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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
03.09.2007 Ian Buruma accusa Bush di non conoscere la storia
e dimostra di non conoscerla lui

Testata: Corriere della Sera
Data: 03 settembre 2007
Pagina: 26
Autore: Ian Buruma
Titolo: «Il vecchio MacArthur e la libertà «esportata»»
Secondo l'ineffabile Ian Buruma, che commenta il discorso di Bush ai reduci di guerra a Kansas City, nè i massacri in Vietnam , ne quelli che potrebbero verificarsi in Iraq dopo un ritiro statunitense "sarebbero accaduti o potrebbero verificarsi senza il caos generato dall'intervento americano".
Buruma accusa Bush di non conoscere la storia, ma a quanto pare è lui a non sapere nulla dei massacri comunisti nel Vietnam del nord, che precedono di molto l'intervento americano nel sud e dei massacri di Saddam Hussein,
Ecco il testo:

E'  risaputo che il presidente George W. Bush non conosce bene la storia. Ma questo non gli ha impedito di servirsene per giustificare la sua politica. In un recente discorso ai reduci di guerra a Kansas City, il presidente ha difeso il suo obiettivo di «mantenere la rotta » in Iraq, facendo riferimento alle ripercussioni del ritiro americano dal Vietnam. Inoltre, ha ricordato i successi riportati dall'America, con la guerra di Corea e l'occupazione del Giappone dopo la guerra del Pacifico, nel diffondere la libertà in Asia e, per estensione, al mondo intero.
Storici, democratici e altri oppositori di Bush si sono affrettati a denunciare il suo discorso come manipolazione inesatta e in malafede. I riferimenti al Vietnam sono stati bersaglio di critiche feroci. Eppure, una volta tanto, Bush ha centrato una reale analogia storica. Certo, la guerra del Vietnam appare diversa sotto quasi tutti i punti di vista da quella in Iraq. Ho Chi Minh non era Saddam Hussein. In Vietnam, gli Usa non hanno occupato un Paese, bensì difeso un alleato corrotto e tirannico contro le aggressioni di un regime comunista, come tutti sanno. Ma quello che Bush ha affermato realmente è che il ritiro americano dall'Indocina fu seguito da un bagno di sangue in Cambogia e da una repressione brutale in Vietnam. Un ritiro dall'Iraq, era sottinteso, rischia di scatenare una simile carneficina, o peggio ancora.
Questo è quasi certamente vero. Quello che Bush ha taciuto, però, è che né i massacri nel Sudest asiatico, né quelli così temuti in Iraq sarebbero accaduti o potrebbero verificarsi senza il caos generato dall'intervento americano. Ma che dire dei successi riportati altrove in Asia, come in Giappone, in Corea e in altri luoghi sotto la protezione americana? Ha avuto ragione il presidente di vantare il ruolo dell'America nella liberazione di questi Paesi? Nelle sue parole ai reduci di Kansas City: «La generazione odierna in America saprà resistere alla tentazione del ritiro, e saremo capaci di fare in Medio Oriente quello che i veterani qui presenti hanno fatto in Asia?».
Già, che cosa hanno fatto esattamente gli americani in Asia?I primi anni dell'occupazione del Giappone rappresentarono in realtà un successo ammirevole per la democrazia. Anziché aiutare i giapponesi della vecchia guardia a restaurare un sistema autoritario, il governo insediato sotto la guida del generale MacArthur appoggiò i liberali giapponesi a rimettere in sesto e migliorare le istituzioni democratiche prebelliche. Ai sindacati fu assicurato un maggior potere contrattuale. Le donne ottennero il voto. Furono riaffermate le libertà civili. E l'imperatore,da semi-dio qual era,venne riportato coni piedi per terra. Gran parte del merito va riconosciuto agli stessi giapponesi e agli esponenti del new deal, di tendenze idealistiche e di sinistra, presenti nel governo di MacArthur, che si adoperarono per sostenerli.
Quando però la Cina cadde nelle mani dei comunisti di Mao e la Corea del Nord ottenne l'appoggio cinese e sovietico per un'invasione del Sud,l'idealismo democratico conobbe un brusco arresto. In Giappone, i criminali di guerra furono rilasciati dalle prigioni, seguì una purga dei «rossi», e una successione di governi di destra, guidati da alcuni di quegli stessi criminali di guerra, ottenne l'appoggio deciso degli americani. Con l'incoraggiamento attivo degli Usa la democrazia venne abbandonata e distorta, al fine di mantenere la destra al potere e la sinistra a buona distanza.
I coreani del Sud devono molto all'America, non c'è dubbio. Senza l'intervento delle Nazioni Unite nella guerra di Corea, combattuta dagli Usa, il Sud sarebbe stato espugnato da Kim Il Sung, il «Grande Leader», e l'attualelibertà e prosperità economica sarebbero rimaste un sogno. Ma l'America non ha regalato la democrazia alla Corea del Sud, né l'ha sempre incoraggiata. Tra la fine degli anni Quaranta e la fine degli Ottanta, gli Stati Uniti hanno spalleggiato, e in alcuni casi sostenuto attivamente, i dittatori anticomunisti che si erano impossessati del potere o lo avevano rafforzato tramite brutali colpi di Stato e la soppressione del dissenso interno.
Questo è accaduto nelle Filippine, a Taiwan, in Indonesia e Tailandia, e inoltre in Medio Oriente, dove la democrazia deve ancora mettere radici. Per tutta la durata della guerra fredda, dittatori e uomini forti degli apparati militari sono stati sempre favoriti dai successivi governi americani nel nome della lotta al comunismo. Era ammessa qualunque azione per schiacciare la sinistra, persino quel genere di sinistra che all'Occidente democratico appariva semplicemente liberale.
Ebbene, è pur vero che per i popoli che si sono ritrovati sotto le dittature della destra in Asia la vita era di gran lunga preferibile a quella dei cittadini sotto Mao, Pol Pot, Kim Il Song, e persino Ho Chi Minh. Ma definire «liberi» i popoli sotto Park Chung Hee, Ferdinand Marcos o il generale Suharto equivale a difendere un abominio. Il lieto fine di coreani, filippini, tailandesi e taiwanesi, che in seguito hanno conquistato la libertà, o una maggior libertà, non è stato tanto merito degli Stati Uniti, quanto delle stesse popolazioni che hanno combattuto da sole per la loro emancipazione. Soltanto negli ultimi anni Ottanta, quando gli imperi comunisti erano già in fase di disfacimento, i governi Usa hanno appoggiato attivamente i politici democratici e i manifestanti a Seoul, Taipei e Manila. Gli eroi della democrazia in Asia non sono americani, bensì asiatici.
Il presidente Bush ha ragione nel sostenere che i popoli del Medio Oriente aspirano anch'essi alla libertà e alla prosperità dei coreani del Sud, ma la sua convinzione che la guerra in Iraq rappresenti la continuazione della politica americana in Asia non potrebbe essere più fuorviante. In Asia, come in Medio Oriente, la strategia americana era conservatrice e consisteva nel sostenere le dittature contro il comunismo, finché queste non sono state rovesciate dai popoli oppressi. Oggi, in Medio Oriente, la strategia americana si dimostra radicale e senza scrupoli: invade un Paese, distrugge le sue istituzioni e aspetta che la libertàscaturisca dall'anarchia che è venuta a instaurarsi. Confondere questi percorsi così diversi e immaginare che siano identici non è soltanto errato, ma anche pericoloso, nonché profondamente deludente per tutti coloro che vogliono continuare a vedere negli Stati Uniti una forza del bene.

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