Ma per gli omosessuali Israele è ben diversa dall'Iraq due articoli accostati in modo da creare confusione
Testata: La Stampa Data: 23 agosto 2007 Pagina: 13 Autore: Francesca Paci - Barbara Schiavulli Titolo: «“Meglio islamici che omosex - "Se esco di casa mi ammazzano"»
La STAMPA del 23 agosto 2007 pubblica un articolo di Francesca Paci sull'omosessualità in Iraelee sull'intesa tra rabbini, imam e clero cristiano contro il Gay Pride di Gerusalemme. Ecco il testo:
La sede storica dell’associazione omosessuale Open House, al numero di 7 di Ben Yehuda, cinque minuti a piedi dalla città vecchia, è un appartamento di poche pretese nel palazzo-simbolo delle contraddizioni israeliane. Al primo piano un vecchio orologiaio con la kippà in testa e la stella di David al collo ignora il viavai «promiscuo» illudendosi di poter fermare il tempo o farlo camminare a ritroso; al secondo i militanti dell’Israeli Committee Against House Demolitions censiscono le case palestinesi «spazzate via dall’occupazione» e ricordano al Paese il sogno socialista delle origini; all’ultimo, un’attico superpopolare, le bandiere arcobaleno, gay, lesbiche, transgender e paladini della religione dell’amore nella capitale delle fedi in trincea. In Terra Santa non s’è mai vista un’intesa tra rabbini, imam e porporati cristiani come quella nata a giugno contro il Gay Pride di Gerusalemme. Petizioni, cassonetti bruciati, danni per 100 mila dollari, un attentato all’Open House: 7 giorni di fuoco culminati con l’arresto di un 35enne haredim, ultraortodosso, che voleva salire alla Spianata delle moschee per convertirsi all’islam, «ultimo baluardo contro la depravazione». Israele omofoba, Israele emancipata. Il mito che la considera la San Francisco mediorientale, esotismo indigeno e licenziosità cosmopolita, e una miniera d’oro per il ministero del Turismo che stima un potenziale di 20 mila visitatori «di genere» all’anno. L’avventura è sul confine tra senso di colpa biblico e slancio illuminista, Gerusalemme e Tel Aviv, un’attraversamento continuo di passato e futuro. «Siamo un Paese all’avanguardia sui diritti dei gay, ma gravato da una morale religiosa pesantissima», spiega Michal Hamel, direttore di Aguda, la più antica associazione di omosessuali con base a Tel Aviv. «Culturalmente occidentali e geograficamente Medioriente, riconosciamo le coppie di fatto e poi ci battiamo il petto». Dal suo ufficio al Muro del pianto ci sono meno di cento chilometri, un viaggio nel tempo più che nello spazio. Da una parte locali dove ogni venerdì, tra copie in marmo dei bronzi di Riace e drag queen con parrucche imperiali, si esibisce Dana International, la cantante trans che nel 1998 dedicò la vittoria al festival dell’Eurovisione alla sua patria, scandalizzando all’unisono sinagoghe, moschee e chiese. Dall’altra la capitale sede della Knesset, dove il leader della destra religiosa, Nissim Ze’ev, auspica «centri di riabilitazione per curare la sodomia». Nonostante i rabbini riformati hanno appena pubblicato a New York la seconda edizione delle regole talmudiche per i gay, a Gerusalemme fa scuola la sinagoga del saggio Dean Ramon, inamovibile nel ricordare che «la legge ebraica proibisce l’omosessualità». Lo shabbat o la sauna dei desideri? Per capire bisogna guardare l’esercito, suggerisce Hamel. Il leggendario Tzahal che arruola indistintamente uomini, donne, omosessuali. «Non esistono pregiudizi, gay e lesbiche servono in tutte le unità, l’intelligence come i reparti d’assalto, tutelati contro qualsiasi molestia», dice Shaha, 24 anni, le ciglia allungate con il mascara, ex artigliere: la Corte Suprema ha condannato il comandante che l’aveva prima approcciato e poi mobbizzato. La divisa è un simbolo macho, ma diventa inclusivo laddove il militare è vissuto come un diritto d'appartenenza nazionale più che un dovere. Il 73% degli israeliani è pronto ad accettare un figlio omosessuale, pur ammettendo la difficoltà. Conforta che «la cosa» capiti anche nelle migliori famiglie, come a casa Olmert, frequentata dalla fidanzata della primogenita del premier Dana. «Siamo un popolo d’immigrati, non abbiamo paura delle differenze», dice Matt Lebow, ebreo d’origine americana che assieme al compagno John Leonard ha creato il sito MideastPiece.com, dove far incontrare gay israeliani e palestinesi, oltre 100 mila iscritti dopo solo dieci settimane. L’eroe dei forum è Lawrence d’Arabia, «l’amante degli arabi», l’utopia contemporanea d’una via romantica alla pace che sfugge. Yussef non ci crede, «sarebbe già tanto poter presentare Amir ai miei genitori». 29 anni, architetto, arabo-israeliano e musulmano, è un veterano del Carpe Diem, uno dei più popolari lounge club gay di Tel Aviv, rum cooler a fiumi, arredo art decò, salottini privée. L’omosessualità, maschile e femminile, resta un tabù nella società araba, un reato punito con la pena di morte. Gli avvocati di Aguda seguono 25 casi di ragazzi palestinesi fuggiti al di qua del muro per amore: l’unica chance è farli accogliere come rifugiati politici in Israele. Yussef si nasconde come Amir, «peccatore» ripudiato dalla famiglia ebrea ortodossa. Quando si presentarono all’Open House l’orologiaio li indirizzò al secondo piano: più facile immaginarli militanti contro l’occupazione che innamorati.
L'articolo della Paci è affiancato da quello di Barbara Schiavulli sugli omosessuali in Iraq. In merito a quest'ultimo, si deve osservare che le violenze fondamentaliste contro gli omosessuali iracheni sono senza dubbio un grave problema che meriterebbe attenzione e impegno da parte del governo iracheno, della comunità internazionale e dell'opinione pubblica. E' però inacettabile sfruttare questo dramma, come fa la Schiavulli, per difendere la dittatura di Saddam, responsabile di efferati massacri, sostenendo che la si sarebbe dovuta lasciare al potere. Ecco il testo:
Ogni volta che qualcuno bussa alla porta, Nyaz, Hassan e Jaffar si guardano e pensano che sia giunta la loro ora. Ormai da sei mesi vivono insieme a casa di Wissam, in un quartiere di Baghdad. Anche se non riescono proprio a definirla vita. Si nascondono. Trascorrono le giornate ciondolando in due stanze aspettando che qualcosa succeda, la fine della guerra o l’arrivo del messia, perché solo così potrebbero vedere un futuro. Hanno paura ad uscire. Non possono più lavorare. La loro unica distrazione è Internet, ma viste le spie che affollano le chat che frequentano, hanno paura anche della rete. Nyaz, 28 anni, fino a poco tempo fa era una dentista, la sua famiglia aveva faticato molto per farle finire gli studi e sperava che facesse una brillante carriera. Hassan, 34 anni, è un attore, ha studiato all’accademia d’Arte di Baghdad e immaginava di recitare in tutti i teatri del mondo. Jaffar, appena 17enne, non ha ben chiaro cosa aspettarsi dalla vita, sa che quello che ha avuto finora non è stato molto. Questi tre ragazzi nascondono un segreto che un giorno li ucciderà. Sono omosessuali. Nyaz fa persino fatica a parlarne, è terrorizzata che qualcuno scopra la sua relazione con una donna, basterebbe il sospetto per essere condannata a morte. Ha smesso di vedere la sua compagna. È troppo pericoloso, è già stata minacciata diverse volte, e le milizie del Mahdi, l’esercito di Moqtada al Sadr, il radicale sciita, le avevano ordinato di sposarsi con un vecchio mullah. Ma al solo pensiero trasale. «Quando lavo i piatti, penso a come sarebbe semplice prendere un coltello e tagliarsi le vene. Non è forse quello che vogliono tutti? Per loro, per quello che è diventato il mio Paese oggi, sono un mostro, non degna di vivere, una donna senza religione, senza morale, senza diritti. Che io sia un medico, una persona per bene non conta nulla», dice Nyaz sfregandosi via le lacrime. Hassan le tiene la mano, lui sa cosa significa perdere una persona che si ama, il suo compagno è stato rapito all’uscita della palestra. Ha visto quelli del Mahdi che lo portavano via e per tre ore è rimasto accucciato in un angolo sperando che non si accorgessero di lui. Qualche giorno dopo il corpo del suo ragazzo è stato ritrovato alla camera mortuaria, era stato legato, torturato e sgozzato. In tasca un biglietto con la scritta «Sono gay». «A mio fratello, gli amici gli hanno detto che considerato il caos in cui viviamo, avrebbero potuto uccidermi senza che nessuno se ne accorgesse, e così lavare il disonore caduto sulla famiglia». A Jaffar piaceva tenere i capelli lunghi, mettere vestiti un po’ appariscenti, ma un giorno ad un posto di blocco la polizia lo ha fermato. «Mi hanno trascinato fuori, mi hanno picchiato e violentato con un manganello. Speravo solo di non morire. Mi sono sentito così umiliato». Abbandonato in mezzo la strada, sanguinante e ferito, nessuno lo ha soccorso. La comunità gay, come tutte le minoranze in Iraq, sono nel mirino degli integralisti. Il Grande Ayatollah al Sistani, massima autorità sciita, punto di riferimento di americani e inglesi per la stabilità del Paese, nell’ottobre 2005 ha emesso una Fatwa che diceva che gli omosessuali andavano uccisi. Le proteste internazionali hanno costretto a rimuovere l’editto da Internet, ma l’esercito del Mahdi e quello del Badr, che fa capo allo Sciri, il partito sciita più importante, l’hanno preso alla lettera. Gli omosessuali non si fidano della polizia, infiltrata di militanti, e spesso neanche della famiglia, travolta dalla vergogna di un figlio «diverso». Le organizzazioni umanitarie confermano un aumento sconvolgente di agguati della polizia contro gli omosessuali. L’Onu ha sfornato un rapporto in cui si parla di corti religiose che sentenziano a morte i gay. «Nessuno si occupa di questi ragazzi - spiega Wissam, 40 anni, che dirige la casa in cui si sono rifugiati Nyaz, Hassan e Jaffar. - Molti vorrebbero un passaporto ma al mercato nero costa circa 15 mila dollari. Il governo non se ne occupa, per loro la violenza è solo interreligiosa». Wijdan Michael, la ministra per i diritti umani, sostiene di non aver ricevuto alcuna denuncia: «Temo che l’Onu stia ingigantendo il problema, tutti gli iracheni vengono attaccati, non perché gay ma per la loro appartenenza settaria». Wissam scuote la testa: «Purtroppo non è così, gli attacchi non sono solo religiosi, ma anche verso le donne che non portano il velo, quelle che vogliono lavorare, contro chi indossa pantaloncini o ama lo sport, contro chiunque non si pieghi al radicalismo islamico». I compagni di Wissam annuiscono. «Quando gli americani arrivarono ero felice - dice Hassan - Saddam non mi piaceva, ma con il tiranno eravamo tollerati, potevamo avere una vita sociale, c’erano locali per noi, bastava che fossimo discreti. L’America purtroppo non riesce ancora a capire cosa ha fatto a questo Paese. Hanno lasciato che i fanatici religiosi andassero al potere. Ora siamo liberi, certo: liberi di vivere nascosti, di fuggire all’estero per salvarci o liberi di morire per il crimine di essere gay».
Un'altra scorrettezza risiede nel modo in cui i due articoli sono accostati (cliccare sull'immagine in alto a sinistra per vedere titoli e impaginazione). Il titolo di quello dedicato a Israele è “Meglio islamici che omosex”, di quello sull'Iraq “Se esco di casa mi ammazzano”. I due pezzi si dividono esattamente lo spazio della pagina dedicata, come informa una fascetta blu in alto a sinistra, al tema "Essere gay in Medio Oriente". Sembra dunque che le situazioni nei due paesi siano paragonabili. In realtà, in Iraq gli omosessuali vengono uccisi e non sono protetti dalle forze di polizia. In Israele, sono condannati dai gruppi religiosi e discriminati al loro interno (ma non tutte le sinagoghe israeliane sono come quelle descritte nell'articolo unilaterale di Pace), ma sono eguali agli altri cittadini di fronte alla legge.
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