Abbandonare i musulmani moderati e fidarsi di Ramadan le due facce di una strategia suicida
Testata: Il Foglio Data: 07 settembre 2007 Pagina: 2 Autore: Francesco De Remigis - Carlo Panella - Giulio Meotti Titolo: «Dai garage islamisti al sofisma subdolo del professori Ramadan - Nella pallida Olanda infuria la battaglia degli apostati liberali»
A pagina 2 e 3 dell'inserto Il FOGLIO del 7 settembre pubblica un dossier su islam e fondamentalismo:
Un articolo di Francesco De Remigis sulla persecuzione dei musulmani moderati italiani da parte dei fondamentalisti:
Vergata in arabo su un ritaglio di giornale, poggiata sulla tua scrivania, la scritta “kafir” è comparsa in Italia lunedì scorso. Nel silenzio quasi generale dei media l’islam radicale ha violato la privacy dell’ufficio pubblico dove ogni giorno poggi la tua borsa prima di cominciare il lavoro: si è introdotto nella stanza di una dipendente musulmana che ha scelto l’integrazione anziché la via dell’estremismo islamico. Ecco perché – per Dounia Ettaib e Daniela Santanché, la parlamentare di An con la quale ha portato avanti la battaglia di Hina Saleem, sgozzata a Brescia dalla famiglia perché voleva vivere all’occidentale – è stata emessa la sentenza: “Infedele”. Secondo il vicedirettore del Corriere della Sera, Magdi Allam, tra i pochissimi commentatori a occuparsi della vicenda di lunedì, “si è trattato di una fatwa di morte”. I casi di islamici definiti “infedeli” da altri musulmani in Italia si moltiplicano di giorno in giorno, ma quasi mai è stato preso un provvedimento e mai nessuno ha provato ad aprire un dibattito attorno a questi episodi. Allam sostiene che “l’insieme della classe politica ha paura di guardare in faccia alla realtà, non assumendosi alcuna responsabilità di fronte a questi episodi come invece dovrebbe fare una vera classe di statisti”. Diventata da poco cittadina italiana, Dounia era infatti già stata aggredita a Milano, nella zona dove ha sede la moschea di Viale Jenner. Pochi giorni dopo è stato pubblicato un responso giuridico che spiega perché “debbono essere giustiziati” non tanto coloro che abbandonano l’islam, “ma quelli che in pubblico dichiarano la loro azione e possono causare Fitna denigrando il nome di Allah l’Altissimo”. La fatwa, ricorda Allam, è comparsa sul sito Internet islam-online gestito dal convertito Hamza Piccardo, ex segretario nazionale dell’Ucoii. Neppure una nota del Viminale dopo la lettera lasciata da ignoti sulla sua scrivania, soltanto dichiarazioni di solidarietà rivolte alla principale destinataria del messaggio, Dounia Ettaib, vicepresidente dell’Acmid, l’associazione guidata dalla marocchina Souad Sbai, a sua volta definita in passato una “musulmana fasulla”. Allam sostiene che per evitare episodi del genere serve uno stop alla costruzione di nuove moschee, utile anche per prevenire l’islamofobia e proteggere i tanti islamici che, lottando ogni giorno contro chi vorrebbe imporre loro un rigore che non ha alcun fondamento religioso, cercano invece l’integrazione. Leggendo poi l’indagine più recente della Camera di Commercio si nota che nel 2006 il 54,5 per cento degli intervistati si è sentito meno sicuro rispetto al 2005 nei luoghi pubblici come le stazioni, le metropolitane e i centri commerciali, per paura di attentati terroristici. “Gli italiani – dice infatti il vicedirettore del Corriere – stanno cominciando a percepire in modo chiaro che le istituzioni si stanno arrendendo all’estremismo di matrice islamica. Per questo serve un passo serio per dare l’idea che lo stato sia realmente intenzionato a confrontarsi con simili minacce”. Questa mancata presa di coscienza si estende soprattutto alla corrente moderata dell’islam, maggioritaria nelle città dove la mancanza di polso dello stato e i tentennamenti del ministero dell’Interno stanno suscitando reazioni di varia natura. Ad esempio: “Con parole povere, con rammarico comunico questo io che voglio stare zitto e non dire più nulla sui musulmani e i loro imam”. A scriverlo è Mohammed Lamsuni, poeta di origine marocchina che da quattordici anni vive a Torino, la città nella quale porta avanti la sua battaglia per sostenere i diritti degli immigrati, musulmani e non, dove la lotta per la leadership diventa ogni giorno più preoccupante. “In questo contesto – dice Allam – le istituzioni della Repubblica dovrebbero fare un passo serio, altrimenti si rischia la giustizia fai-da-te che di fatto potrebbe essere già iniziata”. Sono infatti gli stessi musulmani moderati, quelli laici, ma anche quelli che pregano cinque volte al giorno a chiedere una riflessione approfondita che non sia limitata alle parole di solidarietà, ma che inizi a considerare seriamente intimidazioni che hanno un evidente movente religioso. A dirlo al Foglio è Yassine Belkassem, che vive a pochi chilometri da Siena, il quale condivide alcune intimidazioni con molti musulmani che – come lui – spiegano come una moschea come quella che sta per sorgere a Colle Val d’Elsa non sia poi tanto necessaria. “Se non si comprende che la maggior parte dei fedeli si sente italiana e non ha bisogno di particolari concessioni, sembriamo troppo normali e non ci ascoltano”, confessa Yassine Belkassem. A mettere per iscritto questo paradosso – secondo il quale a voler denunciare i problemi si finisce per danneggiare gli stessi moderati e si resta isolati ed esposti a rischi crescenti – è stato nei mesi scorsi proprio Lamsuni, molto perplesso riguardo all’effettiva capacità dello stato di riconoscere un islam davvero moderato da un islam aggressivo o politico: “Tutta la mia solidarietà a Jawad senza ‘ma’ e senza ‘se’”, ha scritto in un comunicato dopo l’episodio che lo ha visto indirettamente protagonista a Torino: Lunedì 12 marzo Jawal El Gulei, torinese di origine marocchina, va al commissariato di Porta Palazzo, quartiere di Torino dove l’immigrazione musulmana è molto presente e dove spesso confliggono le diverse rappresentanze, per denunciare Abdelaziz Khounati, presidente del centro islamico di corso Giulio Cesare e il fratello, secondo Jawad mandato con un grande coltello da Khounati per minacciarlo. “Deve stare zitto o morire!”, così ha riassunto Lamsuni l’accaduto. Magdi Allam ritiene che il silenzio intidelle istituzioni di fronte a espisodi simili che magari non trovano spazio nei tiggì, sia da interpretare in questo modo: “Le parole d’ordine sono ‘evitare tensioni’. Quello a cui noi assistiamo è una deviazione da parte degli estremisti islamici di una tregua che le autorità italiane accettano. Non c’è un’intesa su valori comuni o su un traguardo condiviso, c’è un compromesso per cui ci si impegna a non mettere le bombe in Italia, ma anche denunciare chi sai essere malintenzionato. In cambio noi ti permettiamo di costruire moschee e consolidare il potere che conferiscono, che acquisisce una dimensione politica e che è certamente un potere finanziario, perché le moschee sono sinonimo di business. Se uno stato fosse seriamente impegnato a salvaguardare la propria sicurezza – continua Allam – di fronte a una predicazione che poi porta a episodi come quello di Milano o a tanti altri che sono stati documentati, con minacce che si protraggono e alle quali seguono sentenze esplicite di morte come quella comparsa sul sito gestito da Piccardo, si dovrebbe intervenire e chiudere questo sito, perché in Italia non è ammissibile che si affermi pubblicamente che l’apostata deve essere ucciso, ma invece non succede nulla”. Chi è al lavoro a stretto contatto con il ministro dell’Interno è Khaled Fouad Allam, sociologo e membro del comitato incaricato di redigere la Carta dei Valori che sarà pubblicizzata nelle città. Nonostante sia soddisfatto del lavoro svolto nelle ultime riunioni, Fouad non nasconde al Foglio che gli ultimi episodi di cronaca legati all’islam siano da prendere in seria considerazione, e che anzi attorno a questi sarebbe necessario un dibattito. “Siamo in un paese che non è capace di capire che cosa è successo lunedì a Milano. E’ il paradigma di un cambiamento in corso con il quale dovremmo confrontarci”. Il tavolo dove finora c’è stata questa possibilità è stato quello della Consulta islamica. Fouad Allam sa bene che la maggior parte dei membri vorrebbe parlare di temi come sicurezza e integrazione. Ma sa bene che le ultime riunioni della Consulta sono state l’occasione per ascoltare – e mettere a verbale – altre proposte che invece tendono a creare una realtà separata, se non alternativa, al sistema di vita occidentale. Lo dimostra il fatto che, pur contro il volere della maggioranza, nel marzo scorso è stato dato ascolto a una minoranza guidata dall’Ucoii, che mantiene toni pacati ma che chiede “il controllo dei libri scolastici, la costituzione di una banca islamica e il diritto a scuole private parificate”, senza aver mai chiarito da chi saranno gestite. Questa situazione ha suscitato più di un imbarazzo al Viminale, e i funzionari interpellati sul tema mantengono la massima cautela fino alla ripresa dei lavori. Fouad Allam ci dice che le richieste dell’Ucoii – tra le quali il riconoscimento delle festività islamiche e di permessi per la preghiera – sono “delle pratiche del tutto anacronistiche che mostrano una realtà che al suo interno contiene un elemento di autodistruzione. “Non saranno loro a definire l’islam italiano – dice – poiché anche attraverso il lavoro del ministro stiamo faticosamente cercando di avvicinare a un islam europeo”. “Per loro – continua – avanzare richieste è normale perché vivono in un mondo che non c’è, ma per noi sono richieste insensate, anche perché sarebbe impossibile metterle in pratica: il calendario musulmano è lunare, cambia di anno in anno. Come fa un imprenditore che deve programmare le giornate di riposo per i propri dipendenti a organizzare l’’azienda? L’integrazione – scandisce nettamente Fouad – non passa attraverso la definizione dell’islam. L’Ucoii non ha certo il monopolio della definizione di questa religione, e soprattutto non bisogna lasciarglielo”. Un’ affermazione che suona come un invito alla maggioranza moderata della Consulta islamica a non abbandonare la battaglia, poiché i segnali di insofferenza tra i moderati sono molti e alcuni stanno valutando l’ipotesi di abbandonare un organismo che reputano troppo contradditorio. Sfogliando le ultime cronache, Khaled Fouad Allam elenca le priorità e dice che non bisogna assolutamente perdere di vista il territorio: “Non si può lasciare che si instauri una specie di polizia di culto, la religione non è questo, soltanto Dio può decidere chi è un fedele e chi un infedele”. Per questo è necessario oggi più che mai portare il dibattito in Parlamento ed estenderlo alla società, poiché “siamo ancora in un paese che non è capace di comprendere che cosa è successo a Milano e che cosa succede a tante altre persone comuni che subiscono violenza psicologica nelle città d’Italia”. Nell’ultimo raporto del Cesis le moschee superano le 730 e nei primi cinque mesi del 2007 sono cresciute a un ritmo di una moschea ogni 4 giorni. E se Fouad Allam coraggiosamente prova a far notare che il cammino è ancora molto difficile anche all’interno della Consulta islamica – che in futuro vorrebbe sostituire con un Consiglio, più affidabile dal punto di vista degli interlocutori – Magdi Allam aggiunge che l’Ucoii sta investendo nella costruzione dei luoghi di culto islamici perché ha capito che le autorità italiane chiudono entrambi gli occhi su questo aspetto, “cioè fanno il gioco di degli estremisti, i quali hanno capito benissimo che questo è il momento opportuno per consolidare il loro piccolo potere”. Il ministro Giuliano Amato convocherà a giorni una nuova riunione della Consulta, in uno scenario lontano dal clima di serenità che si avvertiva agli inizi dell’anno scorso. Le ragioni per le quali due anni fa il ministero dell’Interno ha chiamato i moderati a mettersi in gioco sono divenute troppo concrete, se non addirittura scomode: a mano a mano le divisioni connaturate all’islam sono emerse e il ministro ha tentato di risolverle con un documento – la Carta dei valori – che secondo Magdi Allam “rappresenta una presa in giro, perché è una rielaborazione inutile di valori generali, ma che pure nella sua assoluta genericità fu rifiutata dall’Ucoii”. Ora si chiede di sottoscriverla, ma Allam teme che dall’affissione di un pezzo di carta si passi alla legittimazione dei gestori delle moschee”. Intanto nelle città crescono le minacce agli “infedeli” e chi conosce il significato di quella definizione – che nei paesi islamici costa la vita a decine di persone – fa paura. Uomini e donne che non temono di dire ciò che accade nelle sale di preghiera e si mettono ancora in gioco con la speranza che lo stato apra gli occhi. Per questo viene da interrogarsi sulla mancata eco suscitata dal caso di Mohammed Ahmed, giornalista musulmano residente a Padova da dieci anni al quale è stata bruciata l’automobile il 9 gennaio scorso dopo aver ricevuto al telefono e in strada ripetute minacce di morte da parte di islamici che frequentano il quartiere di via Anelli. Con i suoi servizi, Ahmed denuncia da tempo l’estremismo di matrice islamica, le violenze dell’islam cittadino, dei garage e dei capannoni. E per questo anche lui è stato definito pubblicamente “infedele”. Ci chiede se sarebbe cambiato qualcosa se la grande stampa – e magari qualche politico che sappiamo essere stato contattato da Ahmed – avesse scelto di raccontare la sua storia cercando di comprendere la gravità dell’episodio che ha colpito uno dei tanti musulmani italiani che, ormai da anni, convive con le intimidazioni e con il pregiudizio verso gli stranieri che ancora persiste. Per Ahmed le cose sono andate avanti diversi mesi, fino a quando ha scelto di cambiare appartamento. Nella nuova residenza, a due passi dal ghetto di via Anelli, gli estremisti hanno deciso di incendiargli l’auto per farlo smettere, dopo averlo “avvisato” con ripetute minacce di morte. E’ successo lo stesso a tanti altri musulmani che si riconoscono in un islam moderato. E a meno che lo stato non decida di prendere coraggio e schierarsi dalla loro parte, decideranno di rimanere in silenzio come ha scritto Lamsuni a Torino. Anziché continuare una battaglia contro l’estremismo saranno messi a tacere da una minoranza che non vuole il confronto con la società, ma s’impegna sul territorio per creare ghetti dove – dicono sempre gli imam – non hanno alcuna intenzione di far scoppiare bombe. Allam spiega che il recente caso di Perugia è indicativo: “Ci si è mossi perché c’erano gli agenti chimici che potevano inquinare l’acquedotto: un esempio di miopia perché il male maggiore è la predicazione d’odio, il resto resta solo una conseguenza”, come la relativizzazione delle leggi e i diritti della donna. Quella che Allam definisce “la politica dello struzzo” sta insomma trasformando la maggioranza moderata in bersaglio da condannare. Attaccata dall’islam radicale che la considera “infedele” e abbandonata dalle istituzioni che più semplicemente non la considerano abbastanza.
Un articolo di Carlo Panella sul "dialogo" con Tariq Ramadan:
La serie infinita delle discussioni sul tema "se si deve discutere con questo o con quello" è pessimo e definitivo segno dello stato confusionale dell’occidente. La sinistra mondiale è particolarmente afflitta da questa sindrome, sicché, da James Baker a Massimo D’Alema, passando per Nancy Pelosi e persino per Lamberto Dini, è tutto un rincorrersi di ricette miracolose che vedono vuoi la crisi irachena, o quella iraniana, o quella palestinese, o quella libanese, miracolosamente risolversi soltanto che si accetti di discutere ora con Damasco, ora con Damasco, ora con Damasco, ora con Damasco (incredibilmente, l’intelligenza progressista del mondo solo questo sa dire). Sul piano culturale, ciclicamente, questa frenesia di contatto si incaglia sul dilemma: "Si deve discutere con Tariq Ramadan?". In Europa si fanno addirittura talk show sul tema, che in questi giorni ritorna attuale per la polemica (partita dalle pagine del Foglio) tra Paul Berman, Ian Buruma e Mark Lilla. La discriminante tra destra e sinistra (ma Berman è di sinistra), pare passare per il punto – ossessione delle trasmissioni di Gad Lerner – per cui la destra neoconservatrice e guerrafondaia non vuole discutere, la sinistra sì. Sconfortante. Il punto, ovviamente, non è questo. Si discute con tutti. Ma si discute per conseguire un risultato. Gli ebrei, ad esempio, naturalmente tramite emissari, discutevano con Hitler, a Berna, durante la guerra e sviluppavano un colloquio duro e crudo: stabilivano quanto "pagare" la vita di correligionari da salvare. Arrivarono a pagare addirittura centinaia di camion a uso militare. Facevano bene. Il presidente Sarkozy, ad esempio, ha proposto di discutere con la Siria, ma ha posto una condizione: prima Damasco risolva la crisi politica palestinese che ha provocato, poi, forti di questo risultato, si vada oltre. Discutere per il discutere, senza condizioni, con regimi destabilizzanti e filoterroristi, senza scopo se non quello di conoscersi, serve solo a legittimarli, loro massimo obbiettivo, e a reiterare all’infinito la logica di Monaco nel 1938. Seguendo il metodo Baker-Pelosi-Prodi- Dini si mette Beshar al Assad nella condizione di chiedere la restituzione del Golan. Col metodo Sarkozy, invece, Beshar al Assad, prima di avviare la trattativa, deve subito "pagare" lo scotto a Beirut, poi si apre la discussione, forse anche sul Golan. Identico schema, nel mondo della cultura, attraversato dalla tempesta di interlocutori che sono figli della cultura del jihad, del proselitismo attraverso la spada. Tariq Ramadan, ad esempio, non è certo un assassino, ma non riuscirete a cavargli di bocca una condanna che sia una per gli assassini degli ebrei da parte dei kamikaze in Israele. Non riuscirete a cavargli di bocca una condanna che sia una per il colpo di stato di Hamas a Gaza. Non riuscirete a cavargli di bocca una condanna che sia una nei confronti di tutti i "giureconsulti" di al Azhar, e tantomeno nei confronti di Yussuf al Qaradawi, che decretano che lo stato debba condannare a morte il musulmano che commette apostasia dando pubblico scandalo (questo non perché sia d’accordo con la pena di morte, ma perché mai oserebbe criticare degli autorevoli membri della casta dei giureconsulti, per le motivazioni cogenti che vedremo più avanti). Tanto basta, dice a ragione Berman, per non considerare Tariq Ramadan un interlocutore, per rifiutarsi – come scrive Magdi Allam – di dare dignità di dialogo a chi non si schiera intransigentemente a difesa della vita. Ma tutto questo – Berman lo approfondisce bene nel suo saggio – è solo la parte minore del problema. Il vero problema, infatti, è che parlare con Tariq Ramadan è assolutamente inutile. Non porta risultato. Non ha sbocco culturale. Equivale esattamente – e non è una provocazione – ad affrontare una discussione con Tomàs de Torquemada sul codice di procedura penale del suo Consiglio della Sacra Inquisizione. Tariq Ramadan, basta leggere i suoi testi per accorgersene, non è un teologo: è un giurista. Tariq Ramadan non intende affatto aprire la sua mente a un confronto sui principi teologici dell’islam o del cristianesimo. Il tema, per lui, non soltanto non esiste, ma addirittura lo teme. Tariq Ramadan, infatti, è seguace, come il 90 per cento dei musulmani del mondo, di un dogma che si è imposto tre secoli dopo la morte di Maometto, secondo il quale il Corano "è increato". Ma se il Verbo è "increato", se è composto di parole e di un senso precedenti all’uomo e all’umanità e a lei seguenti, non è, ovviamente interpretabile. E’ "parola di Dio", nei cui confronti l’unico atteggiamento possibile è – appunto – l’islam, la sottomissione. L’esegesi del testo è l’anticamera dell’apostasia. L’esegesi del Corano, per Tariq Ramadan, è rigidamente proibita, se non in senso puramente apologetico, come nel suo libro su Maometto. Tariq Ramadan ha chiarissimo questo punto – assolutamente oscuro ai suoi interlocutori, in particolare Ian Buruma e Mark Lilla – e infatti lancia la sua sfida su un terreno su cui si sente forte: le regole, il diritto, la sharia. Vissuto in Europa, cresciuto a suon di Corano e Monde Diplomatique, perfettamente a suo agio con il lessico no global, attratto dalla prospettiva di destrutturare l’identità europea allargando al suo interno una sorta di egemonia musulmana, Tariq Ramadan affabula i gauchisti di mezzo mondo proponendo una sua riforma musulmana, chiamando in aiuto, proponendo incontri. Ma non per mettere in discussione il suo islam, per interpretare il suo Corano, bensì per aggiornare la sua sharia. Tariq Ramadan, insomma, è un riformista, un riformista vero. Solo che lo è solo ed esclusivamente della legge islamica, non della teologia islamica. Non poco, si dirà, e infatti Tariq Ramadan segna dei punti quando propone a tutti i paesi musulmani, come fece due anni fa, la moratoria delle lapidazioni (allora fu chiarissimo, ma non fu assolutamente capito l’ambito puramente legale, non di principio, di ritrovata sacralità della vita umana, in questa sua proposta). Il punto è che Tariq Ramadan non è affatto un riformista vero, per la semplice ragione che non accetta le riforme. Per essere chiari: Tariq Ramadan, in perfetto allineamento con la teologia islamica contemporanea (non con quella averroista medioevale) nega assolutamente, radicalmente che esista "la persona". In occidente si ripete ormai sconsolatamente la litania secondo cui il problema oggi è che nell’islam non vi sia distinzione tra religione e stato, tra fede e legge. Ma non è così, non è questo il punto. Questa mancata distinzione, questa negazione della laicità è conseguenza di una ben maggiore cesura con i postulati stessi della cultura dell’occidente: nella teologia islamica è assente totalmente l’individuo, la persona, addirittura la loro proiezione nella storia, come spiega perfettamente il teologo iperconciliare, sodale di Hans Küng e fautore del dialogo interreligioso, Josef Ess. Adamo è tutt’altro uomo nel Corano, rispetto alla Bibbia, non è a immagine e somiglianza di Dio, non sceglie di conoscere l’infinito mangiando il frutto proibito, perché è Satana che "gli fa mangiare il frutto" di un albero che è non della conoscenza, ma della vergogna. Il peccato di Adamo è la non sottomissione ai voleri di Dio, non la brama di infinita conoscenza. Tutto è volontà di Dio, nella lettura contemporanea del Corano, nulla è del libero arbitrio dell’individuo. Nella cosmogonia musulmana contemporanea l’individuo, come soggetto centrale di diritti e della storia del creato, non ha posto se non come sottoposto alla perenne volontà di Dio. Qui la cesura con l’ebraismo e il cristianesimo è totale, come irrimediabile è il rapporto con la storia del pensiero laico e illuminista che colloca la persona e i suoi diritti al centro di ogni elaborazione. Se non c’è la persona, non esiste semplicemente la cesura storica e materiale che può separare legge dello stato e legge di Dio. Tutto qui. Chi conosce l’islam sa bene che questo elemento, che forse anche Berman sottovaluta, è ovviamente fondamentale non soltanto dal punto di vista teologico, ma anche giuridico. La negazione dello spazio autonomo della persona, infatti, non solo nega tutti i principi fondanti il diritto romano e la Common Law, ma anche quelli, i più generici possibile, della democrazia. La persona, le persone, così negate come soggetto di diritto, anche sotto forma di popolo, quindi, non hanno per Tariq Ramadan alcun potere di decidere sulla sharia. Tutto qui. Tariq Ramadan è chiarissimo: propone un cammino di riforme della sharia, apre addirittura questa sua problematica al confronto con l’occidente, ma secondo i due principi classici e ferrei della più autoritaria tradizione musulmana: il consenso (igma) e l’analogia. Perfetto, si dirà: il consenso è quanto di più democratico vi sia. No, non è così: Tariq Ramadan considera solo e unicamente il consenso dei giurisperiti, gli unici abilitati a deliberare sulla interpretazione della sharia. Le persone "comuni", i cittadini, non possono farci nulla, i fedeli musulmani "non abilitati", non possono decidere attraverso nessuna forma di partecipazione. Esattamente l’opposto della concezione del "consenso" dell’ayatollah al Sistani, che proprio per questo ha favorito l’elaborazione di una Costituzione irachena basata sull’espressione del consenso di tutto il popolo, donne incluse. Pieno raccordo di Tariq Ramadan, invece, con la concezione dell’ayatollah Khomeini, che teorizzava la totale ed esclusiva padronanza dei giurisperiti, della capacità di comprendere, interpretare e modificare la sharia. La legislazione, le norme che decidono del diritto penale, del diritto civile, del diritto di famiglia, della regolazione del mercato, devono essere aggiornate solo da una platea non superiore a un pugno di migliaia di "giurisperiti". Incluso l’intero sistema finanziario mondiale, naturalmente. Tariq Ramadan, infatti, fa molta breccia nei cuori dei no global francesi perché propone il divieto dell’usura come arma formidabile di contrasto del potere delle multinazionali finanziarie. Il suo è, semplicemente, un modello di stato oligarchico, di netta derivazione neoplatonica, in cui la sostanza del potere decisionale – e delle necessarie modernizzazioni – è tutta appannaggio dei "filosofi" (da qui le sue critiche a quei regimi arabi che invece vede dominati dai "guerrieri"). Uno stato dominato da una casta autoreferenziale e autoreferente – i giureconsulti – in cui non vi è nessuno spazio per forme di democrazia, se non nella delega a gestire poteri meramente amministrativi (schema identico a quello della Costituzione islamica di Khomeini). Uno stato, per di più, in cui non si può riformare nessuna prescrizione di diritto se, oltre al consenso dei giurisperiti, non si applichi anche il principio di analogia, che altro non è se non la dimostrazione che la nuova norma non già è più giusta, o saggia, o adeguata, in sé, ma che è analoga a quella deliberata dal Profeta – come riportano la tradizione, la sira (la storia) e gli hadith – in occasione similare. Un principio che ingessa l’oligarchia religiosa onnipotente, obbligando a volgere il capo al passato, trasformando ogni discussione di riforma in un groviglio confuso di citazioni e di memorie giurisdizionali millenarie che poche centinaia di "dotti" in tutto il pianeta sanno maneggiare. La democrazia "partecipativa" dal basso, a cui spesso Ramadan fa riferimento, di nuovo, riguarda l’amministrazione della comunità, le scelte spicciole, mai la potestà di deliberare sul senso stesso dello stato. Questa concezione dello stato avvicina semmai Ramadan alle simpatie per la concezione oligarchica del fascismo e del nazismo – il Führerprinzip – manifestata allora dai Fratelli musulmani di cui suo padre fu uno dei fondatori. Qui Berman compie un errore, perché in quella sua definizione di "fascismo islamico" prevale un senso di "contagio" del pensiero europeo e non si coglie invece il percorso parallelo verso una concezione totalitaria dello stato che si è sviluppata nell’islam, a causa non della contaminazione del pensiero occidentale, ma di una teologia profondamente totalitaria (e antiaverroista). E’ interessante questo percorso? Può venire fuori qualcosa di positivo se si accompagna Tariq Ramadan per questa strada? La risposta è evidente. Con l’obbligo di aggiungere che, così facendo, dibattendo attorno a questo autoritario affabulatore, si perde tempo prezioso per aiutare invece quel mondo musulmano e quei pensatori islamici che nel Mediterraneo, ma soprattutto in India e Indonesia, sono ancora oggi – ma in netta minoranza – figli della tradizione culturale di Averroè, interessati all’interpretazione del testo, del Verbo coranico e non delle pandette della legge codificata nel nono secolo da tale Mohammed Hanbal.
Infine un articolo di Giulio Meotti sulle condanne per apostasia in Olanda:
Roma. Per chiedere la testa del giovane Hegazi, l’egiziano convertito al cristianesimo, i giuristi islamici hanno brandito numerosi versetti del Corano: "La fitna è peggiore che l’uccisione" (Corano 2,191 e 2,217), "Uccideteli affinché non ci sia fitna"(8,39) e "Chi vuole una religione diversa dall’islam, il suo culto non sarà accettato, e nell’altra vita sarà tra i perdenti" (3,85). Nessuna grande istituzione del mondo islamico ha celebrato l’intimazione coranica a favore della libertà di coscienza, citata da Benedetto XVI a Ratisbona: "Non c’è costrizione in materia di religione" (2,186). Lo sceicco Yusuf al Qaradawi, ispiratore dei Fratelli musulmani e tribuno di al Jazeera, dice che gli apostati devono essere uccisi perché c’è pericolo per la comunità: "Se un musulmano disconosce l’islam, commette un crimine immane, la gran parte dei teologi concorda sulla legittimità dell’uccisione". Per Suad Saleh, decano della facoltà di Scienze islamiche dell’Università Al Azhar, se l’apostata fa "propaganda", come avrebbe fatto Hegazi, va applicata la sharia. Il Gran Mufti d’Egitto, Ali Gomaa, massima autorità religiosa nel paese, sul Washington Post ha scritto che l’apostasia "non dovrebbe" essere punita con la morte, ma poi ha aggiunto che "l’apostasia va punita quando rappresenta una fitna o quando minaccia le fondamenta della società". Sette paesi islamici applicano la pena di morte per i convertiti: Sudan, Iran, Arabia Saudita, Nigeria, Pakistan e Mauritania. Negli altri si va dal carcere alla sottomissione clandestina. Nella primavera di un anno fa ci fu il caso dell’afghano Abdul Rahman, convertito al cristianesimo e salvato soltanto perché dichiarato "pazzo". In Olanda si è consumata una guerra culturale e politica, prima che una tragedia nazionale, intorno al tema dell’apostasia. Decine di intellettuali olandesi hanno scelto l’11 settembre per annunciare all’Aia la loro "Dichiarazione universale di tolleranza". Sono scrittori, editorialisti, politici e accademici, perlopiù di sinistra ma anche libertari e amici di Theo van Gogh, il regista assassinato da un islamista olandese. Il pronunciamento pubblico a favore degli apostati è stato elaborato dopo che un giovane politico laburista di origini iraniane, Ehsan Jami, fondatore di un comitato di protezione degli ex musulmani, è stato aggredito da un gruppo di fanatici islamici per la quarta volta in un anno. "Essere musulmano non è un fattore genetico" aveva detto Jami. "Con la creazione di questo comitato voglio dire ai giovani che, come me amano la libertà, di uscire allo scoperto". Tanto basta per essere minacciato di morte nel paese della dissidente Ayaan Hirsi Ali, la somala che ha fatto apostasia, rifiutando le radici islamiche, e che ha deciso di combattere nella sua nuova veste una battaglia di libertà. Tra i promotori di questa nuova organizzazione a favore degli apostati spicca il nome di Paul Cliteur, il più noto teorico del liberalismo olandese, che dopo l’uccisione di Van Gogh annunciò che per l’incolumità della sua famiglia non avrebbe fatto altri commenti sull’islam. "E’ proprio in una società multireligiosa che la libertà religiosa deve essere garantita dallo stato", ci dice Paul Cliteur. "La libertà deve comprendere il diritto di cambiare religione e metterla in discussione. L’interpretazione dominante della dottrina islamica non la contempla, sono gli stati europei che devono farsene carico". Tra i protagonisti ci sono il pubblicista Max Pam, amico di Van Gogh, la femminista musulmana Nahed Selim, autrice del libro "Le mogli del Profeta", il columnist corsaro Theodor Holman, Meindert Fennema e Michiel Hegener. Passando per il dissidente e giurista iraniano Afshin Ellian. Dopo l’uccisione di Van Gogh, Ellian scrisse un editoriale per il quotidiano NRC Handelsblad dal titolo "Scherzate sull’islam". "Coraggio, colleghi accademici, mettete l’islam sul tavolo operatorio della filosofia". Poi un secondo articolo, "Allah know best", che riprende il titolo di un libro di Van Gogh. Da allora, Afshin vive sotto scorta, sorvegliato a vista dalla gendarmeria olandese. Persino nella sua casa fra Amsterdam e Utrecht. Afshin Ellian è nato nel 1966 a Teheran, in una famiglia liberale. Legato a un movimento critico dello scià, dopo la rivoluzione islamica si schierò contro gli ayatollah. Riparò in Pakistan e da lì a Kabul. Lì conobbe sua moglie. Nel 1989, quando le autorità afghane decisero di rimpatriare i dissidenti iraniani, l’Onu lo mise sul primo volo per l’Olanda. Oggi insegna diritto e filosofia all’Università di Leiden. "Un musulmano ha il diritto di essere un ex?", chiede Ellian parlando al Foglio. "Tutti gli ex musulmani europei sono stati minacciati. La tedesca Mina Ahadi e l’olandese Ehsan Jami sono sotto protezione per le loro opinioni. Jami vive in una ‘casa sicura’ dopo essere stato aggredito per la quarta volta in un anno". Il nome che ha attirato le maggiori attenzioni della stampa europea è quello del professor Jos de Beus, celebre scienziato politico e storico esponente del Partito laburista olandese. "Si tratta di proteggere la libertà di religione con un grande movimento europeo di difesa della libertà di lasciare l’islam" spiega al Foglio de Beus. "Non è una cabala neoconservatrice o una cospirazione antislamica, non è una battaglia anticlericale o ateistica, ma piuttosto sul cuore stesso della democrazia. Noi pensiamo che l’essere umano abbia il diritto di lasciare la religione alla quale appartiene dalla nascita, perché la prima forma di oppressione politica, come ci ha insegnato anche il XX secolo, è quella contro la libertà religiosa. E’ una lotta contro la segregazione. Anche una civiltà raffinatissima come l’Olanda non può permettersi di voltare lo sguardo dalla violenza e dal terrorismo, dall’intimidazione e da forme malefiche di sottomissione. L’Olanda è il paese di Spinoza, non è un caso che la battaglia per gli apostati venga iniziata qui, dopo Theo van Gogh e Ayaan Hirsi Ali. Dopo l’11 settembre, dobbiamo tornare a riflettere su cosa significa ‘tolleranza’". Afshin Ellian, il cui studio all’università è sorvegliato perennemente da un poliziotto, è pessimista sullo scatto d’orgoglio che dovrebbe fare l’Olanda: "Il paese in cui Pierre Bayle e John Locke riuscirono a pubblicare i loro libri, è diventato pallido
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Roma. Per chiedere la testa del giovane Hegazi, l’egiziano convertito al cristianesimo, i giuristi islamici hanno brandito numerosi versetti del Corano: "La fitna è peggiore che l’uccisione" (Corano 2,191 e 2,217), "Uccideteli affinché non ci sia fitna"(8,39) e "Chi vuole una religione diversa dall’islam, il suo culto non sarà accettato, e nell’altra vita sarà tra i perdenti" (3,85). Nessuna grande istituzione del mondo islamico ha celebrato l’intimazione coranica a favore della libertà di coscienza, citata da Benedetto XVI a Ratisbona: "Non c’è costrizione in materia di religione" (2,186). Lo sceicco Yusuf al Qaradawi, ispiratore dei Fratelli musulmani e tribuno di al Jazeera, dice che gli apostati devono essere uccisi perché c’è pericolo per la comunità: "Se un musulmano disconosce l’islam, commette un crimine immane, la gran parte dei teologi concorda sulla legittimità dell’uccisione". Per Suad Saleh, decano della facoltà di Scienze islamiche dell’Università Al Azhar, se l’apostata fa "propaganda", come avrebbe fatto Hegazi, va applicata la sharia. Il Gran Mufti d’Egitto, Ali Gomaa, massima autorità religiosa nel paese, sul Washington Post ha scritto che l’apostasia "non dovrebbe" essere punita con la morte, ma poi ha aggiunto che "l’apostasia va punita quando rappresenta una fitna o quando minaccia le fondamenta della società". Sette paesi islamici applicano la pena di morte per i convertiti: Sudan, Iran, Arabia Saudita, Nigeria, Pakistan e Mauritania. Negli altri si va dal carcere alla sottomissione clandestina. Nella primavera di un anno fa ci fu il caso dell’afghano Abdul Rahman, convertito al cristianesimo e salvato soltanto perché dichiarato "pazzo". In Olanda si è consumata una guerra culturale e politica, prima che una tragedia nazionale, intorno al tema dell’apostasia. Decine di intellettuali olandesi hanno scelto l’11 settembre per annunciare all’Aia la loro "Dichiarazione universale di tolleranza". Sono scrittori, editorialisti, politici e accademici, perlopiù di sinistra ma anche libertari e amici di Theo van Gogh, il regista assassinato da un islamista olandese. Il pronunciamento pubblico a favore degli apostati è stato elaborato dopo che un giovane politico laburista di origini iraniane, Ehsan Jami, fondatore di un comitato di protezione degli ex musulmani, è stato aggredito da un gruppo di fanatici islamici per la quarta volta in un anno. "Essere musulmano non è un fattore genetico" aveva detto Jami. "Con la creazione di questo comitato voglio dire ai giovani che, come me amano la libertà, di uscire allo scoperto". Tanto basta per essere minacciato di morte nel paese della dissidente Ayaan Hirsi Ali, la somala che ha fatto apostasia, rifiutando le radici islamiche, e che ha deciso di combattere nella sua nuova veste una battaglia di libertà. Tra i promotori di questa nuova organizzazione a favore degli apostati spicca il nome di Paul Cliteur, il più noto teorico del liberalismo olandese, che dopo l’uccisione di Van Gogh annunciò che per l’incolumità della sua famiglia non avrebbe fatto altri commenti sull’islam. "E’ proprio in una società multireligiosa che la libertà religiosa deve essere garantita dallo stato", ci dice Paul Cliteur. "La libertà deve comprendere il diritto di cambiare religione e metterla in discussione. L’interpretazione dominante della dottrina islamica non la contempla, sono gli stati europei che devono farsene carico". Tra i protagonisti ci sono il pubblicista Max Pam, amico di Van Gogh, la femminista musulmana Nahed Selim, autrice del libro "Le mogli del Profeta", il columnist corsaro Theodor Holman, Meindert Fennema e Michiel Hegener. Passando per il dissidente e giurista iraniano Afshin Ellian. Dopo l’uccisione di Van Gogh, Ellian scrisse un editoriale per il quotidiano NRC Handelsblad dal titolo "Scherzate sull’islam". "Coraggio, colleghi accademici, mettete l’islam sul tavolo operatorio della filosofia". Poi un secondo articolo, "Allah know best", che riprende il titolo di un libro di Van Gogh. Da allora, Afshin vive sotto scorta, sorvegliato a vista dalla gendarmeria olandese. Persino nella sua casa fra Amsterdam e Utrecht. Afshin Ellian è nato nel 1966 a Teheran, in una famiglia liberale. Legato a un movimento critico dello scià, dopo la rivoluzione islamica si schierò contro gli ayatollah. Riparò in Pakistan e da lì a Kabul. Lì conobbe sua moglie. Nel 1989, quando le autorità afghane decisero di rimpatriare i dissidenti iraniani, l’Onu lo mise sul primo volo per l’Olanda. Oggi insegna diritto e filosofia all’Università di Leiden. "Un musulmano ha il diritto di essere un ex?", chiede Ellian parlando al Foglio. "Tutti gli ex musulmani europei sono stati minacciati. La tedesca Mina Ahadi e l’olandese Ehsan Jami sono sotto protezione per le loro opinioni. Jami vive in una ‘casa sicura’ dopo essere stato aggredito per la quarta volta in un anno". Il nome che ha attirato le maggiori attenzioni della stampa europea è quello del professor Jos de Beus, celebre scienziato politico e storico esponente del Partito laburista olandese. "Si tratta di proteggere la libertà di religione con un grande movimento europeo di difesa della libertà di lasciare l’islam" spiega al Foglio de Beus. "Non è una cabala neoconservatrice o una cospirazione antislamica, non è una battaglia anticlericale o ateistica, ma piuttosto sul cuore stesso della democrazia. Noi pensiamo che l’essere umano abbia il diritto di lasciare la religione alla quale appartiene dalla nascita, perché la prima forma di oppressione politica, come ci ha insegnato anche il XX secolo, è quella contro la libertà religiosa. E’ una lotta contro la segregazione. Anche una civiltà raffinatissima come l’Olanda non può permettersi di voltare lo sguardo dalla violenza e dal terrorismo, dall’intimidazione e da forme malefiche di sottomissione. L’Olanda è il paese di Spinoza, non è un caso che la battaglia per gli apostati venga iniziata qui, dopo Theo van Gogh e Ayaan Hirsi Ali. Dopo l’11 settembre, dobbiamo tornare a riflettere su cosa significa ‘tolleranza’". Afshin Ellian, il cui studio all’università è sorvegliato perennemente da un poliziotto, è pessimista sullo scatto d’orgoglio che dovrebbe fare l’Olanda: "Il paese in cui Pierre Bayle e John Locke riuscirono a pubblicare i loro libri, è diventato pallidoLa serie infinita delle discussioni sul tema "se si deve discutere con questo o con quello" è pessimo e definitivo segno dello stato confusionale dell’occidente. La sinistra mondiale è particolarmente afflitta da questa sindrome, sicché, da James Baker a Massimo D’Alema, passando per Nancy Pelosi e persino per Lamberto Dini, è tutto un rincorrersi di ricette miracolose che vedono vuoi la crisi irachena, o quella iraniana, o quella palestinese, o quella libanese, miracolosamente risolversi soltanto che si accetti di discutere ora con Damasco, ora con Damasco, ora con Damasco, ora con Damasco (incredibilmente, l’intelligenza progressista del mondo solo questo sa dire). Sul piano culturale, ciclicamente, questa frenesia di contatto si incaglia sul dilemma: "Si deve discutere con Tariq Ramadan?". In Europa si fanno addirittura talk show sul tema, che in questi giorni ritorna attuale per la polemica (partita dalle pagine del Foglio) tra Paul Berman, Ian Buruma e Mark Lilla. La discriminante tra destra e sinistra (ma Berman è di sinistra), pare passare per il punto – ossessione delle trasmissioni di Gad Lerner – per cui la destra neoconservatrice e guerrafondaia non vuole discutere, la sinistra sì. Sconfortante. Il punto, ovviamente, non è questo. Si discute con tutti. Ma si discute per conseguire un risultato. Gli ebrei, ad esempio, naturalmente tramite emissari, discutevano con Hitler, a Berna, durante la guerra e sviluppavano un colloquio duro e crudo: stabilivano quanto "pagare" la vita di correligionari da salvare. Arrivarono a pagare addirittura centinaia di camion a uso militare. Facevano bene. Il presidente Sarkozy, ad esempio, ha proposto di discutere con la Siria, ma ha posto una condizione: prima Damasco risolva la crisi politica palestinese che ha provocato, poi, forti di questo risultato, si vada oltre. Discutere per il discutere, senza condizioni, con regimi destabilizzanti e filoterroristi, senza scopo se non quello di conoscersi, serve solo a legittimarli, loro massimo obbiettivo, e a reiterare all’infinito la logica di Monaco nel 1938. Seguendo il metodo Baker-Pelosi-Prodi- Dini si mette Beshar al Assad nella condizione di chiedere la restituzione del Golan. Col metodo Sarkozy, invece, Beshar al Assad, prima di avviare la trattativa, deve subito "pagare" lo scotto a Beirut, poi si apre la discussione, forse anche sul Golan. Identico schema, nel mondo della cultura, attraversato dalla tempesta di interlocutori che sono figli della cultura del jihad, del proselitismo attraverso la spada. Tariq Ramadan, ad esempio, non è certo un assassino, ma non riuscirete a cavargli di bocca una condanna che sia una per gli assassini degli ebrei da parte dei kamikaze in Israele. Non riuscirete a cavargli di bocca una condanna che sia una per il colpo di stato di Hamas a Gaza. Non riuscirete a cavargli di bocca una condanna che sia una nei confronti di tutti i "giureconsulti" di al Azhar, e tantomeno nei confronti di Yussuf al Qaradawi, che decretano che lo stato debba condannare a morte il musulmano che commette apostasia dando pubblico scandalo (questo non perché sia d’accordo con la pena di morte, ma perché mai oserebbe criticare degli autorevoli membri della casta dei giureconsulti, per le motivazioni cogenti che vedremo più avanti). Tanto basta, dice a ragione Berman, per non considerare Tariq Ramadan un interlocutore, per rifiutarsi – come scrive Magdi Allam – di dare dignità di dialogo a chi non si schiera intransigentemente a difesa della vita. Ma tutto questo – Berman lo approfondisce bene nel suo saggio – è solo la parte minore del problema. Il vero problema, infatti, è che parlare con Tariq Ramadan è assolutamente inutile. Non porta risultato. Non ha sbocco culturale. Equivale esattamente – e non è una provocazione – ad affrontare una discussione con Tomàs de Torquemada sul codice di procedura penale del suo Consiglio della Sacra Inquisizione. Tariq Ramadan, basta leggere i suoi testi per accorgersene, non è un teologo: è un giurista. Tariq Ramadan non intende affatto aprire la sua mente a un confronto sui principi teologici dell’islam o del cristianesimo. Il tema, per lui, non soltanto non esiste, ma addirittura lo teme. Tariq Ramadan, infatti, è seguace, come il 90 per cento dei musulmani del mondo, di un dogma che si è imposto tre secoli dopo la morte di Maometto, secondo il quale il Corano "è increato". Ma se il Verbo è "increato", se è composto di parole e di un senso precedenti all’uomo e all’umanità e a lei seguenti, non è, ovviamente interpretabile. E’ "parola di Dio", nei cui confronti l’unico atteggiamento possibile è – appunto – l’islam, la sottomissione. L’esegesi del testo è l’anticamera dell’apostasia. L’esegesi del Corano, per Tariq Ramadan, è rigidamente proibita, se non in senso puramente apologetico, come nel suo libro su Maometto. Tariq Ramadan ha chiarissimo questo punto – assolutamente oscuro ai suoi interlocutori, in particolare Ian Buruma e Mark Lilla – e infatti lancia la sua sfida su un terreno su cui si sente forte: le regole, il diritto, la sharia. Vissuto in Europa, cresciuto a suon di Corano e Monde Diplomatique, perfettamente a suo agio con il lessico no global, attratto dalla prospettiva di destrutturare l’identità europea allargando al suo interno una sorta di egemonia musulmana, Tariq Ramadan affabula i gauchisti di mezzo mondo proponendo una sua riforma musulmana, chiamando in aiuto, proponendo incontri. Ma non per mettere in discussione il suo islam, per interpretare il suo Corano, bensì per aggiornare la sua sharia. Tariq Ramadan, insomma, è un riformista, un riformista vero. Solo che lo è solo ed esclusivamente della legge islamica, non della teologia islamica. Non poco, si dirà, e infatti Tariq Ramadan segna dei punti quando propone a tutti i paesi musulmani, come fece due anni fa, la moratoria delle lapidazioni (allora fu chiarissimo, ma non fu assolutamente capito l’ambito puramente legale, non di principio, di ritrovata sacralità della vita umana, in questa sua proposta). Il punto è che Tariq Ramadan non è affatto un riformista vero, per la semplice ragione che non accetta le riforme. Per essere chiari: Tariq Ramadan, in perfetto allineamento con la teologia islamica contemporanea (non con quella averroista medioevale) nega assolutamente, radicalmente che esista "la persona". In occidente si ripete ormai sconsolatamente la litania secondo cui il problema oggi è che nell’islam non vi sia distinzione tra religione e stato, tra fede e legge. Ma non è così, non è questo il punto. Questa mancata distinzione, questa negazione della laicità è conseguenza di una ben maggiore cesura con i postulati stessi della cultura dell’occidente: nella teologia islamica è assente totalmente l’individuo, la persona, addirittura la loro proiezione nella storia, come spiega perfettamente il teologo iperconciliare, sodale di Hans Küng e fautore del dialogo interreligioso, Josef Ess. Adamo è tutt’altro uomo nel Corano, rispetto alla Bibbia, non è a immagine e somiglianza di Dio, non sceglie di conoscere l’infinito mangiando il frutto proibito, perché è Satana che "gli fa mangiare il frutto" di un albero che è non della conoscenza, ma della vergogna. Il peccato di Adamo è la non sottomissione ai voleri di Dio, non la brama di infinita conoscenza. Tutto è volontà di Dio, nella lettura contemporanea del Corano, nulla è del libero arbitrio dell’individuo. Nella cosmogonia musulmana contemporanea l’individuo, come soggetto centrale di diritti e della storia del creato, non ha posto se non come sottoposto alla perenne volontà di Dio. Qui la cesura con l’ebraismo e il cristianesimo è totale, come irrimediabile è il rapporto con la storia del pensiero laico e illuminista che colloca la persona e i suoi diritti al centro di ogni elaborazione. Se non c’è la persona, non esiste semplicemente la cesura storica e materiale che può separare legge dello stato e legge di Dio. Tutto qui. Chi conosce l’islam sa bene che questo elemento, che forse anche Berman sottovaluta, è ovviamente fondamentale non soltanto dal punto di vista teologico, ma anche giuridico. La negazione dello spazio autonomo della persona, infatti, non solo nega tutti i principi fondanti il diritto romano e la Common Law, ma anche quelli, i più generici possibile, della democrazia. La persona, le persone, così negate come soggetto di diritto, anche sotto forma di popolo, quindi, non hanno per Tariq Ramadan alcun potere di decidere sulla sharia. Tutto qui. Tariq Ramadan è chiarissimo: propone un cammino di riforme della sharia, apre addirittura questa sua problematica al confronto con l’occidente, ma secondo i due principi classici e ferrei della più autoritaria tradizione musulmana: il consenso (igma) e l’analogia. Perfetto, si dirà: il consenso è quanto di più democratico vi sia. No, non è così: Tariq Ramadan considera solo e unicamente il consenso dei giurisperiti, gli unici abilitati a deliberare sulla interpretazione della sharia. Le persone "comuni", i cittadini, non possono farci nulla, i fedeli musulmani "non abilitati", non possono decidere attraverso nessuna forma di partecipazione. Esattamente l’opposto della concezione del "consenso" dell’ayatollah al Sistani, che proprio per questo ha favorito l’elaborazione di una Costituzione irachena basata sull’espressione del consenso di tutto il popolo, donne incluse. Pieno raccordo di Tariq Ramadan, invece, con la concezione dell’ayatollah Khomeini, che teorizzava la totale ed esclusiva padronanza dei giurisperiti, della capacità di comprendere, interpretare e modificare la sharia. La legislazione, le norme che decidono del diritto penale, del diritto civile, del diritto di famiglia, della regolazione del mercato, devono essere aggiornate solo da una platea non superiore a un pugno di migliaia di "giurisperiti". Incluso l’intero sistema finanziario mondiale, naturalmente. Tariq Ramadan, infatti, fa molta breccia nei cuori dei no global francesi perché propone il divieto dell’usura come arma formidabile di contrasto del potere delle multinazionali finanziarie. Il suo è, semplicemente, un modello di stato oligarchico, di netta derivazione neoplatonica, in cui la sostanza del potere decisionale – e delle necessarie modernizzazioni – è tutta appannaggio dei "filosofi" (da qui le sue critiche a quei regimi arabi che invece vede dominati dai "guerrieri"). Uno stato dominato da una casta autoreferenziale e autoreferente – i giureconsulti – in cui non vi è nessuno spazio per forme di democrazia, se non nella delega a gestire poteri meramente amministrativi (schema identico a quello della Costituzione islamica di Khomeini). Uno stato, per di più, in cui non si può riformare nessuna prescrizione di diritto se, oltre al consenso dei giurisperiti, non si applichi anche il principio di analogia, che altro non è se non la dimostrazione che la nuova norma non già è più giusta, o saggia, o adeguata, in sé, ma che è analoga a quella deliberata dal Profeta – come riportano la tradizione, la sira (la storia) e gli hadith – in occasione similare. Un principio che ingessa l’oligarchia religiosa onnipotente, obbligando a volgere il capo al passato, trasformando ogni discussione di riforma in un groviglio confuso di citazioni e di memorie giurisdizionali millenarie che poche centinaia di "dotti" in tutto il pianeta sanno maneggiare. La democrazia "partecipativa" dal basso, a cui spesso Ramadan fa riferimento, di nuovo, riguarda l’amministrazione della comunità, le scelte spicciole, mai la potestà di deliberare sul senso stesso dello stato. Questa concezione dello stato avvicina semmai Ramadan alle simpatie per la concezione oligarchica del fascismo e del nazismo – il Führerprinzip – manifestata allora dai Fratelli musulmani di cui suo padre fu uno dei fondatori. Qui Berman compie un errore, perché in quella sua definizione di "fascismo islamico" prevale un senso di "contagio" del pensiero europeo e non si coglie invece il percorso parallelo verso una concezione totalitaria dello stato che si è sviluppata nell’islam, a causa non della contaminazione del pensiero occidentale, ma di una teologia profondamente totalitaria (e antiaverroista). E’ interessante questo percorso? Può venire fuori qualcosa di positivo se si accompagna Tariq Ramadan per questa strada? La risposta è evidente. Con l’obbligo di aggiungere che, così facendo, dibattendo attorno a questo autoritario affabulatore, si perde tempo prezioso per aiutare invece quel mondo musulmano e quei pensatori islamici che nel Mediterraneo, ma soprattutto in India e Indonesia, sono ancora oggi – ma in netta minoranza – figli della tradizione culturale di Averroè, interessati all’interpretazione del testo, del Verbo coranico e non delle pandette della legge codificata nel nono secolo da tale Mohammed Hanbal.
Roma. Per chiedere la testa del giovane Hegazi, l’egiziano convertito al cristianesimo, i giuristi islamici hanno brandito numerosi versetti del Corano: "La fitna è peggiore che l’uccisione" (Corano 2,191 e 2,217), "Uccideteli affinché non ci sia fitna"(8,39) e "Chi vuole una religione diversa dall’islam, il suo culto non sarà accettato, e nell’altra vita sarà tra i perdenti" (3,85). Nessuna grande istituzione del mondo islamico ha celebrato l’intimazione coranica a favore della libertà di coscienza, citata da Benedetto XVI a Ratisbona: "Non c’è costrizione in materia di religione" (2,186). Lo sceicco Yusuf al Qaradawi, ispiratore dei Fratelli musulmani e tribuno di al Jazeera, dice che gli apostati devono essere uccisi perché c’è pericolo per la comunità: "Se un musulmano disconosce l’islam, commette un crimine immane, la gran parte dei teologi concorda sulla legittimità dell’uccisione". Per Suad Saleh, decano della facoltà di Scienze islamiche dell’Università Al Azhar, se l’apostata fa "propaganda", come avrebbe fatto Hegazi, va applicata la sharia. Il Gran Mufti d’Egitto, Ali Gomaa, massima autorità religiosa nel paese, sul Washington Post ha scritto che l’apostasia "non dovrebbe" essere punita con la morte, ma poi ha aggiunto che "l’apostasia va punita quando rappresenta una fitna o quando minaccia le fondamenta della società". Sette paesi islamici applicano la pena di morte per i convertiti: Sudan, Iran, Arabia Saudita, Nigeria, Pakistan e Mauritania. Negli altri si va dal carcere alla sottomissione clandestina. Nella primavera di un anno fa ci fu il caso dell’afghano Abdul Rahman, convertito al cristianesimo e salvato soltanto perché dichiarato "pazzo". In Olanda si è consumata una guerra culturale e politica, prima che una tragedia nazionale, intorno al tema dell’apostasia. Decine di intellettuali olandesi hanno scelto l’11 settembre per annunciare all’Aia la loro "Dichiarazione universale di tolleranza". Sono scrittori, editorialisti, politici e accademici, perlopiù di sinistra ma anche libertari e amici di Theo van Gogh, il regista assassinato da un islamista olandese. Il pronunciamento pubblico a favore degli apostati è stato elaborato dopo che un giovane politico laburista di origini iraniane, Ehsan Jami, fondatore di un comitato di protezione degli ex musulmani, è stato aggredito da un gruppo di fanatici islamici per la quarta volta in un anno. "Essere musulmano non è un fattore genetico" aveva detto Jami. "Con la creazione di questo comitato voglio dire ai giovani che, come me amano la libertà, di uscire allo scoperto". Tanto basta per essere minacciato di morte nel paese della dissidente Ayaan Hirsi Ali, la somala che ha fatto apostasia, rifiutando le radici islamiche, e che ha deciso di combattere nella sua nuova veste una battaglia di libertà. Tra i promotori di questa nuova organizzazione a favore degli apostati spicca il nome di Paul Cliteur, il più noto teorico del liberalismo olandese, che dopo l’uccisione di Van Gogh annunciò che per l’incolumità della sua famiglia non avrebbe fatto altri commenti sull’islam. "E’ proprio in una società multireligiosa che la libertà religiosa deve essere garantita dallo stato", ci dice Paul Cliteur. "La libertà deve comprendere il diritto di cambiare religione e metterla in discussione. L’interpretazione dominante della dottrina islamica non la contempla, sono gli stati europei che devono farsene carico". Tra i protagonisti ci sono il pubblicista Max Pam, amico di Van Gogh, la femminista musulmana Nahed Selim, autrice del libro "Le mogli del Profeta", il columnist corsaro Theodor Holman, Meindert Fennema e Michiel Hegener. Passando per il dissidente e giurista iraniano Afshin Ellian. Dopo l’uccisione di Van Gogh, Ellian scrisse un editoriale per il quotidiano NRC Handelsblad dal titolo "Scherzate sull’islam". "Coraggio, colleghi accademici, mettete l’islam sul tavolo operatorio della filosofia". Poi un secondo articolo, "Allah know best", che riprende il titolo di un libro di Van Gogh. Da allora, Afshin vive sotto scorta, sorvegliato a vista dalla gendarmeria olandese. Persino nella sua casa fra Amsterdam e Utrecht. Afshin Ellian è nato nel 1966 a Teheran, in una famiglia liberale. Legato a un movimento critico dello scià, dopo la rivoluzione islamica si schierò contro gli ayatollah. Riparò in Pakistan e da lì a Kabul. Lì conobbe sua moglie. Nel 1989, quando le autorità afghane decisero di rimpatriare i dissidenti iraniani, l’Onu lo mise sul primo volo per l’Olanda. Oggi insegna diritto e filosofia all’Università di Leiden. "Un musulmano ha il diritto di essere un ex?", chiede Ellian parlando al Foglio. "Tutti gli ex musulmani europei sono stati minacciati. La tedesca Mina Ahadi e l’olandese Ehsan Jami sono sotto protezione per le loro opinioni. Jami vive in una ‘casa sicura’ dopo essere stato aggredito per la quarta volta in un anno". Il nome che ha attirato le maggiori attenzioni della stampa europea è quello del professor Jos de Beus, celebre scienziato politico e storico esponente del Partito laburista olandese. "Si tratta di proteggere la libertà di religione con un grande movimento europeo di difesa della libertà di lasciare l’islam" spiega al Foglio de Beus. "Non è una cabala neoconservatrice o una cospirazione antislamica, non è una battaglia anticlericale o ateistica, ma piuttosto sul cuore stesso della democrazia. Noi pensiamo che l’essere umano abbia il diritto di lasciare la religione alla quale appartiene dalla nascita, perché la prima forma di oppressione politica, come ci ha insegnato anche il XX secolo, è quella contro la libertà religiosa. E’ una lotta contro la segregazione. Anche una civiltà raffinatissima come l’Olanda non può permettersi di voltare lo sguardo dalla violenza e dal terrorismo, dall’intimidazione e da forme malefiche di sottomissione. L’Olanda è il paese di Spinoza, non è un caso che la battaglia per gli apostati venga iniziata qui, dopo Theo van Gogh e Ayaan Hirsi Ali. Dopo l’11 settembre, dobbiamo tornare a riflettere su cosa significa ‘tolleranza’". Afshin Ellian, il cui studio all’università è sorvegliato perennemente da un poliziotto, è pessimista sullo scatto d’orgoglio che dovrebbe fare l’Olanda: "Il paese in cui Pierre Bayle e John Locke riuscirono a pubblicare i loro libri, è diventato pallido lettere@ilfoglio.it