Sul FOGLIO di oggi, 08/09/2007, a pag.II. Carlo Panella spiega la natura dello scontro tra Fatah e Hamas nella striscia. Rolla Scolari, nel pezzo che segue, analizza il radicamento di Hamas a Gaza.
Ecco l'articolo di Carlo Panella, dal titolo " Ora a Gaza non c'è più nemmeno libertà di pregare all'aperto".
Roma. Cinquanta feriti e decine di arresti negli scontri di ieri a Gaza tra fedeli che hanno rifiutavato di pregare nelle moschee controllate da Hamas e hanno sfidato il decreto con cui il governo di Ismail Haniye ha vietato la preghiera al di fuori delle moschee (il decreto del 13 agosto impone addirittura il permesso della polizia per celebrare cerimonie di nozze). Tra gli arrestati anche sette giornalisti; da un mese infatti le forze di sicurezza di Hamas sequestrano e imprigionano tutti i giornalisti palestinesi indipendenti che tentano di dare notizie sugli scontri di Gaza. Per solidarizzare con i manifestanti di Gaza, a Ramallah, in Cisgiordania, anche il presidente Abu Mazen e il premier Salam Fayyed hanno pregato fuori dalle moschee assieme a migliaia di militanti di al Fatah. Il braccio di ferro sulla preghiera e il ripetersi degli scontri (il 10, il 13, il 24, il 28 e il 31 agosto) con un centinaio di feriti e alcuni morti, ha spostato la frattura tra Hamas e al Fatah addirittura sul più scabroso terreno liturgico e religioso. La stessa Università coranica di al Azhar del Cairo, la più autorevole del mondo sunnita, ha risposto ieri positivamente alla richiesta di al Fatah di emettere una fatwa che condanni il divieto a pregare in pubblico stabilito da Hamas, ma naturalmente questo non ha avuto nessun effetto sul governo di Haniye.Abu Mazen ha denunciato “l’offensiva in atto contro i dimostranti, nel tentativo di imporre una dittatura cieca e una cultura estremista che contraddicono i valore della nostra gente e la nostra eredità storica; gli eventi in corso a Gaza testimoniano come il colpo di stato di Hamas stia ormai giungendo alla fine. Gli eroici abitanti di Gaza non dovranno più essere terrorizzati da questi mercenari”. E’ dunque sempre più evidente che Ismail Haniye – nonostante i suoi appelli alla riconciliazione – non intende minimamente avviare una politica di appeasement a Gaza, tanto che il 28 agosto ha chiuso d’autorità 4 cliniche private, i cui medici avevano partecipato ad uno sciopero per protesta contro l’epurazione di un dirigente sanitario vicino a Fatah. Una decisione che ha reso ancora più precaria la situazione sanitaria della striscia, già gravissima, anche per lo sciopero dei netturbini che non vengono pagati da mesi dal governo di Hamas perché accusati di essere vicini ad al Fatah. Il tutto, mentre ronde di incappucciati armati pattuglianopattugliano le strade – e persino le spiagge – per controllare che le coppie che incontrano “seguano i precetti islamici”, tutti gli Internet point sono stati chiusi e i locali pubblici sono rigidamente interdetti alle donne. L’aggravarsi dello scontro sulla preghiera del venerdì e la decisione di Hamas di ignorare la fatwa contraria di al Azhar, mantenendo un provvedimento che ha un precedente solo nelle dittature più feroci (lo scià lo adottò, invano, nel 1978 a Teheran), danno il segno di una frattura irreparabile che ormai coinvolge in pieno il più prezioso ambito religioso. La preghiera è uno dei cinque pilastri dell’islam e il divieto di celebrarla in pubblico sfida i confini del sacrilego. Massimo D’Alema e Romano Prodi che si sono esposti nei giorni scorsi con imprudenti appelli alla ripresa del dialogo con Hamas – poi confusamente rimangiati – hanno un’occasione per comprendere finalmente la natura del braccio di ferro atto in Palestina. Non uno scontro di potere tra forze nazionaliste – quindi ricomponibile con una trattativa – ma la pretesa di un gruppo fanatico e cieco di imporre una dittatura feroce che pretende di entrare sino nelle coscienze dei palestinesi. Terreno su cui la mediazione è impossibile.
E quello di Rolla Scolari dal titolo " La guerra delle ciotole"
In una bacheca ci sono le fotografie di ragazzini seduti a terra in cerchio, le gambe incrociate, il Corano alla mano. Tra loro, un uomo dalla barba lunga, un copricapo bianco sulla testa. Ci sono anche ragazze velate sorridenti in classe durante una lezione di religione islamica. L’associazione al Furqan “per la custodia del ruolo del nobile Corano” è una delle 103 organizzazioni non governative che chiuderanno per ordine di un decreto del governo palestinese di Salam Fayyad. Al Furqan è “la salvazione”, il criterio di discernere il bene dal male, il Corano stesso. E’ anche il nome della venticinquesima sura del libro sacro ai musulmani: “Sia benedetto colui che ha fatto scendere la salvazione sul suo servo, perché fosse un ammonimento per le sue creature”, dice il primo versetto. L’annuncio della chiusura di 103 organizzazioni caritatevoli, la maggior parte islamiche, nate dopo l’avvento al potere di Hamas e legate al gruppo, fa parte dello sforzo dell’esecutivo ad interim della Cisgiordania d’indebolire il Movimento per la Resistenza Islamico, che controlla la Striscia di Gaza partire dal golpe di giugno. Sono 500 membri di Hamas arrestati in due mesi. Istituzioni del movimento sono state prese d’assalto da uomini armati legati a Fatah, date alle fiamme, saccheggiate. Ora, invece, Ramallah ha scelto con una parvenza di legalità di colpire Hamas sul fianco più forte. Non quello militare, ma quello sociale. Come i Fratelli musulmani egiziani, da cui il gruppo è nato, e i colleghi libanesi di Hezbollah, il movimento palestinese ha fin dagli inizi sviluppato una rete di welfare parastatale possente ed efficace, più competitiva rispetto a quella delle autorità locali. Prima di diventare Hamas, nel 1987, gruppo, ancora privo di tendenze nazionalistiche, si chiamava Mujama: “Il suo progetto era basato su un programma per la creazione di una rete di scuole e lezioni coraniche per predicare il messaggio di Allah – scrivono Shaul Mishal e Avraham Sela nel loro libro “The Palestinian Hamas” – I leader della Mujama incoraggiavano attività sociali, individuali e comunitarie, condotte in accordo alle norme islamiche”. Allora come oggi, il gruppo seguiva la strategia della Fratellanza musulmana: creare asili e scuole, mense con un ciotola di cibo a disposizione dei più poveri, cliniche, centri educativi per le donne e club sportivi di ricreazione per i giovani. Ora, le organizzazioni legate a Hamas forniscono anche pensioni alle famiglie dei martiri”, a quelle dei prigionieri nelle carceri israeliane e dell’Autorità palestinese, ai feriti durante l’operazione di Tsahal. Per i funzionari dell’Anp, il decreto non ha come obiettivo gruppi particolari. Eppure, a inizio agosto, le autorità hanno congelato gli asset di al Salah, una delle più importanti associazioni caritatevoli islamiche a Gaza, definita dagli Stati Uniti un sostenitore chiave di Hamas”. La Islamic Charity Association, organizzazione vicina al movimento, in seguito ai fatti, ha ritirato i soldi dal proprio conto palestinese. La decisione di chiudere queste associazioni, ha detto il ministro dell’Informazione di Ramallah, Riad al Malki, serve a prevenire il riciclaggio di danaro da parte di Hamas. Per l’Anp, la maggior parte delle Ong vicine al movimento sarebbe fonte di soldi per sovvenzionare le attività militari del gruppo acquistare armi. Al Furqan è sulla lista delle istituzioni dal destino segnato. Uno dei membri del consiglio d’amministrazione, che preferisce rimanere anonimo, porta la barba alla maniera islamica, discreta, ben rasata. Nella stessa stanza, siedono due segretarie, giovani, indossano veli scuri. “L’associazione fornisce opportunità alle persone di memorizzare il sacro Corano – spiega l’uomo al Foglio – Abbiamo organizzato oltre 200 workshop e diplomato 4.000 studenti, uomini e donne, da quando abbiamo aperto nel settembre 2006”. La sede è stata attaccata due volte nei mesi passati. Durante i primi scontri a Gaza, uomini armati hanno fatto irruzione. Hanno portato via i computer, poi Il ruolo chiave di quelle organizzazioni “caritatevoli”, che costruiscono asili e danno pensioni alle famiglie degli attentatori suicidihanno rivenduti al mercato nero. Dopo il conflitto nella Striscia, il 15 giugno, il direttore Muhammed Abu Libdi è stato arrestato, i servizi di sicurezza dell’Anp hanno confiscato tutti i file pertinenti alle transazioni finanziarie. I finanziamenti dell’organizzazione, spiega il membro del consiglio d’amministrazione, non arrivano dall’estero, ma dai Territori stessi. Ci tiene a precisare che l’associazione non ha alcun legame diretto con Hamas, ma ad accompagnarci all’ufficio di al Furqan è proprio un portavoce del movimento islamista. Sheikh Khader Yasid è già passato per il carcere dopo scissione tra la Gaza di Hamas e il nuovo governo Fayyad. Membri del suo gruppo sono stati sollevati, pure loro con decreto presidenziale, da incarichi pubblici in Cisgiordania. Lui, piccolo e con una pancia importante, era fino a poco tempo fa il direttore generale del ministero dell’Informazione. Ora ha perso il lavoro e vive grazie a una pensione che gli passa Hamas. Le 103 associazioni sostengono famiglie e orfani. Tutte le ong sono state registrate al ministero dell’Interno, alcune prima della nascita dell’Anp, altre addirittura sotto gli ottomani. Donatori europei e americani hanno avuto a che fare con molte associazioni in maniera generosa. Queste istituzioni hanno fornito aiuto alla popolazione palestinese senza eccezioni. Hanno portato a termine il lavoro del ministero degli Affari pubblici molto più efficientemente del ministero stesso. Hannoscuole speciali, centri medici che curano persone a prezzi modici. Hanno offerto servizi che l’Anp è incapace di fornire e lo hanno fatto, in un modo o nell’altro, cooperando con l’Autorità”. Secondo lo sheikh, ottengono denaro anche da organizzazioni islamiche internazionali, alcune delle quali, però, sono state chiuse dai paesi che le ospitavano con l’accusa di sovvenzionare il terrorismo. Le cita lui stesso: la Holy Land Foundation for Relief and Development, negli Stati Uniti, tra i cui fondatori c’è Moussa Abu Marzouq, leader di Hamas in esilio a Damasco; al Aqsa, in Germania, cui nel 2002 sono stati congelati gli asset e con cui sono vietate le transazioni finanziarie. Nel 2003, National Rewiew pubblicò un saggio sulla rete internazionale di organizzazioni caritatevoli islamiche. Spiega come “un fatto sia ormai chiaro: i soldi dall’America destinati ad al Qaida arrivano dalla stessa fonte dei soldi destinati all’organizzazione terroristica Hamas”. “Tutti sanno che il danaro non va né ai gruppi di resistenza né per l’acquisto di armi”, sostiene invece Yasid. I vertici del governo di Ramallah non sono d’accordo. Sumud Damir, giovane consigliere legale del ministero dell’Interno spiega al Foglio che sei delle 103 organizzazioni hanno ricevuto nei mesi passati un avvertimento per irregolarità nelle licenze e non hanno ancora modificato il loro status. Ottantaquattro sono state registrate a Gaza, pur operando in Cisgiordania. A fornire la licenzalicenza è stato l’ex ministro dell’Interno, Said Siam, uomo di Hamas. Ma l’ufficio di Gaza non ha potere legale immatricolare istituzioni che operano in Cisgiordania. Tredici ong starebbero invece lavorando senza registrazione governativa. All’esecutivo viene però contestata l’operazione mancanza di trasparenza. Ad annunciare la mossa, infatti, è stato l’ufficio del premier, e non il competente ministero dell’Interno. Alcune organizzazioni non governative indipendenti, per i diritti dell’uomo, hanno condannato il decreto, bollandolo come pericoloso per la vivace società civile palestinese, composta di oltre 1.680 Ong. Nessuno esclude il movente politico, spiega Hissam Arouri, del Palestinian non Governmental Organizations Network. Spiega però legalmente è contro la legge usare le organizzazioni non governative scopi politici, come Hamas è accusato fare. Al Jazeera, con 24 ore di anticipo sulla pubblicazione della lista delle associazioni, ha dedicato alla questione un talk show, durante il quale Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas Gaza, ha accusato il governo di voler sradicare” il suo movimento. Pochi giorni fa, alcuni uomini armati si sono presentati all’ospedale al Zakah carità”) di Tulkarem, finanziato Hamas. Lo hanno ribattezzato con una nuova grande scritta all’entrata: Ospedale Sami al Madhoun”, dal nome di un famoso comandante di FatahFatah ucciso negli scontri di Gaza. Dalla farmacia dell’istituto sanitario confermano, ma spiegano che i dati sulla corrispondenza destinata all’amministrazione non sono stati cambiati. Nessuno ha il coraggio di rimuovere cartello. Nasser Jumaa è membro del Consiglio legislativo palestinese ed ex leader delle Brigate dei Martiri di al Aqsa, vicine a Fatah. Ora, dopo aver appeso il fucile d’assalto M16 a un chiodo, indossa una camicia bianca di Valentino e scarpe a punta come piacciono in Cisgiordania. Un tempo era una figura chiave della nuova guardia del suo partito. Non vede nulla di politico nella mossa e invita a notare come sulla lista ci siano anche (poche) organizzazioni di Fatah e una cristiana. Lui stesso è alla guida di diverse Ong. Ammette che prima dell’avvento potere di Hamas ci volevano fino a quattro anni per una licenza, mentre dopo l’elezione nel 2006 un grande numero di nuove istituzioni è stato registrato creando sospetti. Jumaa ha da poco aperto due nuove ong, come un altro storico membro di Fatah, Kaddoura Fares, che ha recentemente inaugurato un’associazione dal nome ottimista: “Promessa di democrazia e dialogo”. La campagna del governo contro la potente infrastruttura del welfare di Hamas ha un lato costruttivo. Il premier Fayyad ha infatti cercato d’indebolire l’influenza di Hamas e delle sue agenzie sociali tentando di costruire un embrionale sistema governativogovernativo di servizi, usando fondi occidentali e arabi. Spiega Shaawan Giabrani, direttore dell’associazione al Haq, il diritto, che più di una persona all’interno di Fatah ha realizzato, dopo il successo di Hamas nel welfare, che è necessario puntare sul settore sociale delle Ong per ottenere voti. “Fatah ha imparato dall’esperienza di Hamas è si è buttata nel sociale. Avrà successo?”. Il movimento islamista, infatti, è indubbiamente una potenza nel campo e fornisce servizi efficienti. “Toccare questo settore avrà influssi negativi sull’Anp, non su Hamas, perché l’Anp è incapace di colmare il vuoto”, accusa Sheikh Yasid, portavoce del movimento. Esiste anche il timore che le associazioni costrette a chiudere per decreto comincino a operare clandestinamente. I tentativi di Fatah arrivano in concomitanza con una proposta giunta tra le mani del premier Fayyad attraverso Rani Loewenstein, ex funzionario israeliano molto vicino all’Anp, secondo quanto scrive il quotidiano Haaretz. In occasione di una conferenza al Washington Institute for Near East Policy, presieduta dall’ambasciatore Dennis Ross, coordinatore per il medio oriente dell’ex presidente americano Bill Clinton, l’israeliano avrebbe esposto a membri dell’Autorità nazionale il piano: il governo palestinese deve stabilire in Cisgiordania una rete di sicurezza sociale alternativa per battere Hamas al suo stesso gioco e vincere così le elezioni. Per farlo, Fatah sa che c’è un luogo che non deve trascurare: la moschea. “Il mezzo più efficace per espandere l’influenza della Mujama era la moschea (…) – scrivono Mishal e Sela nell’opera su Hamas – Sotto questo punto di vista, i Fratelli musulmani avevano un chiaro vantaggio sulle forze nazionaliste rappresentate dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. (…) Un prezioso palcoscenico per propagandare il loro messaggio e mobilitare sostegno pubblico”. La situazione non è cambiata. Per questo, dai giorni degli scontri di Gaza, Fatah ha preso di mira anche gli imam delle moschee di Cisgiordania, i loro sermoni, i dirigenti degli Auqaf, gli affari religiosi, istituzione che concentra la propria attività sulla predicazione ed è responsabile, per conto del governo, di tutte le moschee e delle proprietà dell’istituzione stessa. “La divisione tra Hamas e Fatah ha raggiunto un picco – scrive Hafez al Barghouti, direttore di al Hayat al Jadeedah, quotidiano progovernativo della Cisgiordania – soprattutto dopo l’inclusione delle moschee e delle preghiere del venerdì nella disputa”. L’ufficio degli Auqaf a Ramallah si trova nel retro della centrale moschea Gamal Abdel Nasser, in pieno suq, tra cassette di pomodori e venditori di spiedini d’agnello. A parte l’enorme fotografia del Duomo della Roccia di Gerusalemme e un Corano discretamente poggiato sulla vasta scrivania, non c’è nulla che parli di fede nella stanza del direttore e nessun personaggio che somigli a un uomo di religione. Una gigantografia dell’ex leader Yasser Arafat sorride da un angolo della stanza a conferma che siamo in territorio di Fatah. Hamas accusa il governo di aver licenziato alcuni imam legati al movimento nelle ultime settimane. “Ci sono istruzioni che si rifanno a una legge giordana del 1986 – spiega Adel al Barghouti, l’attuale direttore – chiede la non politicizzazione del messaggio religioso”. Prima delle elezioni del 2006 gli Auqaf hanno pubblicato un comunicato richiedendo ai partiti politici di non fare uso delle moschee per la campagna elettorale. Al Barghouti è stato direttore dell’ufficio di Ramallah per dieci anni. Con l’avvento di Hamas ha perso il posto, lo ha ritrovato con il recente ritorno di Fatah. “Gli imam che non rispettano la legge possono essere richiamati. A Ramallah finora nessuno è stato licenziato, ma due predicatori hanno ricevuto avvertimenti; ci sono stati arresti in altre parti della Cisgiordania – dice l’uomo, senza fornire però nomi e numeri – Non vogliamo che quello che è successo a Gaza si ripeta qui”. Mahmoud al Husari, direttore degli Auqaf di Tulkarem, a nord, e uomo di Hamas, ha da pochi giorni ricevuto la notifica di licenziamento.
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