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La Stampa Rassegna Stampa
01.09.2007 Reportage da Hebron
ma manca la storia della presenza ebraica nella città, indispensabile per comprendere

Testata: La Stampa
Data: 01 settembre 2007
Pagina: 16
Autore: Francesca Paci
Titolo: «“Noi, traditi dai fratelli ebrei”»

La STAMPA del 1 settembre 2007 pubblica un articolo di Francesca Paci sugli israeliani di Hebron.
Per comprendere la situazione attuale di quella città, e la determinazione dei coloni è necessario rifarsi alla storia.
Alla millenaria presenza ebraica nelle città, ai pogrom del 1929 e del 1936, al terrorismo dopo il 1967. Non per dare necessariamente  ragione ai coloni, ma per comprendere le loro motivazioni e il fondamento storico del loro attaccamento al luogo dove hanno scelto di vivere.
Come in genere accade sui giornali italiani, non c'è traccia di questo nell'articolo di Francesca Paci (una recente eccezione è l'articolo di Giulio Meotti a questo link )
Ecco il testo:

Adotta un soldato israeliano: con 15 dollari puoi comprare una pizza family size e una bibita per uno dei coraggiosi militari che difendono Hebron». Il cartello è appeso sulla cassa della spartana caffetteria Gutnik nella piazza principale di Hebron, uno slargo polveroso ai piedi della collina su cui sorge la Grotta dei Patriarchi, quella che i musulmani chiamano «al-Masjid al-Ibrahimi» e gli ebrei «Ma’arat ha-Machepela», lo stesso santuario ma nemico. Un altoparlante diffonde a volume altissimo le melodie di celebri cantanti hasidic come Shlomo Carlebach, ebrei ultraortodossi che musicano la devozione a Jahvé. Quando lo stereo talmudico tace, dalla moschea che lo sovrasta si leva, cantilenoso come l’altro, il canto del muezzin, menestrello di Allah. Ebrei e musulmani dividono la stessa strada, lo stesso luogo di culto, la stessa ritualità: sono amici quando passando si salutano «shalom», «salam aleikum». Eppure qui, dove incontri più check point che bar, il conflitto politico tra israeliani e palestinesi diventa irrimediabilmente religioso, una guerra tra fedeli inginocchiati sulla tomba dei medesimi padri, Abramo, Sarah, Isacco e Rebecca.
Hebron, seconda città della Cisgiordania abitata da 120 mila palestinesi e 700 irriducibili coloni ebrei protetti da 350 militari, è una trincea. Dal 1997 una frontiera di transenne separa la parte 1, palestinese, da quella 2, ebraica. Venti giorni fa l’esercito israeliano ha sgomberato due famiglie dalla zona del mercato arabo, connazionali che intonavano «La cavalcata delle Valchirie di Wagner» per alludere al nazismo dell’operazione, lanciavano dalla finestra il triciclo rosso dei bambini che oggi arrugginisce tra le macerie. Fratelli contro fratelli, una scena che il Paese ha già visto decine di volte a Hebron e durante il ritiro da Gaza. Una scena che inevitabilmente vedrà ancora: il sacrificio dei coloni di Hebron è tappa fondamentale del processo di pace.
«Non ce ne andremo mai»: Noam Arnon, 53 anni e «solo» otto figli, kippà sul capo, camicia bianca pantaloni chinos blue e sandali Birkenstock, è il portavoce dell’enclave ebraica. «Sono arrivato nel 1976, dopo la laurea in storia all’università di Gerusalemme». Oggi insegna dottrina sionista e supervisiona i lavori per il restauro della sinagoga e delle abitazioni in cui vive con i suoi, soffocati tra l’ostilità dei palestinesi e quella dei connazionali, sempre più stanchi di difendere una frontiera indifendibile. Ma lui, certo dell’unzione divina, occhi lucidi quasi folli, pugno serrato, non molla: «Non ce ne andremo mai. Ci sgomberano? Torneremo ancora, verranno altre famiglie e poi altre ancora».
Prima di parlare di pace da queste parti bisogna attraversare la città araba con le strade sterrate e le botteghe odorose di tè alla menta, la zona demilitarizzata teatro degli scontri della seconda intifada che qui ha fatto un centinaio di vittime ricordate da lapidi scritte in arabo e in ebraico, il quartiere dei coloni rassegnati a non poter vivere per sempre nel nome di Dio ma disposti a morire. Baruk Goldstein, il medico ebreo che nel 1994 massacrò 29 palestinesi nella moschea di Hebron era un amico di Noam Arnon: «Poveraccio, è impazzito, ma come si fa a non impazzire in queste condizioni?». Noam si arrampica agile fino alla Grotta dei Patriarchi, la sinagoga, «la sezione piccolissima riservata a noi».
I coloni si raccolgono dietro una grata guardando verso le tombe degli avi, parte integrante della moschea che per i musulmani è il secondo luogo sacro della Terra Santa, dopo il Monte del Tempio. I figli del profeta Maometto si inginocchiano sui talloni, troppo lontani da Yussef e Hamed che in piazza salutavano Noam portandosi la mano destra sul cuore. Nemici. Ma non più dei militari israeliani che «cacciano i loro fratelli dalla terra e dalle case che ci appartengono». L’ultima volta alcuni soldati si sono rifiutati di eseguire gli ordini, refusenik di destra, «obiettori per coscienza»: gli eroi dei coloni di Hebron che domani li premieranno con una medaglia e decine di coupon per pizza e bibite raccolti al bar della piazza.

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