Dalla STAMPA di oggi, 08/09/2007, a pag.35. riportiamo l'opinione di Arrigo Levi sulla visita del presidente delo Stato d'Israele in Italia.
Shimòn Peres, nel corso della sua lunga, gloriosa carriera politica, è stato in Italia, prima della sua visita in qualità di Presidente dello Stato d’Israele, innumerevoli volte. In Italia si sente bene, fra amici. Al presidente Napolitano, che è uno di questi, ha detto: «Tra Roma e Gerusalemme, questa è la stagione migliore». Alla comunità ebraica romana, la più antica d’Occidente, in un Tempio Maggiore riempito all’inverosimile, ha detto, insolitamente commosso: «Qui mi sento più ebreo di quanto mi sia mai sentito nella mia vita». Nei lunghi colloqui col Capo dello Stato e con Romano Prodi ha detto parole molto belle sull’Italia. Ha manifestato una fiducia ragionata ma prudente sull’andamento del negoziato in corso fra Olmert e Abu Mazen, e ha risposto con concretezza a chi gli chiedeva che cosa l’Italia e l’Europa possano fare per aiutare il progresso della nuova stagione di trattative fra Israeliani e Palestinesi. Contemporaneamente, a Gerusalemme, il ministro degli Esteri Tzipi Livni, in conferenza stampa congiunta con Massimo D’Alema, definiva il collega italiano «un ottimo amico d’Israele, che capisce più di altri la complicata situazione nella regione e la natura delle minacce che fronteggiamo». Di questi riconoscimenti è giusto prendere atto, in una stagione che vede gli Italiani assai più disposti all’autocritica che all’autocompiacimento. Effettivamente, il nostro Paese è oggi particolarmente impegnato ed attivo sul fronte israelo-palestinese, con un moltiplicarsi di viaggi dello stesso D’Alema e di Prodi nelle capitali mediorientali, e con una presenza militare determinante per mantenere una pace precaria nel Sud del Libano. E Israele, con l’America dell’ultimo Bush esitante e quasi assente, è meglio disposta ad appoggiarsi all’Europa, ora presente sulla scena con la personalità di Tony Blair. Ma non nascondiamo l’emozione inquieta con cui ascoltavamo, due sere fa alla grande Sinagoga, le parole dell’antico salmo che implorava il Signore Dio nostro a dare la pace a Israele, e a tutti i popoli. Non è che il Signore abbia mai dimostrato grande generosità verso il «suo popolo». O forse è meglio ammettere che il Signore Iddio, come diceva quel grande Papa che fu Giovanni Paolo II, si è privato dell’onnipotenza, dal momento in cui ha dato agli uomini, insieme a tanti buoni comandamenti, il dono del libero arbitrio: gli uomini faticano a usarlo bene. E forse in nessun luogo come nella Terra che chiamiamo Santa, e nel suo cuore, la rosea, aerea Gerusalemme, sentiamo così forte il conflitto fra la consapevolezza di ciò che andrebbe fatto per portare la pace ai due popoli che la storia impietosa ha voluto far incontrare sulla stessa terra - terra d’Israele, e terra d’Islam - e la capacità di farlo, ammettendo che solo rinunciando a parte del proprio diritto a vantaggio del diritto altrui si creeranno le condizioni per la pace, per il bene di tutti. Ora si appuntano molte speranze, o forse illusioni, sulla conferenza che l’America ha convocato per novembre a Washington, senza che sia nemmeno chiaro, almeno per ora, chi dovrebbe parteciparvi. Ma ha ragione la signora Livni quando dice: «Tutti parlano del meeting di novembre, ma sono più importanti i risultati del dialogo tra Israeliani e Palestinesi. È più importante raggiungere un accordo, e poi pensare al meeting». Purtroppo questo non è un dialogo a due ma a quattro: perché sia Olmert che Abu Mazen debbono discutere, oltre che con la controparte, ciascuno con il proprio popolo. Abu Mazen, addirittura, si trova a controllare solo metà del territorio della futura Palestina, dopo avere esautorato con la forza il governo guidato da Hamas, che aveva vinto le elezioni. Esperti israeliani ci assicurano che Hamas non è tutto così estremista e intrattabile come sembra, che ha in verità due anime, una fanatico-religiosa, e una disposta al compromesso. Ma l’ombra di Hamas è lunga, e minacciosa, sul negoziato in corso. Non solo per la paura di qualche attentato particolarmente tragico, capace di mandare a monte ogni incontro. Ma perché, se si vuole svuotare Hamas del suo prestigio e del suo «potere d’interdizione», se si vuole rendere possibile la riconquista futura della Striscia di Gaza da parte dei moderati, bisogna che Abu Mazen porti a casa non solo una generica «dichiarazione di principi», ma qualche impegno molto concreto da parte d’Israele: sul futuro di Gerusalemme capitale di due Stati (e su questo si sarebbero fatti progressi); sulla definizione dei confini; sulla restituzione allo stesso Abu Mazen di un potere reale di governo sulla West Bank; sul futuro dei profughi palestinesi. E qui torniamo alla domanda che Peres si è sentito rivolgere: che possiamo fare per aiutare il processo di pace? La risposta era prevedibile: aiutate i Palestinesi e la loro economia, aiutateci a dimostrare che la pace porta benessere a tutti. È una risposta giusta (Peres la sta predicando da anni), ma difficile da mettere in pratica: come far rinascere l’economia della West Bank, in un territorio spezzettato da centinaia di posti di blocco israeliani? Ma come convincere gli Israeliani, dopo l’esito infelice del ritiro da Gaza conquistata militarmente da Hamas, e con i continui lanci di missili su obiettivi civili israeliani, che essi debbono ritirarsi, senza avere alcuna garanzia, anche dalla West Bank, mettendo a rischio la sicurezza e forse la sopravvivenza dello Stato ebraico, e riportando in Israele, anche con la forza, i religiosi ultra-sionisti che costruiscono insediamenti in territori destinati al futuro Stato palestinese? Un interlocutore israeliano mi dice: ci vuole un miracolo, perché il negoziato abbia successo. La pace merita sicuramente un miracolo; e chi vuole si rivolga al Signore Iddio perché lo faccia. Ma temo che per farlo bisogna che gli uomini gli diano una buona mano. Per inviare la propria opinione alla Stampa, cliccare sulla e-mail sottostante.
|