L'amore per la morte in versi le poesie dei jihadisti detenuti a Guantanamo, recensite da Giulio Meotti
Testata: Il Foglio Data: 29 agosto 2007 Pagina: 2 Autore: Giulio Meotti Titolo: «I versi d’amore per la morte dei jihadisti di Guantanamo»
Dal FOGLIO del 29 agosto 2007:
"Prendete il mio sangue, prendete il mio sudario funebre e i resti del mio corpo. Prendete le fotografie del mio cadavere nella tomba. Mandatele in tutto il mondo, ai giudici e alle persone di coscienza, agli uomini di principi e dalle menti giuste. Lasciate che sostengano il peso della colpa di quest’anima innocente”. La poesia di Jumah al Dossari, jihadista del Bahrain arrestato in Afghanistan dall’esercito americano, fa parte dell’esclusiva antologia di poesie scritte dai detenuti di Gitmo. Sono raccolte in “Poems from Guantanamo”, un libro di 84 pagine pubblicato dalla casa editrice dell’Università dell’Iowa e curate da Mark Falcoff, l’avvocato difensore di alcuni prigionieri yemeniti detenuti a Gitmo. I dettagli contribuiscono ad alimentare l’alone sofferente e insieme epico di questi combattenti islamici. Le poesie sono state consegnate alle ciotole di polistirolo in cui mangiano, incise con dei cocci e poi passate di gabbia in gabbia. Fino al 2003, infatti, i detenuti non potevano usare matite o penne, gli americani temevano lo scambio di messaggi cifrati con al Qaida. Il Pentagono ha secretato le poesie per cinque anni. Uno degli autori, Sami al Haji, era un reporter di al Jazeera accusato di fare il corriere per i terroristi ceceni in Afghanistan. Haji parla del grande nemico: “America, tu cammini sulla schiena degli orfani, li terrorizzi ogni giorno. Bush, stai attento. Ad Allah dirigo la mia rabbia e le mie lacrime. Come posso comporre versi? Dopo le catene e le notti e la sofferenza e le lacrime, come posso scrivere poesia? La mia anima è come un mare torbido, mossa dall’angoscia, violenta per la passione. Sono prigioniero, ma i crimini sono quelli dei miei rapitori. Signore, garantisci il successo dei giusti”. Osama Abu Kabir, un giordano catturato a Kabul, si chiede se un giorno potrà tornare a casa dai figli e dalla moglie: “Noi siamo innocenti, qui, non abbiamo commesso nessun crimine. Liberatemi, liberateci, se da qualche parte in questo mondo restano ancora giustizia e compassione”. Kabir è il più lirico di questi poeti in armi: “E’ vero che l’erba cresce di nuovo dopo la pioggia? E’ vero che i fiori sbocciano a primavera? E’ vero che gli uccelli migrano verso casa? Questi sono miracoli. Navigo nei miei sogni, sogno la mia casa”. “Quando sento i colombi tubare tra gli alberi, calde lacrime coprono il mio volto”, scrive Haji. Il britannico Martin Mubanga onora il martirio dei compagni caduti: “Il sangue dei musulmani è sparso ovunque. Giustizia americana, maiali americani”. Faris al Anazi dedica i versi ad Allah: “Oh Dio, dai serenità a un cuore percosso dall’umiliazione”. J. D. Gordon, che lavora per il dipartimento della Difesa, lo chiama “materiale propagandistico” e al Wall Street Journal dice che le poesie “sono un altro strumento nella loro battaglia delle idee contro le democrazie occidentali”. Gore Vidal, che aveva già eroicizzato il bombarolo di Oklahoma City, Timothy McVeigh, esulta che “Guantanamo ha finalmente trovato la sua voce”. Il New York Times paragona queste “lacrime del martirio” alla nota “habsiyya”, la tradizionale poesia araba che canta l’amore e la sofferenza dei detenuti. I terroristi si rivolgono a “coloro che non hanno onore e coraggio e si considerano liberi, ma sono schiavi. Volo sulle ali del pensiero, conosco una libertà più grande”. Il columnist Mark Steyn definisce “brutte” le poesie. Si sbaglia. Perché i versi rivelano quanto, in modo impareggiabile, disse bin Laden: “Noi amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita”, ed evocano l’eclisse di “luce dei timorati” degli attentatori dell’11 settembre, l’“amore delle tenebre” cantato dal saudita Abdulaziz a Gitmo e la nuova “aurora” di morte a cui si riferiva spesso Abu Musab al Zarqawi. Mentre seminava dolore in Iraq, il colto decapitatore dedicò versi alla famiglia (“Sono qui, o madre/ sono qui, o sorella”), parlano della tristezza per le lacrime di una ragazza “pura come la neve"
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