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La Stampa Rassegna Stampa
22.08.2007 I consigli di Yehoshua a Blair, il processo per Abu Ghraib e persino i rinforzi in Iraq, che funzionano
tutto viene confuso nel calderone anti- Bush

Testata: La Stampa
Data: 22 agosto 2007
Pagina: 1
Autore: Avraham B. Yehoshua - Maurizio Molinari - Loretta Napoleoni
Titolo: «Iraq, i sensi di colpa di Blair - “In Iraq va meglio” Hillary è con Bush - L’ultima vergogna di Abu Ghraib»
La STAMPA del 21 agosto 2007 pubblica un articolo con i consigli dello scrittore israeliano Avraham B. Yehoshua all'inviato del Quartetto in Medio Oriente.
Ecco il testo:


In questi giorni mi trovo in vacanza in Inghilterra e sono rimasto sorpreso di sentire alcuni intellettuali esprimere insoddisfazione per l’operato dell’ex primo ministro Tony Blair. A chi vedeva le cose dall’esterno questo giovane leader, sorridente e dinamico, dava l’impressione di essere amato da tutti. Ma a quanto pare la sua decisione di coinvolgere la Gran Bretagna nella guerra in Iraq ottenendo l’appoggio del Parlamento grazie a informazioni errate e fuorvianti ha suscitato viva disapprovazione nell’opinione pubblica. Nonostante l’impegno dell’esercito britannico nel conflitto iracheno sia assai limitato e il numero dei caduti relativamente basso, gli inglesi non lo perdonano. Questo è probabilmente il motivo per cui Blair, per non danneggiare il partito laburista alle prossime elezioni, ha presentato le dimissioni da capo del governo prima della scadenza del suo mandato.
E forse è stato il senso di colpa che prova nei confronti della questione irachena a portarlo a proporsi come mediatore - o inviato speciale - per il Medio Oriente: un compito particolarmente ingrato.

Nel corso degli ultimi quarant’anni molti mediatori si sono succeduti con ben pochi risultati. Cos’ha spinto un uomo come Blair a incaricarsi di un compito dal quale non trarrà prestigio ma soprattutto delusioni? Ho avuto modo di sentirlo dire che lui vede il conflitto israelo-palestinese come uno dei motivi alla base del profondo astio del mondo arabo verso l’Occidente, e non posso che concordare. Sembra strano che un conflitto di proporzioni limitate, sia da un punto di vista territoriale che demografico, susciti tanto odio e tanta rabbia, per lo più irrazionali. Già nel secolo scorso abbiamo visto però come un odio irrazionale e una rabbia immotivata diretta verso gli ebrei abbiano portato popoli di grandi tradizioni culturali, quali quello russo o tedesco, a perdere la ragione. E se Blair vede nello scontro tra palestinesi e israeliani una delle ragioni dell’odio velenoso di arabi e musulmani per l’Occidente, e soprattutto per la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, e chiede di occuparsi personalmente della questione io, da parte mia, voglio congratularmi con lui e augurargli buona fortuna.
Ma se l’ex capo del governo britannico non si accontenterà di creare soltanto un’atmosfera di pace e distensione, o di ottenere qualche piccola agevolazione economica per i palestinesi che pur non ponendo fine all’occupazione israeliana farà comunque sì che riconoscano la legittimità di Israele, se aspira a una svolta vera e drammatica che porterà alla creazione di due stati uno a fianco all’altro - come l'intero mondo vuole e auspica -, allora, con tutta la modestia di un vecchio israeliano che ha vissuto questo conflitto fin dal giorno della sua nascita, mi permetterò di dare al giovane ma esperto Blair alcuni consigli che potrebbero tornargli utili...
Innanzi tutto Blair farebbe bene a rilasciare una dichiarazione nella quale esprime appoggio incondizionato per la posizione della Lega araba a favore di una pace tra Israele e il mondo arabo. Quale esperto di questo conflitto ritengo questa presa di posizione un’iniziativa giusta, coraggiosa e innovativa.
In secondo luogo dovrebbe investire la maggior parte dei suoi sforzi diplomatici per avviare un processo di pace tra Siria e Israele, e tentare di convincere l’opinione pubblica internazionale dell’importanza di tale accordo. Lo dico apertamente: non credo che una vera pace tra israeliani e palestinesi sia possibile se non si raggiungerà prima un accordo di massima con la Siria, le cui condizioni sono peraltro note: restituzione e smilitarizzazione delle alture del Golan, presenza di una forza internazionale di interposizione e una normalizzazione dei rapporti diplomatici ed economici. L’evacuazione dei trentamila israeliani residenti sulle alture del Golan non sarà cosa facile, ma possibile. A differenza dei coloni di Giudea e Samaria gli abitanti del Golan non si sono stabiliti lassù per motivi ideologici e se in base all’accordo con la Siria alcuni di loro potranno rimanere nelle proprie case - naturalmente sotto dominio siriano - per favorire lo sviluppo turistico della regione grazie a progetti comuni ai governi di entrambi i paesi, non c’è dubbio che l’evacuazione potrà essere meno dolorosa. Anche un referendum indetto in Israele che avalli la restituzione della regione potrebbe convincere i residenti del Golan a non mostrare un'opposizione troppo strenua allo sgombero delle loro case. Il confine tra Israele e la Siria è ben definito, la Siria è una nazione laica con un regime relativamente stabile e finora tutti gli accordi parziali firmati da essa con Israele sono stati rispettati.
Un accordo di pace con Damasco limiterebbe l’operato di Hamas nella striscia di Gaza e di Hezbollah lungo il confine con il Libano, rimuoverebbe la minaccia di un’alleanza tra siriani e iraniani e gioverebbe enormemente all’intero insieme dei rapporti tra il mondo occidentale e quello arabo. Ma soprattutto influirebbe favorevolmente sulla flessibilità dei palestinesi e sulla fiducia degli israeliani in un futuro negoziato.
Quando i palestinesi vedranno che tre delle nazioni arabe confinanti con Israele mantengono rapporti di pace con il governo di Gerusalemme dovranno finalmente rinunciare alla pretesa che preclude loro ogni possibilità di un accordo con lo stato ebraico: il ritorno dei profughi palestinesi del 1948 entro i confini di Israele. La pace con la Siria li costringerà a rinunciare a questo sogno irrealizzabile. D’altro canto Israele potrà mostrarsi meno sospettoso e più sicuro che le misure di sicurezza adottate lungo il confine siriano siano in grado di prevenire infiltrazioni di elementi terroristici, esponenti di Hezbollah, o dell’Iran.
Ho già avuto modo di dire in passato che il conflitto tra israeliani e palestinesi è unico nel panorama della storia mondiale, diverso da ogni altro scontro di carattere nazionale in quanto molti palestinesi - e di certo i sostenitori di Hamas - ancora non riconoscono la legittimità di una presenza ebraica in Medio Oriente. E a questo punto ogni tentativo di risolvere il problema senza un accordo di pace tra Israele e tre degli stati confinanti con esso - Giordania, Egitto e Siria - è destinato a fallire. Dunque Blair, grazie anche a una forte pressione degli europei, deve convincere gli americani a mostrare una maggiore apertura verso la Siria. Se infatti intende giocare un ruolo di secondo piano nella partita condotta dagli americani farebbe forse meglio a rinunciare alla sua missione e a cercarsi un compito più facile.

In prima pagina, l'articolo è intitolato "Iraq, i sensi di colpa di Blair". Il riferimento è a un tema che nel testo è marginale.
Sempre in prima pagina, all'interno del testo di Yehoshua si legge il seguente richiamo "Vergogna Abu Ghraib Per le torture del carcere non pagherà nessuno Molinari e Napoleoni alle pagine 8 e 9"
L'articolo di Molinari non riguarda Abu Ghraib, ma le dichiarazioni di Hilary Clinton sul successo della politica di rinforzi in Iraq.
L'articolo di Loretta Napoleoni assume, senza provarlo, che i vertici del Pentagono sapessero degli abusi ad Abu Ghraib e di conseguenza lamenta la loro impunità.

Gli articoli sono presentati dunque in modo tale da servire a una campagna di stampa contro la politca americana in Iraq.
Compreso quello, corretto e che fornisce dati che vanno in tutt'altra direzione, di Molinari.

Ecco l'articolo di Molinari:

In questi giorni mi trovo in vacanza in Inghilterra e sono rimasto sorpreso di sentire alcuni intellettuali esprimere insoddisfazione per l’operato dell’ex primo ministro Tony Blair. A chi vedeva le cose dall’esterno questo giovane leader, sorridente e dinamico, dava l’impressione di essere amato da tutti. Ma a quanto pare la sua decisione di coinvolgere la Gran Bretagna nella guerra in Iraq ottenendo l’appoggio del Parlamento grazie a informazioni errate e fuorvianti ha suscitato viva disapprovazione nell’opinione pubblica. Nonostante l’impegno dell’esercito britannico nel conflitto iracheno sia assai limitato e il numero dei caduti relativamente basso, gli inglesi non lo perdonano. Questo è probabilmente il motivo per cui Blair, per non danneggiare il partito laburista alle prossime elezioni, ha presentato le dimissioni da capo del governo prima della scadenza del suo mandato.
E forse è stato il senso di colpa che prova nei confronti della questione irachena a portarlo a proporsi come mediatore - o inviato speciale - per il Medio Oriente: un compito particolarmente ingrato.

Nel corso degli ultimi quarant’anni molti mediatori si sono succeduti con ben pochi risultati. Cos’ha spinto un uomo come Blair a incaricarsi di un compito dal quale non trarrà prestigio ma soprattutto delusioni? Ho avuto modo di sentirlo dire che lui vede il conflitto israelo-palestinese come uno dei motivi alla base del profondo astio del mondo arabo verso l’Occidente, e non posso che concordare. Sembra strano che un conflitto di proporzioni limitate, sia da un punto di vista territoriale che demografico, susciti tanto odio e tanta rabbia, per lo più irrazionali. Già nel secolo scorso abbiamo visto però come un odio irrazionale e una rabbia immotivata diretta verso gli ebrei abbiano portato popoli di grandi tradizioni culturali, quali quello russo o tedesco, a perdere la ragione. E se Blair vede nello scontro tra palestinesi e israeliani una delle ragioni dell’odio velenoso di arabi e musulmani per l’Occidente, e soprattutto per la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, e chiede di occuparsi personalmente della questione io, da parte mia, voglio congratularmi con lui e augurargli buona fortuna.
Ma se l’ex capo del governo britannico non si accontenterà di creare soltanto un’atmosfera di pace e distensione, o di ottenere qualche piccola agevolazione economica per i palestinesi che pur non ponendo fine all’occupazione israeliana farà comunque sì che riconoscano la legittimità di Israele, se aspira a una svolta vera e drammatica che porterà alla creazione di due stati uno a fianco all’altro - come l'intero mondo vuole e auspica -, allora, con tutta la modestia di un vecchio israeliano che ha vissuto questo conflitto fin dal giorno della sua nascita, mi permetterò di dare al giovane ma esperto Blair alcuni consigli che potrebbero tornargli utili...
Innanzi tutto Blair farebbe bene a rilasciare una dichiarazione nella quale esprime appoggio incondizionato per la posizione della Lega araba a favore di una pace tra Israele e il mondo arabo. Quale esperto di questo conflitto ritengo questa presa di posizione un’iniziativa giusta, coraggiosa e innovativa.
In secondo luogo dovrebbe investire la maggior parte dei suoi sforzi diplomatici per avviare un processo di pace tra Siria e Israele, e tentare di convincere l’opinione pubblica internazionale dell’importanza di tale accordo. Lo dico apertamente: non credo che una vera pace tra israeliani e palestinesi sia possibile se non si raggiungerà prima un accordo di massima con la Siria, le cui condizioni sono peraltro note: restituzione e smilitarizzazione delle alture del Golan, presenza di una forza internazionale di interposizione e una normalizzazione dei rapporti diplomatici ed economici. L’evacuazione dei trentamila israeliani residenti sulle alture del Golan non sarà cosa facile, ma possibile. A differenza dei coloni di Giudea e Samaria gli abitanti del Golan non si sono stabiliti lassù per motivi ideologici e se in base all’accordo con la Siria alcuni di loro potranno rimanere nelle proprie case - naturalmente sotto dominio siriano - per favorire lo sviluppo turistico della regione grazie a progetti comuni ai governi di entrambi i paesi, non c’è dubbio che l’evacuazione potrà essere meno dolorosa. Anche un referendum indetto in Israele che avalli la restituzione della regione potrebbe convincere i residenti del Golan a non mostrare un'opposizione troppo strenua allo sgombero delle loro case. Il confine tra Israele e la Siria è ben definito, la Siria è una nazione laica con un regime relativamente stabile e finora tutti gli accordi parziali firmati da essa con Israele sono stati rispettati.
Un accordo di pace con Damasco limiterebbe l’operato di Hamas nella striscia di Gaza e di Hezbollah lungo il confine con il Libano, rimuoverebbe la minaccia di un’alleanza tra siriani e iraniani e gioverebbe enormemente all’intero insieme dei rapporti tra il mondo occidentale e quello arabo. Ma soprattutto influirebbe favorevolmente sulla flessibilità dei palestinesi e sulla fiducia degli israeliani in un futuro negoziato.
Quando i palestinesi vedranno che tre delle nazioni arabe confinanti con Israele mantengono rapporti di pace con il governo di Gerusalemme dovranno finalmente rinunciare alla pretesa che preclude loro ogni possibilità di un accordo con lo stato ebraico: il ritorno dei profughi palestinesi del 1948 entro i confini di Israele. La pace con la Siria li costringerà a rinunciare a questo sogno irrealizzabile. D’altro canto Israele potrà mostrarsi meno sospettoso e più sicuro che le misure di sicurezza adottate lungo il confine siriano siano in grado di prevenire infiltrazioni di elementi terroristici, esponenti di Hezbollah, o dell’Iran.
Ho già avuto modo di dire in passato che il conflitto tra israeliani e palestinesi è unico nel panorama della storia mondiale, diverso da ogni altro scontro di carattere nazionale in quanto molti palestinesi - e di certo i sostenitori di Hamas - ancora non riconoscono la legittimità di una presenza ebraica in Medio Oriente. E a questo punto ogni tentativo di risolvere il problema senza un accordo di pace tra Israele e tre degli stati confinanti con esso - Giordania, Egitto e Siria - è destinato a fallire. Dunque Blair, grazie anche a una forte pressione degli europei, deve convincere gli americani a mostrare una maggiore apertura verso la Siria. Se infatti intende giocare un ruolo di secondo piano nella partita condotta dagli americani farebbe forse meglio a rinunciare alla sua missione e a cercarsi un compito più facile.

E quello di Napoleoni:

«Sono un capro espiatorio, non sapevo nulla delle sevizie di Abu Ghraib», pare abbia detto il colonnello Steven Jordan, ex responsabile del centro degli interrogatori della prigione, prima di presentarsi alla corte marziale che a Fort Mead, nel Maryland, lo ha messo sotto processo per le atrocità commesse contro i prigionieri nell’autunno del 2003. «Mente», sostiene Joe, un veterano della guerra in Iraq dimesso lo scorso anno a causa delle gravi ferite riportate in uno scontro a fuoco a Baghdad. Joe, che vive nel Montana nord occidentale, lo stato con la più alta percentuale di soldati al fronte, si trovava in Iraq durante i fattacci di Abu Ghraib. «Correvano voci strane su quella prigione, chi ci era stato la descriveva come una postazione del Far West, un postaccio dove regnava l’anarchia. E’ impossibile che i capi non se ne fossero accorti».
In un’intervista al New Yorker pubblicata questa settimana, il generale Antonio M. Taguba, autore del rapporto delle forze armate americane sui Abu Ghraib, racconta che nel gennaio del 2004, dopo aver impiegato settimane a localizzare Steven Jordan in Iraq, ricevette una e-mail nella quale il colonnello gli domandava se doveva rasarsi prima di essere intervistato. Taguba sospetta che contro il regolamento militare Jordan indossasse vestiti civili e si muovesse a suo piacimento nel sottobosco dell’anarchia di Abu Ghraib.
Accusato di aver assistito a torture e sevizie contro i prigionieri, Jordan è il dodicesimo militare a presentarsi alla corte marziale per gli abusi di Abu Ghraib, e quello con il grado più alto. Tra il maggio 2004 e il settembre 2005 sette militari americani sono stati incriminati per le torture a Abu Ghraib, condannati a pene di reclusione e radiati dall’esercito. La direttrice della prigione, l’ex generale Janis Karpinski, ha evitato la giustizia militare grazie alla riduzione di grado a colonnello. Steven Jordan rischiava fino a 16 anni di carcere per falsa testimonianza, ma grazie ad un vizio di forma (il generale Taguba è stato accusato di non avergli letto i suoi diritti prima dell’interrogatorio) adesso ne rischia solo 8. Nessun militare è stato processato fuori dalle corti marziali perché prima che la guerra iniziasse il presidente. Bush firmò un documento che garantiva alle forze armate l’immunità dai reati in Iraq.
Ma si tratta sempre e solo di pesci piccoli, sostiene Joe, i veri responsabili bisognerebbe cercarli al Pentagono ed alla Casa Bianca. Tre tentativi di processare Donald Rumsfeld, l’ex segretario alla Difesa, da parte delle vittime di Abu Ghraib, due in Germania ed uno negli Usa, sono falliti. «Nell’autunno del 2003 la pressione dall’alto era incredibile», racconta Joe, «la guerra era tecnicamente finita ma si continuava a combattere senza sosta. Noi soldati eravamo terrorizzati ma ancora più impauriti erano gli ufficiali che dovevano spiegare a gente come Rumsfeld, perché non avevamo ancora schiacciato l’insurrezione». Il generale Taguba sembra d’accordo, ha ammesso al New Yorker che i vertici del Pentagono sapevano cosa succedeva in Iraq.
A tutt’oggi Rumsfeld nega di essere stato a conoscenza delle sevizie di Abu Ghraib prima che le disgustose immagini facessero il giro del mondo. Se è vero allora bisogna chiedersi chi è responsabile della macchina militare americana, possibile che un gruppetto di giovani ed ignoranti soldati semplici con tendenze sadiche abbia terrorizzato la popolazione della più grande prigione di Baghdad sotto il naso dei superiori? Taguba non ci ha mai creduto. Dal suo rapporto emerge che i militari furono investiti di poteri che esulavano dal loro campo. Soldati semplici si trovarono a condurre interrogatori che spettavano all’intelligence. Le loro azioni erano dirette dai superiori che rispondevano a ordini precisi del Pentagono, su questo Taguba non ha dubbi.
A tre anni dallo scandalo, l’America è stanca di una guerra sporca che miete troppe vittime. Ancora più stanca è delle menzogne. «Nessuno sa veramente cosa sta succedendo in Iraq», dice Joe fermandosi davanti al murales delle vittime della guerra all’ingresso di Wal-Mart di Kalispell. «Il Pentagono imbocca la stampa ed i veterani che tornano a casa sono troppo traumatizzati per contraddirlo, vogliono solo dimenticare». Il quasi silenzio stampa sul processo al colonnello Jordan sembra un presagio funesto dell’oblio di Abu Ghraib.

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