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La Stampa Rassegna Stampa
29.08.2007 Il passato nazista di Bergman e Von Karajan
articoli e saggi contro la rimozione

Testata: La Stampa
Data: 29 agosto 2007
Pagina: 0
Autore: Francesco Saverio Alonzo - Vittorio Sabadin
Titolo: «Bergman ammirava Hitler - La verità sui Berliner l’orchestra del Reich»
Da La STAMPA del 29 agosto 2007, un articolo sul passato nazista del regista Ingmar Bergman:

All’indomani della morte del regista Ingmar Bergman, alcune donne coraggiose sono partite all’attacco dell’intellighenzia svedese per l’omaggio al grande scomparso. «Piú vigliacchi dello stesso Bergman - dichiara in un grande articolo sullo Svenska Dagbladet la scrittrice Maria Pia Boethius - così servili da squalificare la nazione. Hanno taciuto le sue colpe».
Ma in cosa consisterebbero le colpe di Bergman? Nell’aver nutrito per ben dieci anni una smisurata ammirazione per Adolf Hitler. Di questo periodo, segnato da un’esaltazione quasi mistica per un Ordnung perfetto capace di elettrizzare un’intera nazione, lo stesso Bergman parla ampiamente nel libro autobiografico Lanterna Magica e non fa mistero del modo in cui, assistendo a una parata in occasione delle Olimpiadi di Berlino del 1936, si sentisse trascinato dall’entusiasmo unanime per il «salvatore della Germania».
Io stesso ebbi a domandargli, alla presentazione della prima del film Le uova del serpente se egli conservasse alcun ricordo di quell’epoca ed egli mi rispose su per giú cosí: «Allora c’erano soltanto due strade: il bolscevismo e il fascismo. Io avevo soltanto 18 anni la prima volta che vidi Hitler. In lui noi giovani vedevamo un uomo capace di ristabilire l’ordine e il benessere in una nazione sconvolta dai disordini e assediata dal pericolo comunista. È vero, tornai in Svezia con un’immagine quasi ieratica di quel condottiero».
Ricordo che mi guardò a lungo, con quegli occhi magnetici, ma abbozzando un sorriso molto affabile e mi dette un buffetto sulla nuca: «Anche voi, in Italia...» disse infine, allontandosi.
La Boethhius non intende tanto attaccare Bergman quanto coloro che, nel tesserne il curriculum artistico, hanno saltato il periodo in cui il regista era influenzato dalle teorie naziste e che coincideva con la sua formazione di regista teatrale e, in seguito, cinematografico. In una lunga intervista, che la Boethius usò nella seconda edizione del proprio libro sulla seconda guerra mondiale, Ingmar Bergman le fece delle confessioni talmente scottanti che, rileggendo le bozze, egli si vide costretto a cancellare in gran parte per non esporsi troppo.
Dice la scrittrice: «Nel libro ci sono i passi approvati dell’intervista, ma in qualche ricettacolo in soffitta, conservo l’intervista integrale. Gli piaceva parlare con me perché ero ben documentata sull’argomento e potevo fargli delle domande spregiudicate, provocanti, ma prima della pubblicazione si risvegliò in lui l’istinto del regista e dovetti rispettare la promessa che gli avevo fatto di cancellare ciò che non gli andava a genio. Un bel giorno però consegnerò tutto il materiale a qualche studioso coraggioso».
La Boethius non critica tanto l’entusiasmo giovanile di Bergman per Hitler quanto il modo in cui fra gli osanna universali si sia tralasciato di parlarne. Da uno stralcio dell’intervista si legge: «Quando furono aperti i campi di sterminio, non riuscivo a credere ai miei occhi. Credevo che si trattasse di propaganda alleata. Ma quando appresi tutta la verità, subii uno shock terribile. In un modo violento e brutale venni strappato alla mia ingenuità. L’uomo è una voragine e provo terrore a scrutare nel suo fondo, come dice George Büchner nel suo Woyzcek».
Ingmar Bergman ha parlato spesso dell sua giovanile ammirazione per Hitler come della piú grande truffa che egli avesse commesso ai danni del proprio io. Ma la giornalista Cornelia Edwardsson aggiunge altri dettagli sul pentimento tardivo di Bergman. «Nella sua autobiografia, Bergman descrive il pianto dirotto in cui scoppiò apprendendo la notizia della morte del Führer e questa confessione, per quanto sorprendente, gli fa onore. Ma quando egli spiega come già da lungo tempo avesse perdonato a se stesso gli errori di gioventú, sbaglia di grosso. Chi si era lasciato incantare da un’ideologia che assegnava a certi esseri umani la qualifica di "untermenschen" non aveva il diritto di perdonare se stesso. Sono infatti le vittime, caso mai, ad avere il diritto di perdonare e questa legge del pentimento vale anche per gli artisti».

E uno su Herbert von Karajan e i Berliner Philharmoniker:

Le immagini che i Berliner Philharmoniker avrebbero voluto dimenticare per sempre, quelle in cui gli orchestrali facevano il saluto nazista sotto una enorme svastica, compiaciuti dalla presenza di Adolf Hitler in sala, sono tornate 70 anni dopo nelle librerie tedesche, e scateneranno un putiferio. L’uscita del libro di uno storico canadese che vive a Berlino, Misha Aster, rivela già nel titolo (L’orchestra del Reich) l’intenzione di sollevare il velo di oblio che ha coperto il passato nazista della più importante orchestra del mondo e di uno dei suoi più prestigiosi direttori, Herbert von Karajan.
Nati come una compagnia indipendente, gestita dagli stessi musicisti, i Berliner furono felicissimi - scrive Aster - di gettarsi nelle braccia del ministro Joseph Goebbels dopo che la depressione degli anni 20 aveva mandato in rovina l’orchestra, costretta a ricorrere a magri sussidi statali. In cambio di uno stipendio certo, accettarono di diventare uno strumento della propoganda nazista e lo fecero fino a un mese prima che i russi innalzassero la loro bandiera sul Reichstag: suonavano per tre giorni a ogni compleanno del Führer, si esibivano davanti alle adunate della gioventù hitleriana, andavano dovunque Goebbels li chiamasse. Oltre allo stipendio, la contropartita era rappresentata dall’esenzione dal servizio militare e dalla possibilità di suonare legni preziosi, provenienti dalle migliori collezioni d’Europa. L’unico privilegio che mantennero fu quello di poter designare il loro direttore, Wilhelm Furtwängler, un uomo che ai nazisti non piaceva molto e che avrebbe presto incontrato sulla sua strada un giovane ambizioso e più disposto ai compromessi: Herbert von Karajan.
Misha Aster, quando gli hanno chiesto perché un libro come questo non fosse stato scritto prima, ha candidamente ammesso che l’egemonia esercitata da Karajan come direttore dei Berliner dal 1955 al 1989 rendeva «poco gradite» le domande sul periodo precedente alla guerra, che andava dimenticato e basta. Karajan si iscrisse al partito nazista nel 1933, a Salisburgo, in Austria, dove era nato. I suoi difensori affermano che lo fece per non compromettere la carriera, i detrattori citano gli esempi di Bruno Walter, Arturo Toscanini e Erich Kleiber, i quali lasciarono l’Europa all’avvento di nazismo e fascismo. Se lo fece solo per la carriera, certamente ci mise molto impegno. Compose l’Anschluss Sonate per celebrare l’invasione tedesca dell’Austria e accettò di dirigere nelle capitali europee occupate per celebrare il trionfo militare con un bel concerto. Furtwängler aveva sempre rifiutato di farlo, e quando i Berliner suonavano davanti a Hitler teneva la bacchetta nella mano destra in modo da avere una scusa per rinunciare al saluto nazista. L’anziano e straordinario direttore, una icona musicale del secolo scorso insieme con Toscanini, aveva salvato molti ebrei (compresi alcuni musicisti dell’orchestra) e anche senza prendere mai posizioni aperte contro il regime, lo avversava chiaramente.
Il partito nazista vide in Karajan l’uomo giusto per indebolire il mito di Furtwängler e l’occasione venne il 22 ottobre del 1938. Dopo una esecuzione del Tristano e Isotta di Wagner, un critico berlinese parlò di «Das Wunder Karajan», il «miracolo Karajan», aggiungendo perfido: «Il nostro cinquantenne dovrebbe invidiare questa esecuzione». Il cinquantenne era Furtwängler, il quale capì forse per la prima volta quali fossero le mire di quel ragazzo pieno di talento: voleva il suo posto, e i nazisti erano pronti ad offrirglielo.
Incredibilmente, non fu Karajan a subire più di tanto ostracismi dopo la guerra per il suo passato nazista. L’uomo ad essere processato dagli alleati fu invece Furtwängler, accusato di essere rimasto in Germania e di avere diretto i Berliner davanti a esponenti del partito. Fu prosciolto, ma la ferita aperta da quel processo non si rimarginò mai più. Karajan se la cavò meglio, forse anche grazie al matrimonio, nel 1942, con Anita Guetermann, una donna di discendenza ebraica dalla quale divorziò nel 1958, che fu molto criticato dai suoi protettori. Molti musicisti ebrei, come i violinisti Isaac Stern e Itzhak Perlman, hanno sempre rifiutato di suonare in concerti diretti da Karajan, che riuscì tuttavia a liberarsi del suo passato agli occhi del grande pubblico. Ma non a quelli dei suoi domestici. In cucina teneva appese foto degli affamati del Biafra e ripeteva sempre a cuochi e camerieri: «Senza di me, sareste come loro».

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