Il 14% degli alti funzionari di Washington indica in Israele «lo Stato che serve meno gli interessi degli Stati Uniti». preoccupante sondaggio su Foreign Policy
Testata: La Stampa Data: 24 agosto 2007 Pagina: 16 Autore: Francesca Paci - Maurizio Molinari Titolo: «Israele, vivere senza zio Sam? - “A Washington è tornato il pregiudizio antisemita»
Da La STAMPA del 24 agosto 2007, un articolo di Francesca Paci. Sostanzialmente corretto, anche se vi si definisce, molto impropriamente, "repressione della seconda intifada" la lotta di Israele al terrorismo, sottostima il fatto che la maggioranza degli analisti contattati da Foreign Policy per il suo sondaggio siano democratici e sovrastima la rivista, che è importante ma non è il "bimestrale del gotha geopolitico d’oltreoceano". Ecco il testo:
E se un giorno l’amico americano cambiasse idea? La più profonda paura israeliana non dipende dall’equilibrio politico della Cisgiordania, e neppure di Gaza. Gerusalemme non ha digerito i venti miliardi di dollari stanziati la settimana scorsa da Washington per rimodernare l’arsenale saudita. L’ultimo in ordine di tempo dei numerosi e non sempre ben riusciti «matrimoni di convenienza con il nemico», come qui definiscono l’alleanza tra Stati Uniti e mondo arabo. Ma finché si tratta di finanziamenti per «stabilizzare il Medio Oriente» passi. Ognuno, in fondo, riceve la sua parte. In questa stessa tornata Israele ha incassato trenta miliardi di dollari e il sostegno della Casa Bianca, l’endorsement necessario per continuare il percorso di pace con il presidente palestinese Abu Mazen. Se però la prestigiosa rivista americana «Foreign Policy» sostiene che Israele non è più un partner strategico per lo zio Sam il discorso cambia. Il terzo «terrorism index», il rapporto sui principali pericoli per la sicurezza nazionale pubblicato lunedì dal bimestrale del gotha geopolitico d’oltreoceano, mostra un radicale cambiamento di rotta rispetto a soli sei anni fa, quando all’indomani dell’11 settembre George W. Bush concesse mano libera al premier israeliano Ariel Sharon nella repressione della seconda intifada. Il fondamentalismo islamico e i suoi «derivati» allora, rappresentavano un fronte comune. In cima alle preoccupazioni di Washington ora c’è il Cremlino. Secondo il 34% degli analisti, la Russia di Putin ha raccolto l’eredità dell’Unione Sovietica, un ruolo minaccioso che nell’era post guerra fredda ne fa il miglior nemico della Casa Bianca. Non che il sole sia calato del tutto sulla Terra Santa, ma Israele, con il 14% dei voti, è finito in fondo alla lista degli interessi «mediorientali», preceduto dal Pakistan (22%) e dall’Arabia Saudita (17%). Gerusalemme non l’ha presa benissimo. Politici e ministri preferiscono non commentare. Una fonte interna agli ambienti diplomatici però, conferma la contrarietà: «Dobbiamo capire cosa sta succedendo. Fino a ieri la convinzione che gli Stati Uniti venissero indeboliti dall’alleanza con il nostro governo era limitata a singoli individui di estrema destra, come Pat Buchanan, o di estrema sinistra, come Noam Chomsky». Oggi non più. Non consola che la maggioranza degli esperti interpellati da «Foreign Policy» siano democratici: le idee forti si diffondono rapidamente. Il nuovo saggio «La lobby israeliana e la politica estera degli Usa» (Asterios editore) di John Mearsheimer e Stephen Walt, due studiosi delle università di Chicago e Harvard, rafforza la tesi di un rapporto in crisi e sta facendo il giro del mondo. E se le elite di Washington si convincessero che il nodo israelo-palestinese è la causa del terrorismo islamico e dell’antimericanismo globale? Il 51% degli analisti autori del «terroristic index» ritiene che la soluzione del conflitto in Terra Santa sia «molto importante» per sconfiggere «l’islamismo jihadista», il 54% boccia la chiusura ermetica dell’amministrazione Bush al dialogo con Hamas, il 67% giudica «molto improbabile» che le armi iraniane riescano a «cancellare Israele dalla mappa». Non è il sondaggio pubblicato dall’Unione Europea nel 2003, in cui Israele veniva descritto da oltre la metà degli intervistati come «la massima minaccia alla pace del mondo», ma da queste parti fa pensare. «Lo speciale rapporto che da quarant’anni ci lega agli americani sta cambiando», spiega Gidi Grinstein, ex consigliere del premier Ehud Barak e presidente del think tank Reut Institute. «Per tutto questo tempo abbiamo condiviso valori e interessi attraverso il lavoro della comunità ebraica d’oltreoceano. La difficile situazione irachena, l’emergente potenza nucleare iraniana, la guerra in Afghanistan, i nuovi attori del teatro mondiale, Russia, India, Cina, impegnano la Casa Bianca in molteplici sfide». Difficile che Israele mantenga a lungo il suo «status» privilegiato. E dopo? Grinstein sa d’infrangere tabù: «Dobbiamo aprirci ad altri rapporti, magari con Paesi con cui non abbiamo un passato di forte amicizia. E’ necessario prepararci alla possibilità che un giorno la nostra meravigliosa storia d’amore con gli Stati Uniti svanisca». Nell’attesa, i ragazzi di Tel Aviv e Gerusalemme esorcizzano la paura indossando la t-shirt con un aereo F16 israeliano e la scritta «America don’t worry, Israel is behind you», «America non ti preoccupare, Israele ti copre le spalle».
Di seguito, l'intervista di Maurizio Molinari a Meyrav Wurmser, direttore del centro di studi politici sul Medio Oriente all’Hudson Institute:
Sono scioccata dai numeri di questo sondaggio». Meyrav Wurmser, direttore del centro di studi politici sul Medio Oriente all’Hudson Institute, non cela la sorpresa di fronte all’indagine pubblicata da «Foreign Policy» secondo la quale il 14% degli alti funzionari di Washington indica in Israele «lo Stato che serve meno gli interessi degli Stati Uniti». Perché tanta sorpresa? «Israele è uno dei più solidi alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente dal 1948, è l’unica democrazia di questa regione ed è in prima linea nella lotta contro il terrorismo. Il fatto che 15 dei 108 alti funzionari intervistati abbiano ignorato tali fatti concreti per indicare invece in Israele uno degli Stati che “servono meno” all’America dimostra quali problemi alberghino dentro l’attuale amministrazione». Di che problemi si tratta? «Si tratta del filo-arabismo tradizionalmente presente al Dipartimento di Stato, come altrove, ed anche di un certo antisemitismo che non è mai scomparso del tutto e ogni tanto riaffiora quando trova come catalizzatori eventi simili alla recente pubblicazione del libro di John Mearsheimer e Stephen Walt sull’esistenza di una presunta potente lobby ebraica, che sarebbe capace di guidare l’intera politica estera della nazione». Quanto in alto arrivano tali pregiudizi nel governo federale? «Non molto in alto. Ciò che conta è che il presidente George W. Bush è un solido, sicuro, certo amico di Israele ed ha rafforzato la tradizionale alleanza, dopo gli eventi dell’11 settembre 2001. I pareri che il sondaggio fa trapelare vengono da funzionari di medio livello, diplomatici di carriera e altri simili personaggi, convinti dell’esistenza di un’oscura cospirazione ebraica ai danni dell’interesse nazionale americano. Si tratta di un fenomeno che non deve essere sottovalutato». Quale la risposta necessaria? «In primo luogo devono essere le comunità ebraiche americane e rispondere. Finora hanno tenuto un profilo troppo basso nei confronti di questo serpeggiante pregiudizio, ritenendolo una somma di episodi minori, ma il sondaggio di “Foreign Policy” dimostra il contrario: è giunto il momento che gli ebrei americani rispondano alle accuse antisemite. Il modo migliore per rispondere è denunciarli. Tacere serve solo a rafforzarli». Come giudica gli altri dati del sondaggio, ad esempio il 17% di alti funzionari che indica l’Arabia Saudita come lo Stato che «serve meno» gli interessi Usa? «Sono la cartina tornasole di quanto dicevamo prima su Israele. Come è possibile che la percentuale di simili opinioni sia così bassa? Non è questo lo Stato da cui è arrivata la maggioranza dei kamikaze dell’11 settembre e da cui continuano ad affluire aiuti a Hamas? Come è possibile che la differenza fra Arabia Saudita e Israele sia appena di tre punti percentuali e come è possibile che appena il 22% degli intervistati indichi il Pakistan, lo Stato dove si è potuta riorganizzare Al Qaeda? Tutti questi numeri così anomali, che non sono in sintonia con il presidente Bush nè con la maggioranza degli americani, testimoniano come nei ristretti circoli di politica estera di Washington si stiano affacciando vecchi pregiudizi antisemiti».
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