Dal FOGLIO del 22 agosto 2007:
Roma. La fossa comune numero 241. L’ultima scoperta della High Committee on Mass Graves, incaricata di setacciare il sottosuolo iracheno in cerca dei resti delle vittime del regime. La numero 241 contiene le spoglie di 150 fra donne e bambini, solo donne e bambini, molti infanti. E’ stata rinvenuta ieri ad Amara, nel sud del’Iraq. Saddam Hussein aveva dato ordine di uccidere i capi famiglia curdi dopo la ribellione. I camion della Guardia repubblicana arrivarono di notte nei villaggi del nord, presero ciò che restava, vedove e bambini, li portarono a sud. Ne fucilarono sei alla volta. La scoperta arriva mentre a Baghdad il blindatissimo tribunale incaricato di giudicare gli aguzzini ha aperto il processo al cugino di Saddam, Ali Hassan al Majid, detto anche “Alì il Chimico”. Dopo quello contro l’ex dittatore, impiccato nell’inverno scorso, si tratta del principale procedimento giudiziario contro un esponente del baathismo iracheno. Majid è responsabile del massacro degli sciiti nel 1991. Circa 100 mila persone furono uccise in pochi giorni. Il 24 giugno scorso il cugino di Saddam era stato già condannato alla pena capitale per il massacro di 182 mila curdi nel 1988, interi villaggi rasi al suolo, abitanti inceneriti con i lanciafiamme e sterminati con l’iprite. Un verdetto per il quale ha presentato appello. Se il ricorso sarà respinto, cadranno le altre accuse e sarà giustiziato entro un mese.
Secondo l’organizzazione americana Human Rights Watch, Majid è responsabile della scomparsa di 100 mila civili nelle regioni curde e sciite. Gran parte del merito nel ritrovamento delle fosse comuni si deve ai testimoni degli eccidi, hanno fatto strada alle pattuglie di marines, indicando dove scavare. Nel 1980, sotto la regia stragista di Alì, fu messo a morte il leader sciita Muhammad Baqer al Sadr, il padre di Moqtada, assieme alla sorella. L’esecuzione fu accompagnata dall’espulsione di decine di migliaia di iraniani e arabi. Nove anni prima, il regime ne aveva espulsi 75.000, inclusi gli ayatollah da Najaf e Karbala. Alcuni tra gli esiliati andarono in Libano, Giordania, Siria e negli Emirati, dove presero il nome di “ajami”, persiani. Alcuni di loro sono tornati a Baghdad per testimoniare al grande processo del carnefice. Di “giorno felice” parla al Foglio l’iracheno Kanan Makiya, il dissidente esule negli Stati Uniti che ha scoperto i “testi sacri” dei massacri di Saddam.
“Seppelliremo i cadaveri con i bulldozer”
Il Tribunale speciale, composto da soli cittadini iracheni in osservanza dell’articolo 17 dello statuto di Roma della Corte penale internazionale, ha messo quindici gerarchi alla sbarra e in diretta mondiale. Alì dovrà rispondere della morte di Mustafa Jawad. Il padre lo ha sepolto il 7 maggio 2003 a Tanuma, povera zona periferica a est di Bassora. La bara, però, era vuota. Di Mustafa, i suoi familiari non seppero nulla per quattro anni. I ricercatori di Human Rights Watch a Bassora entrarono in possesso di quattro pagine nell’aprile 2003. C’era il nome di Mustafa fra le persone uccise. Era una lista delle esecuzioni ordinate da Majid. “25 marzo 1999: 33 uomini giustiziati. 18 aprile 1999: 31 uomini giustiziati. 19 aprile 1999: 28 uomini giustiziati. 8 maggio 1999: 28 uomini giustiziati”. Fu soprannominata la “Lista delle esecuzioni di Bassora”. Una registrazione resa nota da Human Rights Watch rivela il commento di Al Majid: “Li ucciderò tutti. Chi dirà qualcosa? La Comunità internazionale? Si fotta”.
Durante la prima guerra del Golfo, Majid era il governatore del Kuwait occupato. Si ritirò lasciando una scia di decine di migliaia di morti tra gli sciiti iracheni del sud. Il generale Giovanni Arpino, che comandava il corpo di spedizione italiano in Iraq, ha raccontato la scoperta delle trincee in cui Majid aveva fatto seppellire con la sabbia i propri soldati sciiti sospetti di voler disertare. Poi ci furono quei trenta cadaveri sepolti in giardino. Li rinvenne la polizia irachena in una villa che ha ospitato Majid. I corpi seppelliti tra le piante erano i resti di prigionieri usati dal generale come vittime di un sadico “tiro al bersaglio”. Gli invitati al “party” sparavano ai detenuti sciiti legati a strutture metalliche in giardino. Le foto della fossa comune fanno parte delle prove a carico di Alì. In aula saranno presentate alla Corte le registrazioni in cui Alì minacciava le vittime: “Li taglieremo come cocomeri”. Quindi le riunioni del partito Baath, in cui Alì dice che saranno così tanti gli sciiti a morire che le truppe dovranno “seppellire i cadaveri con i bulldozer”. Lo chiamavano anche “il Saccheggiatore”. A lui si deve quel nome dal suono leggendario, “Anfal”, che nelle carte burocratiche del regime indica la campagna di annientamento dei curdi. La parola è usata nel Corano per indicare il “bottino” di guerra.
Quando Majid venne catturato dagli americani, nei quartieri sciiti di Baghdad si levarono canti di giubilo come questo: “Ha vissuto per trent’anni nella ricchezza che ha rubato a tutti noi, ma alla fine è stato costretto a nascondersi sotto terra nella paura, come un ratto, Allah Akbar”. Qassim Al Breesam, che ha visto giustiziare quattro suoi familiari, si salvò per miracolo alla tortura di Majid. Trascorse tre anni nella prigione al Radhwaniya di Baghdad e porta i segni di quelle torture fisiche e psicologiche. “Alì chiese chi aveva preso parte alla rivolta. C’erano dei bambini e una donna con l’hijab. Il bambino disse: ‘E’ stata Zainab’. Alì gli chiese se fosse lei. Lui rispose: ‘Tirava granate contro i tanks’. Zainab negò. Alì disse: ‘Vai dalla tua famiglia’. Poi le sparò due volte alla schiena. Uccise anche il bambino”. La testimonianza di Breesam, raccolta dall’Iraq Memory Foundation dal dissidente iracheno Kanan Makiya, è stata decisiva nel processo ad Alì il Chimico. Come scrittore e custode della tragedia dell’Iraq, Makiya ha dedicato la sua vita alla memoria del milione e mezzo di vittime di Saddam. In questa veste ha contribuito alla stesura della nuova Costituzione varata nel 2005. Suo padre, il più grande architetto iracheno, era “persona non grata” al regime. Nel 1989 Makiya scrisse “Republic of Fear”, storico atto d’accusa contro Saddam, scritto sotto pseudonimo per timore della polizia segreta del Baath. Dopo l’invasione del 2003, Makiya ha presentato al Congresso la Fondazione della Memoria, il museo delle atrocità commesse tra il 1968 e il 2003 sull’esempio di quello dell’Olocausto. Nel 1992 produsse un documentario, “Saddam’s Killing Fields”, in cui documentava lo sterminio curdo. Oggi Makiya vive fra Baghdad, Londra e il Massachusetts.
“Il Baath coltivò una cultura della paura”
All’inizio degli anni Novanta, nel suo libro “Cruelty and silence”, Makiya attaccò gli intellettuali arabi che restarono in silenzio di fronte al genocidio di curdi e sciiti. In questi giorni, con Alì il Chimico giudicato da una legittima corte di giustizia del popolo sovrano, quel silenzio è calato sui crimini per i quali il signor Majid sarà probabilmente condannato alla forca. “La liberazione dell’Iraq è stata una grande conquista degli Stati Uniti. Ma il mondo arabo capisce che il successo iracheno avrebbe grandi implicazioni anche su di sé. Il silenzio con cui negli anni Ottanta e Novanta il mondo arabo reagì ai massacri di Saddam Hussein, si ripresenta oggi quando si parla di quei crimini sotto processo. O meglio, non se ne parla. Ho più volte detto che la leadership irachena ha condotto il processo a Saddam in modo settario, finendo per rafforzare i sospetti sunniti sulla guida del nuovo Iraq. Il sistema era totalitario, tutti erano vittime di Saddam, il Baath coltivò una cultura della paura. Fu un errore impiccarlo così velocemente, lasciando inevase le domande di giustizia di molti iracheni”. Makiya è uno, come dice di se stesso, che accende “candele nelle tenebre”. “Serviranno generazioni per capire quanto è successo sotto Saddam, è come per l’Olocausto. E’ stato un trauma di proporzioni gigantesche. Io sono contrario alla pena di morte, ma la maggioranza degli iracheni la vuole per i carnefici. Nonostante gli errori di questi processi, quando un massacratore come Majid viene giudicato, io dico che questo è un giorno di giustizia”.
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