hay-on Wye, lo scrittore israeliano affronta i temi letterari che caratterizzano la sua arte narrativa, il suo rapporto con la scrittura, con l’ebraico e con l’Altro.
Qual è il significato della lingua ebraica per David Grossman?
Per lo scrittore israeliano è miracoloso che l’ebraico, una lingua antichissima che ha attraversato, pressoché ininterrottamente, tante generazioni esista quasi immutata ancor oggi: ogni frase detta in questa lingua riecheggia una storia lunghissima che dalla Bibbia, al Talmud, alla poesia ebraica medioevale giunge fino allo slang dei giovani di oggi.
“Credo – continua Grossman – che ogni scrittore, da qualunque paese provenga, provi una sensazione di soffocamento e di claustrofobia quando gli altri usano le parole in una maniera che non è sintonizzata con il proprio modo di vivere e di parlare. In Israele in particolare, le persone danno vita ad un linguaggio falso, una lingua che fa da cuscinetto fra i singoli individui e la realtà politica esistente che, a volte, è autenticamente insopportabile. Dinanzi a questa situazione l’individuo si sente sempre più alienato, estraniato dalla realtà che gli sta attorno, non riesce a capirla e di conseguenza neppure a cambiarla, finendo per rimanerne vittima. Quando scrivo sulla realtà che mi circonda con le mie metafore, le mie parole, di colpo gli stereotipi che avvolgono la situazione si dissolvono e, se prima la realtà mi pareva immodificabile e arbitraria, ora ne colgo le sfumature, posso cambiarla e dunque non esserne più vittima”.
Qual è la differenza fondamentale fra scrivere opere di narrativa, attingendo all’invenzione dello scrittore e saggi sulla situazione politica?
Grossman spiega che se nella scrittura narrativa è attratto dalle situazioni più estreme e spinose, descrivendo la situazione politica del suo paese tenta di ridurre gli aspetti estremi, la durezza di una realtà spesso invivibile.
Se scrivendo articoli per i giornali la sua attenzione è rivolta a coloro che leggeranno i suoi scritti e il suo obiettivo è cercare di cambiare il loro punto di vista, offrire un lessico nuovo per descrivere la complessa situazione politica, quando si approccia alla narrativa non pensa mai ai lettori, quasi se ne dimentica, e forse è questo il motivo per cui impiega quattro o cinque anni a scrivere un romanzo: un tempo di cui Grossman ha bisogno per portare se stesso in “quel posto” dove l’unica cosa che conta è la costituzione interiore della storia, il campo della vicenda e dei personaggi.
Comprendere l’”Altro” è per David Grossman di estrema importanza.
“Il mio popolo, la mia cultura sono sempre stati guardati dagli altri come l’Altro e forse proprio questo ha acuito in noi il desiderio di stabilire rapporti con altre religioni e culture. Per me – continua Grossman – uno dei piaceri della scrittura consiste nella possibilità di capire, dal di dentro, un altro essere umano, di conoscere il suo stesso codice. Quando scrivo di persone diverse da me (donne, palestinesi novantenni, comandanti di campi di sterminio) voglio capire da vicino cosa sia quel filamento di luce e di colore che vibra dentro ogni essere umano, desidero “essere i miei personaggi” e questo è l’unico modo che ho a disposizione per capire gli altri”.
Questo straordinario percorso nella sua creatività non impedisce allo scrittore israeliano di affrontare i temi più scottanti del conflitto mediorientale.
“Non è possibile arrivare a una pace tra Israele e i palestinesi senza coinvolgere Hamas. Non è un partner facile perchè proclama di voler distruggere Israele, ma senza Hamas ogni tentativo di pace rischia di fallire”.
Da ultimo Peter Florence chiede a Grossman come è riuscito a scrivere nell’ultimo anno dopo la morte di suo figlio Uri.
E’ molto difficile per lo scrittore parlare della sua tragedia e chiede per questo comprensione al pubblico, ma racconta che quando i suoi cari amici, Amos Oz e Abraham Yehoshua, sono andati a trovarlo durante i giorni della Shivà, i sette giorni del lutto ebraico, ha detto loro che forse non sarebbe stato in grado di salvare il romanzo che stava scrivendo.
Entrambi, quasi fossero d’accordo, gli hanno risposto che sarebbe stato il romanzo a salvare lui.
E così è stato.
“Posso dire che il “luogo della scrittura” è l’unico posto sopportabile in quest’ultimo anno nel quale mi è sembrato di poter toccare ciò che mi è accaduto a mani nude senza morirne”.
Giorgia Greco