E se gli aiuti danneggiassero i palestinesi ? lo sostiene Padre Abusahlia, che punta invece sull'imprenditoria
Testata: La Stampa Data: 30 agosto 2007 Pagina: 14 Autore: Francesca Paci Titolo: «Non dateci più soldi stiamo meglio senza»
Francesca Paci, sulla STAMPA del 30 agosto 2007, presentaai lettori un personaggio molto interessante. Padre Abusahlia, sacerdote a Taybeh, sostiene che gli aiuti internazionali creano nei palestinesi un'eterna dipendenza economica e che la vera soluzione dei problemi del suo popolo si trova nella libera impresa. A questa considerazioni, si potrebbe aggiungere quella che in genere, gli aiuti internazionali, nell'Autorità palestinese come altrove, arrichiscono e rafforzano burocrazie inefficienti e alimentano la corruzione. Nel caso palestinese la situazione è ancora più grave, perché gli aiuti hanno alimentato anche il terrorismo e la propaganda d'odio.
Purtroppo Francesca Paci preferisce non toccare queste questioni scomode, mentre inserisce nell'articolo un riferimento all'"occupazione" e all'impossibilità per i palestinesi di fare qualcosa contro di essa, omaggio non necessario al politicamente corretto.
Ecco il testo:
A Taybeh fa caldissimo. L'unico sollievo è la bottiglia ghiacciata che padre Raed Abusahlia tira fuori dal frigorifero: birra Taybeh, «cento per cento made in Palestina». Il più rivoluzionario dei palestinesi è un sacerdote quarantenne che vive in questo villaggio di 1400 anime arroccato tra Ramallah e le dune del Negev, l'ultima enclave interamente cristiana nella Terra Santa dove, dal 1948, i seguaci di Gesù sono passati dal 25 al 2 per cento. Padre Abusahlia ha studiato la sintassi del quotidiano Wall Street Journal, la Bibbia dell'economia, almeno quanto il Vangelo: «La moltiplicazione dei pani e dei pesci dimostra che neppure il figlio di Dio fa miracoli senza l'impegno dell'uomo». Il massimo problema del suo popolo, spiega, è economico: «Gli aiuti internazionali ci indeboliscono e annullano le nostre potenzialità lavorative». Poi certo, c'è l'occupazione, ma contro i check point la buona volontà può fare ben poco. «Dobbiamo liberarci dell'eredità di San Paolo, l'antenato dei nostri benefattori, e smettere di sentirci mendicanti». Padre Abushalia, lunga tonaca nera e fantasia a colori da don Camillo mediorientale, ripete la sua orazione quotidiana seduto nella sacrestia in legno della sua piccola chiesa, una delle sei di Taybeh. In piazza e nelle strade le donne passeggiano sotto braccio ai mariti con il capo orgogliosamente scoperto. Gli uomini seduti ai tavolini del bar centrale sorseggiano birra: qui si può. Ed è l'orgoglio locale. Come rompere le catene della dipendenza economica? Per esempio come lui. Nel 2002 ha ricevuto dall'Unione Europea un fondo di due milioni di euro, l'ultimo. Poi ha detto basta: perché mai i palestinesi devono campare contando in eterno sulla generosità degli stranieri, oltre mille milioni di euro appena stanziati da Europa, Nazioni Unite, America? Anche l'organizzazione non governativa Care, un colosso nella galassia degli aiuti umanitari, ha appena ridotto di 43 milioni di dollari i finanziamenti ai Paesi africani preferendo fornire loro infrastrutture. Lui, invece di sovvenzionare le sei famiglie su dieci che vivono sotto la soglia di povertà, ha investito il denaro in sette progetti artigianali che impiegano 73 persone. Producono lampade per la pace, 20 mila pezzi da gennaio a oggi. E poi 120 tonnellate di olio «santo» per accendere la fiamma della speranza o «per condire l'insalata», 25 tonnellate di cous cous, candele. Nel 2006 l'attività ha raggiunto il pareggio di bilancio, quest'anno potrebbero arrivare i primi veri guadagni. Padre Abusahlia è originario di un paesino vicino a Jenin, ha studiato in Italia, è stato cancelliere del patriarcato latino di Gerusalemme, da quattro anni guida la diocesi dell'ultimo avamposto palestinese della cristianità, dove una legge non scritta impedisce di vendere la terra a ebrei e musulmani per mantenere l'identità religiosa maggiormente in difficoltà. «Adesso faccio l'imprenditore», scherza. La sfida più dura. Perché il paesaggio collinare che si vede dalla sua finestra è dominato dagli ulivi, 30 mila alberi coltivati grazie agli aiuti internazionali. Solo che fino a cinque anni fa non esisteva mercato: «La gente usava le bottiglie come merce di scambio. Per le mie lezioni di catechismo venivo pagato con taniche d'olio, una volta ne misi insieme 800 bidoni, 12 tonnellate». Adesso, dopo l'acquisto di un frantoio nuovo, l'etichetta «Taybeh» fa bella mostra sugli scaffali di 2500 supermercati francesi e in qualche pioniera catena italiana. Da principio i parrocchiani lo consideravano un mezzo pazzo, un visionario. Ora fanno la fila per consegnargli il curriculum di un figlio o di una figlia: con il 40 per cento di disoccupazione nazionale chissà che l'attività non decolli davvero. Gli abitanti di Taybeh sono abituati ad andare controcorrente: i sei campanili che richiamano alla messa domenicale svettano solitari in mezzo a sedici villaggi musulmani e cinque colonie ebraiche. E, soprattutto, in mezzo a un'economia moribonda. Che il buon esempio possa essere contagioso? Padre Abusahlia strizza l'occhio e ci ride su: «La chiamo "Olive brunch strategy", la strategia del ramo d'ulivo». Che significa solo pace ma, volendo, pure business.
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