Con la bomba gli stati canaglia si difendono la tesi di Sergio Romano
Testata: Corriere della Sera Data: 31 agosto 2007 Pagina: 45 Autore: Sergio Romano Titolo: «Un mondo senza armi nucleari: speranza o utopia?»
"Se l'America aggredisce l'Iraq perché non ha ancora un arsenale nucleare, ma si astiene dal colpire la Corea del Nord, altri faranno tesoro della lezione e si comporteranno di conseguenza.", rispondendo a un lettore Sergio Romano spiega ( e giustifica) così la politica nucleare dell'Iran, e quella che potrebbero adottare in futuro altri stati canaglia.
Dimenticando che se l'Iraq di Saddam non avesse appoggiato il terrorismo, non avesse avuto un programma per ricostituire il suo arsenale di armi di distruzione di massa (già utilizzate contro il suo stesso popolo), e non avesse sistematicamente violato le risoluzioni Onu sulle ispezioni per verificare lo smantellamento dei suoi arsenali, non sarebbe stato "aggredito" (per usare l'espressione di Romano).
E dimenticando che il programma nucleare iraniano esiste da ben prima della liberazione dell'Iraq. Il suo scopo non è difensivo. Il regime degli ayatollah vuole distruggere Israele, e lo dichiara apertamente. Prima di Ahmadinejad, a dirlo era stato il "pragmatico" Rafsanjani. E prima di lui Khomeini
Ecco il testo:
Un mondo con 40 Paesi nucleari non è gestibile. Eppure, questa è la prospettiva dei prossimi vent'anni. Dal Medio Oriente all'Asia, è in atto una corsa al riarmo nucleare senza precedenti; a valle, prospera un vivace mercato nero, dove pescano le organizzazioni terroristiche. Ma la catastrofe nucleare non è inevitabile: i nostri nonni la impedirono con il Tnp (trattato per la non proliferazione nucleare, in virtù del quale le potenze nucleari accettarono di azzerare i loro arsenali «nel lungo termine», e le altre nazioni ad acquisire armi atomiche. Il problema oggi è l'assenza di leadership. La politica segue gli umori dell'opinione pubblica, invece di guidarli. Ci vorrebbe una grande iniziativa globale, di stampo kennediano, per rilanciare l'opzione zero. Lo so che non è facile: ma in passato, più di un presidente Usa la appoggiò. I Paesi medi e non nucleari, come l'Italia, mi sembrano legittimati a riaprire il dialogo con le potenze nucleari. Non crede che questa sia una missione, per il Partito democratico? PierGiorgio Gawronski pgawron@ libero.it Caro Gawronski, le sue preoccupazioni sono in buona parte quelle che ispirarono la politica del governo italiano negli anni che precedettero la firma del Tnp. Gli archivi del Dipartimento di Stato conservano un telegramma dell'ambasciatore americano a Roma, G. Frederick Reinhardt, sulla conversazione che Giuseppe Saragat (allora presidente della Repubblica) ebbe nell'aprile del 1967 con il vicepresidente degli Stati Uniti Hubert Humphrey. Saragat introdusse l'argomento ricordando che l'Italia poteva rinunciare a una parte della propria sovranità soltanto nell'ambito di accordi che obbligassero i suoi partner allo stesso sacrificio. Eravamo in grado di costruire una bomba atomica nel giro di quattro anni, ma non avevamo ambizioni nucleari militari. Volevamo tuttavia essere certi che la rinuncia all'arma nucleare non avrebbe pregiudicato i nostri programmi nucleari civili e comportato rischi per la sicurezza italiana, soprattutto nel Mediterraneo. Dal canto suo Amintore Fanfani (allora ministro degli Esteri del governo Moro) aveva già detto a Humphrey che il trattato di non proliferazione sarebbe stato accettabile soltanto se associato a un processo di generale disarmo. Humphrey dette qualche assicurazione. Disse che la sicurezza dell'Italia era garantita dagli Stati Uniti e dalla Nato. Promise che l'esigenza del disarmo sarebbe stata tenuta presente. E infine, con riferimento alle preoccupazioni mediterranee dell'Italia, espresse la convinzione che Israele non avrebbe avuto armi nucleari. Dopo molte incertezze e un pubblico dibattito, animato da alcuni fra i migliori diplomatici italiani di quegli anni (tra gli altri Roberto Gaja e Roberto Ducci), l'Italia aderì al Trattato nel 1975. Non mi sembra che delle preoccupazioni italiane si sia tenuto gran conto. Alle cinque potenze nucleari dell'anno in cui Saragat incontrò Humphrey se ne sono aggiunte almeno tre, se non addirittura quattro: Israele, India, Pakistan, forse Corea del Nord. Né gli Stati Uniti né gli altri «beati possidentes» hanno la benché minima intenzione di rinunciare, in nome del disarmo, al perfezionamento e all'accrescimento del loro arsenale. La tecnologia necessaria per la costruzione di un ordigno diventa sempre più facile da acquisire e padroneggiare. Gli esperimenti necessari per la verifica degli ordigni possono essere simulati in laboratorio. E la politica unilaterale degli Stati Uniti non può che aumentare le ambizioni nucleari di coloro che hanno con Washington rapporti difficili. Se l'America aggredisce l'Iraq perché non ha ancora un arsenale nucleare, ma si astiene dal colpire la Corea del Nord, altri faranno tesoro della lezione e si comporteranno di conseguenza. Il disarmo nucleare a cui lei aspira, caro Gawronski, mi sembra quindi soltanto una generosa utopia. Un po' meno utopica, anche se estremamente difficile, potrebbe essere invece una politica estera impegnata a trasformare la «force de frappe » francese in un'arma al servizio dell'Europa. Ma per il momento non vedo alcun partito italiano, di destra o di sinistra, che sia disposto a prendere una tale iniziativa
Per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera cliccare sul link sottostante lettere@corriere.it