La lingua speciale di Uri David Grossman
Traduzione e adattamento di Bianca Pitzorno
Mondadori Euro 12
Bisogna possedere la grazia dolente e quella speciale leggerezza consapevole che nasce – a volte, non in tutti, dalla consuetudine con grandi sofferenze per fare quel che David Grossman è riuscito a fare. Una fiaba, la più bella di tutte. Una favola da raccontare ai bambini e farli ridere ma ridere tanto, la sera, e trasformare così in un piacere per tutti quello che è stato il dolore più grande per alcuni. Prendere il buio e farne luce, mutare le lacrime in sorrisi, la caverna di pece in un prato di maggio. Questo le parole possono fare, le parole e non il silenzio. Solo chi ha il coraggio di maneggiarle ne scopre in dono la forza terapeutica e il potere misterioso: possono rompere e rimettere insieme, aggiustare, ricucire, lenire, persino guarire qualche volta anche se si sa, guarire mai del tutto. Consolare, ecco: accompagnare avanti.
Un anno esatto dopo la morte in guerra del figlio Uri, ventenne, Grossman offre ai bambini di tutto il mondo una favola intitolata “La lingua speciale di Uri”. Nell’incantata traduzione di Bianca Pitzorno Uri è un bambino di un anno e mezzo che comincia a parlare ma sa usare tra le consonanti solo la T. Ovvio che i grandi non lo capiscono. Manuela Santini disegna questi adulti con gli occhi tondi e smarriti: vorrebbero, ma proprio non riescono a intenderlo. Uri dice “ititiete etatoto tiè tuto totto”, cioè “il bicchiere è caduto e si è rotto”, certo. Un formichiere ha bevuto il tè in salotto? Chiede il padre. La logica si mette sempre contro chi non vuol sentire. Solo Yonatan, il fratello maggiore che ha cinque anni, capisce benissimo Uri. Dev’essere perché non è più piccolo ma non è ancora grande così può stare in mezzo a questi due mondi così lontani: così può fare da interprete. Cos’è un interprete? Domanda Yonatan. “E’ una persona che capisce e spiega agli altri una lingua che loro non capiscono”. Ecco, è questo. Alle volte può spiegare un’idea, chiarire un malinteso, persino mettere pace. Nell’orazione funebre per Uri, il 17 agosto del 2006, Grossman raccontava di quando viaggiavano e i figli Yonatan e Uri stavano seduti dietro nella macchina. Anche nella fiaba Uri sta seduto dietro, grida “Tattetoteteto te u uatotato”. Un ascensore ha chiesto se c’è più cioccolato? Qualcuno fa colazione a letto col bue muschiato? No, ride Yonatan: dice “attenti dietro c’è un autocarro”. Si sono perse le chiavi dei nonni, adesso. Dove le hai messe, Uri. Nel fazzoletto della mia sarta? Nello zainetto dell’astronauta? L’ansia cresce, bisogna svegliare Yonatan. “Ha detto che sono in bagno, dentro la sua barca”. E i due fratelli, nell’immagine che chiude il libro, tornano a dormire insieme.
“Mi parlavi, mi parlavi tanto e io ero orgoglioso di avere l’onore di essere il tuo confidente”, diceva un anno fa Grossman sulla tomba del figlio. Fiumi di parole ironiche, drammatiche, profetiche e leggere. Il potere salvifico della scrittura prevede che oggi, nella favola, Uri sia il bambino di un attimo prima: quello che parla, sì, ma ancora nessuno sa cosa dica. Adesso bisogna dimenticare la cronaca: il lutto l’orazione e tutto il resto. Bisogna solo ascoltare questa fiaba per quello che è. Quante volte, quante centinaia di volte abbiamo giocato coi nostri figli a questo gioco? “Mamma vieni”. Hai detto tieni? No vieni. Freni? No vieni. Premi? No mamma ho detto vieni e ridono a alla fine, ridono coi buchi nelle guance perché è un fantastico sollievo sapere che l’incomprensione è solo uno scherzo, che non c’è pericolo. Ridono perché già sanno, a due anni e a tre, che questo è il gioco che scaccia la paura più grande: quella di non essere sentiti, capiti, tenuti con sé. Quella di non trovare sintonia con l’altro, di non avere interpreti e di restare soli. Che poi è la ragione per cui Uri è morto in guerra ed è la stessa per cui vive in questo libro.
Concita De Gregorio
La Repubblica