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Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.08.2007 La "via crucis" della Svizzera, vittima dei soliti ebrei
per i quali Sergio Romano nutre una vera ossessione

Testata: Corriere della Sera
Data: 20 agosto 2007
Pagina: 33
Autore: Sergio Romano
Titolo: «Processo alla Svizzera»

Tra le vittime della "lobby ebraica" Sergio Romano, in un articolo pubblicato dal CORRIERE della SERA del 20 agosto 2007, annovera anche la Svizzera, sottoposta negli anni 90 a "una sorta di via crucis" per la sua condotta durante la seconda guerra mondiale.

La mancata restituzione del denaro depositato nelle banche svizzere dagli ebrei perseguitati, il limite posto all'immigrazione ebraica, le forniture d'armi al Reich: nulla di tutto questo, secondo Romano, giustifica il biasimo del quale la Confederazione elevetica è stata oggetto.

Nell'articolo, che è la recensione del libro di  Jean-Jacques Langendorf, «Neutrale contro tutti. La Svizzera nelle guerre del ‘900», questa posizione non viene argomentata, ma sembra derivare sostanzialmente dall'antipatia di Romano per gli accusatori
("il Congresso mondiale ebraico, presieduto allora da Edgar M. Bronfman, magnate canadese degli alcolici e generoso finanziatore di Bill Clinton nelle elezioni presidenziali di pochi anni prima(...) Alphonse D'Amato, senatore dello Stato di New York, uno dei più tenaci paladini degli interessi israeliani nel Congresso degli Stati Uniti (...)  molti svizzeri e parecchi membri dell'intellighenzia nazionale, fra cui il più chiassoso fu un sociologo molto impegnato, Jean Ziegler. Molti di essi erano stati comunisti, terzomondisti, filocinesi o filocubani"),da un malinteso senso di equità (" i censori hanno dimenticato di rilevare che il numero dei rifugiati ebrei accolti dalla Svizzera e dagli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale fu lo stesso: circa 21.000. Quale fra i due Paesi era stato più generoso?" si chiede per esempio Romano: nessuno dei due, ci sembra di poter rispondere), dalla convinzione che non si possano giudicare le scelte dei nostri predecessori che sono vissuti in condizioni drammatiche e da una certa simpatia per il modello elvetico.

Nessuno di questi motivi regge a una considerazione spassionata delle questioni morali in gioco.
Nessuno può  seriamente  sostenere che intascare i depositi degli ebrei morti ad Auschwitz sia stato per le banche svizzere un atto dettatto dalla necessità. E comunque, ci sono comportamenti che non sono giustificati nemmeno dalla necessità. Aiutare Hitler per garantire la propria neutralità, per esempio. Chi lo nega non sta esercitando una forma di meritoria pietas dei "figli" nei confronti dei "padri". Molto più probabilmente sta rifiutando di giudicare i padri per non essere costretto a giudicare i figli che stanno facendo qualcosa di analogo  (per esempio: affari con Ahmadinejad)
La notoria diffidenza di Romano per gli ebrei e le istituzioni ebraiche è un suo problema personale, che non può influire sul giudizio delle persone sensate ( ci sarebbe però da domandarsi quanto a lungo  questa ossessione troverà  spazio sulle pagine del primo quotidiano italiano).
La diffidenza verso gli intellettuali di estrema sinistra e verso figure come Ziegler è più giustificata, ma il fatto che pessimi soggetti sposino cause giuste non inficia queste ultime. Inoltre Romano, così attento alle motivazioni ideologiche dei promotori della "campagna" sulle responsabilità svizzere nella seconda guerra mondiale, avrebbe potuto informare il lettore anche su  quelle del traduttore del libro: l'intellettuale di estrema destra Maurizio Cabona, noto per le sue posizioni antiamericane e antisraeliane.

Ecco il testo:


I n un libro sulla Svizzera nella storia del Novecento, Jean-Jacques Langendorf ricorda che il processo alla Confederazione cominciò verso la metà degli anni Novanta con un brusio di voci che rimbalzavano da un Paese all'altro, da un giornale all'altro. Nell'aprile del 1995 la stampa israeliana lasciò intendere che vi erano nelle banche svizzere 40 o 50 milioni di franchi, depositati su conti numerici aperti prima della guerra da ebrei dell'Europa centrale. Pochi mesi dopo, il Wall Street Journal mise in discussione, in particolare, la correttezza della banca Julius Baer di Zurigo. Di lì a poco scese in campo il Congresso mondiale ebraico, presieduto allora da Edgar M. Bronfman, magnate canadese degli alcolici e generoso finanziatore di Bill Clinton nelle elezioni presidenziali di pochi anni prima. Qualche tempo dopo entrò in scena Alphonse D'Amato, senatore dello Stato di New York, uno dei più tenaci paladini degli interessi israeliani nel Congresso degli Stati Uniti. Da quel momento il brusio divenne un coro di voci accusatorie.
Chiamata in giudizio dall'opinione pubblica internazionale, la Svizzera dovette rispondere ad alcune imbarazzanti domande. Perché aveva fornito materiale bellico al Reich tedesco durante il conflitto? Perché aveva respinto gli ebrei che cercavano rifugio nel suo territorio? Perché la sua Banca centrale aveva comprato lingotti tedeschi confezionati con oro sottratto alle vittime del genocidio ebraico? Perché le sue banche avevano trattenuto nei loro forzieri il denaro depositato dalle vittime dello sterminio? Perché le sue compagnie d'assicurazioni non avevano pagato agli eredi il premio delle polizze contratte dai padri e dai nonni?
Il processo durò sino alla fine degli anni Novanta e fu per la Svizzera una sorta di via crucis.
Dovette sostenere l'offensiva del World Jewish Congress e del senatore D'Amato e accettare la nomina del Comitato Volker (ex presidente della Federal Reserve) «per verificare le ricerche delle Banche Svizzere sui beni depositati in Svizzera nella II Guerra mondiale». Dovette pagare indennizzi per un miliardo e 800.000 franchi e sottoporre se stessa all'esame e al giudizio di una commissione d'inchiesta (la Commissione Bergier) da cui ricevette l'equivalente di una condanna con la condizionale. Dopo essere stata per molto tempo, agli occhi dell'Europa, un modello di virtù repubblicane e civili, la Svizzera era divenuta una sorta di paria delle nazioni, continuamente costretta a giustificarsi e a espiare.
Da allora il vento sembra avere cambiato direzione. La stampa, gli studiosi, i magistrati, gli uomini politici riconoscono che molte accuse erano esagerate e ingiuste, che gli inquisitori non tennero alcun conto dei pericoli che minacciarono in quegli anni l'integrità della Confederazione, che nella campagna antielvetica vi fu anche una velenosa combinazione di demagogia, opportunismo politico, affarismo. Un esempio fra molti: i censori hanno dimenticato di rilevare che il numero dei rifugiati ebrei accolti dalla Svizzera e dagli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale fu lo stesso: circa 21.000. Quale fra i due Paesi era stato più generoso? Il libro di Langendorf, pubblicato dalle edizioni Settecolori nella traduzione di Maurizio Cabona, è probabilmente la più efficace «arringa per la difesa» apparsa in questi anni. L'autore è un ginevrino di padre tedesco, viaggiatore, romanziere, studioso di problemi storici e strategici, personaggio stravagante, nel senso letterale della parola, difficilmente classificabile nel panorama della letteratura europea. Ed è anche, a giudicare dagli argomenti e dalla documentazione con cui difende il suo Paese, un eccellente polemista.
Fra le molte osservazioni intelligenti di questo libro ve n'è una che non concerne soltanto la Svizzera e che può servire a comprendere la cultura europea degli ultimi anni, dal crollo del comunismo a oggi.
Langendorf osserva che nel campo degli accusatori vi furono molti svizzeri e parecchi membri dell'intellighenzia nazionale, fra cui il più chiassoso fu un sociologo molto impegnato, Jean Ziegler. Molti di essi erano stati comunisti, terzomondisti, filocinesi o filocubani. Avevano trascorso la loro vita in attesa del grande evento rivoluzionario che avrebbe messo fine, una volta per tutte, allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Ma la caduta del muro, il crollo dell'Urss e la conversione della Cina al capitalismo li ha improvvisamente privati del loro sogno. Il risultato di questa amputazione è una sorta di rancore permanente per il loro Paese. La fiduciosa attesa del futuro si è trasformata in odio del passato. Dopo avere sognato di costruire un «mondo migliore», questi rivoluzionari invecchiati e inaciditi passano gran parte del loro tempo a distruggere quello che li ha allevati e nutriti.
Definito in questi termini, il fenomeno concerne quasi tutti i Paesi europei e in particolare la generazione del '68. La rivoluzione studentesca fu anzitutto un processo ai padri, vale a dire alla generazione che aveva vissuto le tragedie della prima metà del secolo e sapeva quanto fosse pericoloso continuare il gioco delle reciproche accuse. Mentre i genitori avevano capito che occorreva soprattutto dimenticare e ricostruire, i figli del '68 li accusarono di essere stati, se non addirittura fascisti, egoisti, opportunisti, privi di qualsiasi ideale. Le denunce ebraiche della Svizzera furono soltanto un episodio delle tante guerre contro il passato che vennero scatenate da allora nei Paesi dove la rivolta studentesca assunse una dimensione politica. Una parte della società francese rimise in discussione il comportamento della nazione all'epoca di Vichy. Una parte della società tedesca vide nei cristiano-democratici di Adenauer, e persino nei socialdemocratici di Willy Brandt, una versione morbida del nazismo. Una parte della società italiana sostenne che il fascismo sopravviveva nei partiti borghesi e che occorreva scatenare contro di essi una «nuova Resistenza». Quarant'anni dopo, la generazione del '68 ha perduto la sua partita rivoluzionaria, ma conforta e assolve se stessa continuando a sostenere che il passato dei padri è infinitamente peggiore dell'improbabile futuro in cui aveva riposto le sue speranze.

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