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Il Foglio Rassegna Stampa
28.08.2007 L'intransigenza del Partito del Califfato, l'ambiguità di Abdullah Gul, e una fatwa contro Al Qaeda
l'islam conteso da fondamentalisti, terroristi e moderati

Testata: Il Foglio
Data: 28 agosto 2007
Pagina: 3
Autore: Rolla Scolari - Marta Ottaviani - Giulio meotti
Titolo: «Ora Hamas teme la concorrenza islamista del Partito del Califfato. Molto più intransigente - L'uomo col doppio fondo - In nome di Allah contro al Qaeda»
Gerusalemme. Al Khilafah, “il Califfato, la forza in arrivo”. Ramallah è tappezzata di cartelloni con questa scritta, in bella calligrafia araba. Ci sono ancora striscioni d’invito a una conferenza-manifestazione all’aria aperta, che si è tenuta pochi giorni fa in un campo di calcio spelato. Secondo alcuni giornali, i partecipanti erano 10 mila. A organizzare l’evento, la filiale palestinese di Hizb ut-Tahrir, partito internazionale, panislamico, che opera in 40 paesi del mondo. Il movimento esiste da decenni nei Territori. E’ nato, prima di internazionalizzarsi, a Gerusalemme, nel 1953, fondato da un religioso sufi, giudice di una Corte d’appello della Città Santa, Taqiuddin al Nabhani. Negli ultimi mesi la sua presenza, in termini di attività pubbliche, si fa più sentire. “In Palestina, la crescita del movimento – spiega un recentissimo saggio della Jamestown Foundation – riflette l’insoddisfazione con le politiche dei Fratelli musulmani e di Hamas”. Per il Movimento di resistenza islamico, un altro gruppo religioso in crescita potrebbe rivelarsi fastidioso. Già nelle passate elezioni legislative, spiega Hani al Masri, editorialista palestinese, Hamas avrebbe perso voti in favore di Hizb ut-Tahrir: per esempio a Qalqiliya, nel nord della Cisgiordania, unica città in cui vinse Fatah. Il partito della Liberazione non è un gruppo politico. Guadagnare punti significa convincere i sostenitori a non votare. Il movimento non crede nella democrazia, non si presenta alle elezioni. I regimi in cui si trova a operare sono considerati dal gruppo illegittimi. Per questo, molti leader arabi e centro asiatici temono le predicazioni di Hizb ut-Tahrir, considerato fuorilegge in numerosi stati nordafricani, mediorientali e dell’Asia (a Giacarta qualche giorni fa il partito ha riunito 80 mila persone in uno stadio). La Siria e la Libia hanno ucciso alcuni membri; le prigioni giordane, irachene, tunisine ed egiziane sono piene dei suoi sostenitori. Per giungere al Califfato in cui vige la sharia, dicono i seguaci, i passi da compiere sono tre: educare i musulmani; diffondere l’ideologia in altri paesi, soprattutto tra i membri del governo e delle élite militari, per avanzare il colpo di stato; il gruppo crede che la propria fede provocherà la caduta del laicismo e l’avvento del Califfato. Hizb ut-Tahrir è sotto continuo monitoraggio degli Stati Uniti, che non hanno finora rilevato alcun suo legame con attività terroristiche. Il partito si definisce pacifista. Ha condannato le bombe di Londra, Madrid e Bali. Ma nella sua visione, il jihad, la guerra santa, è positivo e applicabile una volta raggiunto il Califfato per diffondere l’islam. La Gran Bretagna, in cui il partito è fortissimo, ha proposto un bando contro HT per il suo antisemitismo. Per la stessa ragione, la Germania lo ha messo fuori legge. La Russia lo ha dichiarato organizzazione terroristica. Scrive l’inglese Independent: “I critici dicono che la sua ideologia è vicina a quella di gruppi jihadisti violenti, che radicalizza i giovani musulmani che poi scelgono la via della violenza”. Ed Husain, sul New York Times, spiega che “la sola differenza tra gli islamisti di Hizb ut-Tahrir e i jihadisti è che i primi aspettano il Califfato prima di cominciare il jihad, mentre i secondi credono che il tempo del jihad sia ora”. Molti non dimenticano che Abu Musab al Zarqawi, leader di al Qaida ucciso in Iraq, si avvicinò al gruppo in Giordania. Nei Territori, il Partito della Liberazione non è illegale. “Non hanno mai infranto la legge – dice al Foglio Ibrahim Kreishe, membro del Consiglio legislativo palestinese, di Fatah – Vogliono dimostrare oggi che non soltanto Hamas rappresenta il lato religioso”. Il loro scopo è riportare il Califfato e non hanno un obiettivo nazionalista. “Considerano le autorità illegali. Non hanno armi. Possono essere una minaccia seria per il sistema perché non credono nella democrazia”. Secondo Kreishe, stanno a loro modo sfidando Hamas, che non può essere, secondo loro, l’unico rappresentante del movimento islamista. “Hamas ha fallito; i laici hanno fallito; i movimenti nazionalisti hanno fallito e questi sono gli elementi che loro combattono. Vogliono spiegare che se procedi come Hamas fallisci”. Nei Territori sono 30, 40 mila i membri di Hizb ut-Tahrir. Due giovani rappresentanti della sezione mass media del gruppo, con lo sguardo intransigente, raccontano il movimento in un ristorante di shawarma di Ramallah, in assenza di un vero ufficio. Uno soltanto porta la barba alla moda islamica. Alaa Abu Saleh, 30 anni, alla conferenza di qualche giorno fa ha tenuto una delle letture. “Non siamo un partito palestinese ma universale, che concentra le proprie azioni nella fondazione di uno stato islamico. Non cerchiamo i grandi numeri”. Spiega che l’obiettivo è creare un cambiamento attraverso un “coup d’etat”. L’Anp è “un progetto dello stato imperialista, un figlio illegittimo”; HT non può coesistere con gli attuali regimi, non accetta d’entrare nel processo democratico. Gli altri movimenti che lo hanno fatto hanno commesso un errore”. “Non trattiamo la questione palestinese in maniera diversa da altre questioni – continua – è uno dei sintomi del collasso del Califfato, nel 1924. Dopo la caduta, gli ebrei sono diventati ambiziosi e sono riusciti a creare uno stato con l’aiuto degli inglesi”. Con il ritorno del Califfato, la situazione si risolverebbe automaticamente, spiegano. Hamas sembra per ora non temere il partito proprio grazie alla sua componente nazionalista. Le relazioni sono buone, dice al Foglio sheikh Khader Yasid, un portavoce di Hamas in Cisgiordania: “Siamo diversi perché il nostro obiettivo è lo stato palestinese. Non sono nulla paragonati a noi”. Dimentica, Yasid, gli esordi di Hamas (nata come tale soltanto nel 1987) quando sheikh Ahmed Yassin era ancora il leader di un’organizzazione caritatevole chiamata Mujama. “Qualsiasi esame dell’ideologia della Mujama deve cominciare dal riconoscimento che la questione palestinese, in particolar modo nel contesto di un movimento per la liberazione nazionale, non appare nell’agenda ideologica del movimento”, scrive Beverly Milton-Edwards nel suo libro “Islamic Politics in Palestine”. Il fallimento di Hamas è a loro favore, spiega Hani al Masri. “Avevano avvertito il movimento di non presentarsi alle elezioni. Partecipare al voto significa riconoscere la legge, e alla fine, Israele. Un membro di Hamas mi ha rivelato che il gruppo sta perdendo qualche sostenitore in favore di Hizb ut- Tahrir. Per il Movimento di resistenza islamico rappresentano una minaccia maggiore rispetto ai laici”. C’è preoccupazione anche tra gli editorialisti del fronte nazionalista. Haidar Awadallah scrive su al Ayyam, giornale vicino a Fatah, che il Partito di Liberazione potrebbe crescere ed espandersi come Hamas. Se accadesse, si troverebbe impegnato in una lotta contro il sistema politico esistente e la vittima sarebbe la causa nazionale palestinese. I palestinesi, sostiene, non hanno bisogno di un “internazionalismo islamico”, perché contraddice i principi di stato nazionale. 

Un articolo di Marta Ottaviani sull'ambiguità di  Abdullah Gul, candidato islamico  alla presidenza della Turchia:

Molti pensano che adesso la Turchia avrà come presidente della Repubblica la fotocopia meglio riuscita del suo attuale premier. Se oggi Abdullah Gül sarà eletto undicesimo capo di stato, è come se fosse stato il suo destino inevitabile a portarlo fino alla carica più alta della Repubblica. Anche se nella sua biografia l’aggettivo “islamico” ricorre con regolarità quasi preoccupante. Il presidente Gül nasce a Kayseri, nel cuore dell’Anatolia centrale, non in una data a caso. Il 29 ottobre 1950, anniversario della nascita del moderno stato turco. In un primo momento i genitori, per evidenziare la coincidenza, decidono di affiancare ad Abdullah anche Cumhur, che in turco significa popolo e che è la prima parte della parola Cumhurbashkan, ossia “capo del popolo” e titolo utilizzato per intendere il presidente della Repubblica. Il nome non viene apposto sul certificato di nascita, ma diventa il soprannome dato in famiglia al piccolo, primo figlio maschio dopo tante femmine e considerato come un dono del cielo. I suoi antenati furono fra i maggiori sovvenzionatori della moschea di Gülluk, la più importante di Kayseri. Studia fino al liceo nella sua città natale e poi si trasferisce prima a Istanbul, dove si laurea in Economia, e poi in Gran Bretagna per un master di perfezionamento. Alla fine degli anni Settanta torna in Turchia, dove, ormai trentenne, tardi per gli standard locali, conosce la futura moglie Hayrunissa Özyurt, che ha ben 15 anni in meno di lui ed è adolescente. La coppia si sposa nel 1980, ma la loro luna di miele viene bruscamente interrotta perché Abdullah Gül viene arrestato – per errore – dai militari, che il 12 settembre 1980 intervengono per la terza volta nella vita civile del paese. Terminato il servizio di leva nel 1981, due anni dopo decide di recarsi a Gedda, in Arabia Saudita, invitato dal suo docente universitario Nevzat Yalcintafl, per lavorare come esperto economico alla Banca Islamica per lo Sviluppo e acquisire una profonda conoscenza dei paesi arabi. Torna in patria nel 1991. Comincia il suo percorso politico. Incontra sulla sua strada Necmettin Erbakan, leader indiscusso della destra islamica turca, ed entra nel suo partito, il Refah Partisi, il Partito del Benessere. In questo periodo avviene anche il primo incontro con Recep Tayyip Erdogan. E’ proprio Erbakan che lo indirizza verso la diplomazia, assegnandogli nel 1993 il posto di vicepresidente nel partito con delega alla politica estera. Nel 1997 i militari, pur senza un golpe vero e proprio, costringono il leader islamico, allora primo ministro, a dimettersi. Il 22 febbraio dell’anno successivo il Refah viene sciolto per una sentenza della Corte costituzionale. Gül capisce che è arrivato il momento di cambiare e quando il suo maestro nel 1999 fonda il Fazilet Partisi (Partito della Virtù, sempre di orientamento islamico), il futuro aspirante capo dello stato aderisce, ma entra nella corrente riformista. Nel giugno del 2001 anche il Fazilet viene dichiarato incostituzionale. Necmettin Erbakan lavora alla costituzione del Saadet Partisi, il Partito islamico della Felicità, tuttora esistente. Abdullah Gül e Recep Tayyip Erdogan, che nel frattempo sono diventati grandi amici, si staccano dal loro padre politico e nell’agosto del 2001 danno vita all’Adalet ve Kalkinma Partisi, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, di orientamento islamico moderato. Dal matrimonio con Hayrunissa intanto sono nati tre figli, una femmina, Kübra, che porta il velo islamico come la madre, e due maschi, Mehmet Emre e Ahmet Münir. Alle elezioni politiche del novembre 2002 l’Akp trionfa. Ottiene il 34,29 per cento delle preferenze. Insieme al Partito repubblicano del popolo (Chp) è l’unico a passare lo sbarramento del 10 per cento previsto dalla legge elettorale ed entra alla Türkiye Büyük Millet Meclisi, la Grande assemblea nazionale turca con la cifra record di 363 deputati su 550, una maggioranza quasi plebiscitaria. Il capo del governo è proprio Abdullah Gül, che però resta in carica solo cinque mesi, fino al marzo 2003. Giusto il tempo di far votare un emendamento costituzionale che permette all’amico Recep Tayyip Erdogan di conquistare un seggio straordinario a Siirt, nell’est del paese, e di diventare primo ministro al suo posto. Quella che a tutti sembra un’abdicazione forzata è in realtà l’inizio di una formidabile intesa politica. Gül, seguendo le indicazioni del “padrino” Erbakan, diventa ministro degli Esteri e vicepremier. La sue doti di diplomatico e insieme l’opera di apertura economica del paese portano in breve tempo la Turchia a un ruolo da protagonista nella politica internazionale senza precedenti. Il 3 ottobre del 2005 i due amici e compagni di militanza firmano ufficialmente l’avvio dei negoziati per l’ingresso del primo paese musulmano nell’Unione europea. Con le responsabilità e i successi arrivano anche le telecamere. E Abdullah Gül dimostra subito di avere molta più sensibilità mediatica del premier Erdogan. Sempre sorridente, si fa ritrarre senza problemi mentre è in vacanza con la famiglia o guarda una partita del Besiktas, la sua squadra del cuore, che tifa in modo sfegatato assieme ai figli. Il modo di fare cordiale, quel viso tondo e sempre sorridente lo rendono istintivamente simpatico all’opinione pubblica e ai vari interlocutori, anche perché molti paragonano lui e la moglie Hayrunissa alla coppia Recep Tayyip ed Emine Erdogan, quasi fossero la loro bella copia. In questi quattro anni e mezzo di relazioni diplomatiche, Abdullah Gül ha fatto spesso parlare si sé e non sempre in modo positivo. La stampa, proprio quella con la quale il ministro degli Esteri si mostra sempre sorridente, gli ha giocato più di un brutto colpo. Nel febbraio 2006, quando tutta l’Europa assisteva all’ondata di violenze scatenata dalla pubblicazione delle vignette contro il profeta Maometto in Danimarca, negli stessi giorni in cui don Andrea Santoro era assassinato in nome di Allah proprio in Turchia, il vicepremier Abdullah Gül dichiarò che nel mondo ai sentimenti antisemiti si erano sostituiti quelli anti islamici. Parole non proprio diplomatiche, che la stampa straniera, a differenza di quella locale, si affrettò a riportare. Pochi mesi dopo, il suo ufficio stampa fu messo a dura prova quando il ministro degli Esteri definì il quotidiano islamico Vakit, che usa ancora parole derivate dalla vecchia lingua ottomana, il suo giornale preferito. Vakit ha più volte attaccato i giudici più laici del paese, primo fra tutti Mustafa Ozbilgin, ucciso da un avvocato fanatico nella sede del Consiglio di stato il 17 maggio 2006 per una sentenza sul velo islamico. Il suo omicidio sconvolse tanto l’opinione pubblica che Erdogan non potè partecipare ai funerali. Lo stesso Gül, che si recò sul luogo del delitto per fare le condoglianze da parte del governo, fu ricevuto con freddezza, solo dalla presidente del Consiglio di stato. Fuori, la gente gli urlava “assassino”. Nel maggio di quest’anno il quotidiano Cumhuriyet, di orientamento kemalista, riportò una dichiarazione fatta dall’aspirante undicesimo presidente della Repubblica all’inglese Guardian nel 1995 e che suonava più o meno così: “Il sistema laico in Turchia è al fallimento. Noi lo vogliamo assolutamente cambiare”. Abdullah Gül continua a negare e ha minacciato querela. Peccato che il giornale abbia confermato la veridicità di quelle parole. Sulla questione del velo islamico le sue posizioni sono note. Il 24 aprile, giorno della sua prima nomina a candidato dell’Akp per la presidenza della Repubblica, quando gli chiesero se fosse lecito che una donna velata entrasse nel palazzo presidenziale, Gül rispose che quella di sua moglie era una scelta personale e che tutti dovevano rispettarla. La figlia Kubra con il velo va dove vuole. Anche in università, sebbene una sentenza della Corte costituzionale lo vieti. Tutti i giornali turchi hanno immortalato la famiglia Gül il giorno della sua laurea. Kubra e la mamma indossavano due türban dai colori sgargianti. Lo Yök, istituzione laica che monitora l’insegnamento universitario, ha ritenuto opportuno avviare un’inchiesta ai danni dei dirigenti dell’ateneo e del ministro, che ha commentato: “Hanno voluto rovinare il giorno più bello di mia figlia”. Musulmano praticante, prega cinque volte al giorno e mentre lo fa non vuole essere disturbato. Durante l’ultima campagna elettorale, mentre si trovava sotto il portico di una moschea rivolto verso la Mecca, Gül si mise a urlare contro un pullman che passava vicino, reo di fare troppo rumore e di distrarlo dalla sua preghiera. Peccato si trattasse di un veicolo elettorale del suo partito, l’Akp, e per giunta con a bordo l’ex ministro della Giustizia, Cemil Cicek, che fece subito cessare i messaggi di propaganda, visibilmente sorpreso da quella reazione. Una specie di Dottor Jekyll e Mr. Hyde? Tanto moderato ed esterofilo all’apparenza, ma c’è il dubbio che quel volto, per natura simpatico e rassicurante, nasconda in realtà una seconda natura, magari più autentica e tanto più simile a quella del suo premier. I maggiori commentatori politici, primo fra tutti Mehmet Ali Birand, adesso si chiedono se come presidente della Repubblica Abdullah Gül saprebbe dire no al suo amico e compagno di militanza. Altri fanno notare che il delfino di Erdogan si è ripreso il favore che gli ha fatto nel 2002 con gli interessi, nonostante il parere contrario di quest’ultimo, la diffidenza dei militari e milioni di persone scese in piazza. Dopo il settennato di Ahmet Necdet Sezer, garanzia di laicità e contrappeso del governo islamico moderato dell’Akp, per la Turchia inizia una nuova era. E infatti l’esercito ieri, alla vigilia della probabile elezione, ha dichiarato che “la laicità dello stato turco è sotto attacco dei centri del male, che stanno cercando sistematicamente di erodere la natura laica della repubblica” Almeno dal punto di vista linguistico, con inglese e arabo eccellenti, il nuovo capo dello stato guarda sia a oriente sia a occidente, come faceva il simbolo dell’Impero romano d’oriente. E Gül ha dichiarato che sarà, nel caso, un presidente della Repubblica “laico e imparziale”. La speranza di tanti turchi è che non giri il capo solo da una parte, come fa il premier Erdogan.

Un articolo sulla condanna di Al Qaeda da parte di religiosi sunniti e sciiti:

Un detto arabo recita: “I libri sono scritti al Cairo, stampati a Beirut e letti a Baghdad”. Non è un caso che la grande fatwa antiterroristica sia stata annunciata nella capitale egiziana, dove le massime autorità dell’islam sunnita hanno emesso editti contro gli sciiti iracheni. A metà giugno, mentre al Qaida bombardava i pellegrini sciiti nella moschea Khilani, 70 leader religiosi si riunivano a Baghdad per una conferenza sulla riconciliazione. Sunniti, sciiti e curdi, guidati dal grande ayatollah Alì al Sistani. Il forum fu sostenuto dal capo delle operazioni militari americane, il generale David Petraeus, e dall’ambasciatore Ryan Crocker. Al Cairo si è chiusa la seconda sessione della conferenza contro il terrore. Il primo aiutante di Sistani, l’ayatollah Ammar Abu Ragheef scampato agli attacchi di al Qaida, e lo sceicco sunnita Ahmed al Kubaisi, i cui sermoni sono seguiti da venti milioni di musulmani, hanno sottoscritto una “contro fatwa” per la lotta aperta ad al Qaida. La conferenza è stata raccontata sul Wall Street Journal dall’ex consulente per la Sicurezza nazionale di Reagan, Robert Mc- Farlane. Gli incontri sono organizzati dal presidente della Foundation for relief and reconciliation in the middle east, il pastore Canon Andrew White. Il documento finale, che si apre con una ringraziamento ad Allah (“la pace sia sul Profeta, la sua famiglia e i suoi amici”), stabilisce incontri quindicinali fra i religiosi sunniti e sciiti, “la diffusione dello spirito di unità e fratellanza” e una serie di “fatwe contro la violenza”. Porta le firme degli sceicchi sunniti Ahmed al Kubasi, Fateh Kashif al Ghittah, Abdul Latif Humayeem e Mustapha al Jabory. “Secondo la nostra fede, uccidere esseri umani in nome di Dio è una dissacrazione delle leggi del Paradiso e diffama la religione, non solo in Iraq, ma in tutto il mondo”. Per gli americani era presente il cappellano militare Michael Hoyt, che ha parlato della “più vasta rappresentanza di gruppi religiosi in 37 anni”. Oltre al vicepresidente sunnita, Tariq al Hashemi, è coinvolto quel Consiglio degli Ulema che ha preso parte all’offensiva antiqaidista: “Il problema è iniziato quando hanno dato vita al cosiddetto ‘Stato islamico iracheno’” ha detto Kubaisi. “Al Qaida ha iniziato ad agire in modo violento e indiscriminato contro tutte le tribù che si sono rifiutate di giurare fedeltà a questo presunto stato. Si sono vendicati uccidendo molte persone delle province sunnite di al Anbar e Diyala. Il popolo iracheno non può giurare fedeltà a loro perché è un popolo libero”. Un pastore anglicano per Maliki Il merito di questa “contro fatwa”, come è stata definita dalla stampa anglosassone, va in gran parte all’ayatollah Sistani, il pacificatore che ha benedetto urne e costituzione e che quando l’imam terrorista Moqtada al Sadr lanciò l’insurrezione, proclamò l’inviolabilità dei luoghi santi. Sistani è stato il primo a offrire aiuto alla comunità yazida dilaniata due settimane fa da al Qaida (oltre 400 i morti). Il religioso ha chiesto al governo di Nouri al Maliki di estendere l’alleanza con gli sceicchi sunniti. “Dobbiamo dare a queste operazioni una dimensione nazionale per combattere al Qaida in nome dell’Iraq” ha detto un rappresentante a Karbala. Un ruolo decisivo lo ha avuto anche un pastore anglicano distrofico, pena da cui origina la sua stoica pazienza ecumenica. Canon Andrew White guidava gli anglicani durante il regime di Saddam, di cui ha sostenuto l’abbattimento nella primavera del 2003. Maliki lo ha scelto come consigliere per gli Affari interreligiosi nel febbraio scorso. White era già riuscito nell’impresa di portare negli Stati Uniti rappresentanti della comunità sunnita e sciita, facendoli incontrare con il reverendo evangelico Bill Graham. Il suo predecessore inviato della chiesa anglicana in medio oriente, Terry Waite, fu rapito e tenuto in ostaggio per cinque anni. Per questo White vive in un compound nella Zona verde di Baghdad. White è recentemente tornato a far parlare di se a causa del complotto dei medici iracheni in Inghilterra. Fu il religioso anglicano a lanciare l’allarme dopo un incontro con uno sceicco sunnita in Giordania: “Mi disse che la gente che ci curava ci avrebbe ucciso”. Di fronte alla chiesa di White a Baghdad, costruita nel 1936, c’è un memoriale dei soldati inglesi uccisi durante la Prima guerra mondiale e nel tentativo di sedare la rivolta degli ulema sciiti, i cui eredi oggi partecipano alle conferenze contro il terrorismo. White pensa a loro quando dice che “se se ne vanno le truppe, il sangue scorrerà nelle strade”. Per questo si è fatto protagonista di un “surge” religioso da affiancare a quello del generale Petraeus.

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