E' morto Alberto Nirenstein, storico della Shoah lo ricorda Paolo Bianchi
Testata: Il Giornale Data: 03 settembre 2007 Pagina: 18 Autore: Paolo Bianchi Titolo: «Morto Nirenstein, una vita dedicata alla Shoah»
E' morto Firenze lo storico della Shoah Alberto Nirenstein. Dal GIORNALE del 3 settembre 2007, riportiamo il ricordo di Paolo Bianchi:
Si è spento ieri nella sua casa alle pendici della collina di Fiesole (Firenze) Alberto Nirenstein. Combattente delle Brigate Ebraiche nella seconda guerra mondiale, in Nord Africa e in Italia (sbarcò a Salerno), aveva lasciato Varsavia nel 1936 ed era stato sionista e fra i primi coloni dello stato di Israele, rispondendo alla chiamata di Ben Gurion. Era nato nel 1915. La data esatta è imprecisata, causa la distruzione dei documenti anagrafici dopo l’invasione nazista e la Shoah. Il suo paese d’origine, Baranow, tra Lublino e Varsavia, fu raso al suolo durante la guerra e mai più rifondato. Proprio alla ricostruzione delle vicende dell’Olocausto Nirenstein (il cui cognome originario, Nirenstajn, venne poi italianizzato) aveva dedicato gran parte della vita, tornando a Varsavia nel 1950 alla ricerca di documenti e testimonianze. Scrisse tra l'altro il primo libro sullo sterminio, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek (Einaudi, 1960). A Varsavia, il giovane studioso ritrovò i diari che un gruppo di intellettuali avevano nascosto in dieci casse, dopo aver descritto accuratamente le cronache dell’istituzione del ghetto e del massacro che ne seguì. Tradusse tutti i documenti redatti in ebraico e in yiddish. Ma una volta terminato il lavoro, gli venne impedito l’espatrio. Come ricorda una delle sue tre figlie, Fiamma, nota giornalista ed editorialista del Giornale, «fu rilasciato solo alla morte di Stalin, nel 1953. Prima, neppure mia madre, Wanda Lattes, riuscì a ottenere che la burocrazia sovietica gli permettesse il rimpatrio, pur essendosi rivolta direttamente a Palmiro Togliatti». Alberto Nirenstein era un uomo schivo. Non cercava la notorietà. Forse anche per questo, spiega ancora la figlia «l’Italia non gli ha mai riconosciuto il ruolo di testimone diretto né di studioso della Shoah, relativamente alle vicende polacche». Aveva studiato anche le vicende di Cracovia. Sostenne: «È giusto parlare di Schindler, ma sarebbe anche giusto parlare di quei ragazzi e ragazze di 18, 20 anni, poco meno di un centinaio che attaccavano le Ss, ancora prima della rivolta del ghetto di Varsavia. Giovani anarchico-romantici, molto idealisti, che sapevano di avere poche possibilità di scampare. Furono quasi tutti catturati dopo un attacco a un grande caffè di Cracovia. Prima di morire una ragazza è riuscita a scrivere, rinchiusa nella cella, un diario che si chiama Il diario di Justina È quasi più commovente del Diario di Anna Frank». Lo scrittore rimase sempre apolide, scegliendo di vivere nel nostro paese per motivi familiari, ma mantenendosi attivo nel movimento La Giovane Guardia e collaboratore del giornale israeliano Al Namishmar, (La Guardia). Lui, laico che frequentava la sinagoga nelle festività, aveva incontrato papa Giovanni Paolo I e gli aveva parlato della questione ebraica in Polonia, in termini franchi e diretti, ricevendone manifestazioni di simpatia, anche personale. Alcune sue toccanti rievocazioni sono nei racconti del volume Come le cinque dita di una mano (Rizzoli, 1998) scritto insieme alla sua famiglia. Un’altra figlia, Susanna, è giornalista e una terza, Simona, musicista. Nirenstein ha avuto una vita dura e romanzesca, costellata di prove spaventose, ma animata da una fame inesauribile di verità. Eppure, come recita il titolo di un altro suo libro, È successo solo cinquant’anni fa (La Nuova Italia, 1993). Cinquanta o cento, non fa differenza.
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