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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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La Repubblica Rassegna Stampa
19.08.2007 Com'era bella Jaffa prima di Israele
Sandro Viola racconta una storia mai avvenuta

Testata: La Repubblica
Data: 19 agosto 2007
Pagina: 42
Autore: Sandro Viola
Titolo: «I giorni d´oro di Jaffa la levantina»

Sandro Viola rimpiange su La REPUBBLICA del 19 agosto 2007 la Jaffa araba precedente alla nascita dello Stato d' Israele, da lui descritta, secondo lo schema della propaganda araba, come una "nakba", una catastrofe che avrebbe cancellato un precedente mondo di tolleranza e prosperità.

Tracciando questo quadro mitologico, Viola dimentica molte cose. Il contributo dell'immigrazione ebraico-sionista allo sviluppo economico di Jaffa, intanto.
E il fatto che la guerra del 48, con la relativa sconfitta dei palestinesi, fu dovuta al tentativo arabo di "buttare a mare" gli ebrei, che si difesero.

Nè la disinformazione si limita alle omissioni. Viola equipara "moti" arabi e "terrorismo" ebraico nel 29 e nel 36, quando in realtà si confrontarono pogrom arabi e autodifesa ebraica. Sostiene falsamente che nel 48 la dirigenza sionista appoggiò il terrorismo ebraico dei gruppi dissidenti.

Ecco il testo:

Ancora verso la metà degli Ottanta si mangiava male, in Israele. Anzi, a dire la verità, molto male. Oggi la situazione è parecchio migliorata, con almeno cinque o sei buoni ristoranti a Tel Aviv e qualcuno passabile anche a Gerusalemme e ad Haifa. Ma sino a una ventina d´anni fa era diverso, perché con la fondazione d´Israele e l´arrivo dei nuovi immigrati dall´Europa e dal Nord Africa, alla cucina ebraica era successo qualcosa di simile a quel che avvenne con la letteratura.
Trapiantate dall´Europa centro-orientale e dai paesi arabi in Palestina, le cucine ebraiche, che nella diaspora erano state varie e tutte saporite, in certi casi eccellenti, avevano dato luogo ad una cucina nazionale - o per meglio dire sionista, dato che l´amalgama s´era compiuto nelle pentole comunitarie dei kibbutz -, d´una mediocrità scoraggiante. E così con la letteratura: nel primo paio di decenni seguiti alla nascita d´Israele, il talento che aveva prodotto in tedesco, cèco, francese, rumeno i bei libri degli scrittori ebrei della diaspora, era infatti (il caso Agnon a parte) misteriosamente evaporato. I romanzi che uscivano nel nuovo Stato degli ebrei erano anch´essi, come la cucina dei kibbutz, del tutto insapori. E si sarebbero dovuti aspettare gli Ottanta prima di veder emergere, con Oz, Yehoshua, Grossman e qualcun altro, la nuova, ammirevole letteratura israeliana.
Era per sottrarsi alla cucina dei ristoranti di Tel Aviv, immutabile e sciapita come un rancio di caserma, che la sera, tra la fine dei Sessanta e i primi Ottanta, s´andava a cena quasi sempre a Jaffa, già a quel tempo una periferia di Tel Aviv. Andavamo soprattutto da Yunis, nel piccolo cortile-giardino del ristorante, accolti affabilmente dai proprietari e camerieri palestinesi. O meglio "arabi israeliani", secondo la dizione ufficiale che indica i palestinesi semintegrati nello Stato ebraico. Erano buone cene: il "mezzè", un pesce alla griglia, l´arak al posto del vino, caffè squisito. E dopo cena si passeggiava lungo il mare, attorno alla moschea di Jami´a al-bahr, sul porto costruito dai Mamelucchi e dagli Ottomani.
Lì, sul porto, Jaffa ricordava ancora il suo grande passato. I pellegrini che vi erano sbarcati nel Medioevo diretti in Terra Santa, la città prospera e cosmopolita dell´ultimo periodo ottomano, l´arrivo delle prime immigrazioni ashkenazi tra Otto e Novecento. Ma se ci s´allontanava dal mare e dalla moschea di Jami´a al-bahr, Jaffa rivelava crudamente il suo desolante degrado. Fatta saltare con la dinamite dagli inglesi, nei Trenta, per meglio fronteggiare con le autoblinde le rivolte arabe, la città vecchia non era stata ancora ricostruita. Le belle case in pietra arenaria dove avevano abitato sino alla conquista israeliana del ‘48 le famiglie musulmane o cristiane della borghesia araba - case subito espropriate, e nei primi Cinquanta assegnate agli ebrei sefarditi provenienti dal Nord Africa -, si presentavano adesso quasi cadenti, le persiane a pezzi, tutt´attorno cumuli d´immondizie in cui frugavano torme di cani randagi. E alle nove di sera, in quello squallido dormitorio delle frange più povere della popolazione di Tel Aviv (ebrei sefarditi, come ho detto) le strade erano già semideserte.
Non era stato così nei primi decenni del Novecento, tra il disfarsi dell´Impero ottomano e il periodo iniziale del Mandato britannico. A quel tempo Jaffa, più cosmopolita e vibrante di Gerusalemme, era una tipica città levantina, seconda soltanto a Beirut per i commerci, i traffici navali e l´affidabilità del sistema bancario. Tre quotidiani, scuole francesi, inglesi e italiane, i cinema con gli ultimi film di Hollywood, i circoli sportivi dove s´incrociavano arabi, ebrei e agenti di commercio d´ogni provenienza europea. I palestinesi la chiamavano «fidanzata del mare», mentre per gli altri arabi e gli europei Jaffa era - in virtù dei vasti e pingui agrumeti che la circondavano - «la città degli aranci».
City of oranges è infatti il titolo del libro che un giornalista inglese di lunga esperienza mediorientale, Adam LeBor, ha dedicato a quell´età dell´oro della città palestinese. E dal libro, il passato di Jaffa riaffiora dall´oblio con il fascino che circonda da decenni - dai romanzi di Lawrence Durrell in poi - le memorie della civiltà levantina. LeBor ha pazientemente ricercato gli ultimi testimoni (palestinesi musulmani, palestinesi cristiani, ebrei ashkenazi e sefarditi) dell´epoca trascorsa tra gli anni Venti e i Quaranta. Ha sfogliato i giornali del tempo, i diari e le corrispondenze ancora conservati dalle famiglie. E infine ha ricostruito il tracollo della città attraverso gli anni delle rivolte arabe, del terrorismo ebraico e arabo, delle colpevoli esitazioni politiche degli inglesi (per tutto il periodo del Mandato sempre incerti su chi appoggiare, se gli arabi o i sionisti), sino ai giorni in cui l´Irgun di Menahem Begin, la formazione paramilitare della destra sionista, strappò nel ‘48 Jaffa agli arabi che la difendevano.
Com´è ovvio, il libro gronda di nostalgie. Chi ha vissuto una tragedia è infatti portato a ripensare le fasi precedenti la catastrofe come un tempo assolutamente felice, appunto un´"age d´or". Così, gli ultimi rappresentanti delle famiglie che avevano abitato nella Jaffa multireligiosa, tollerante, ancora non stravolta dai due nazionalismi - quello arabo e quello sionista -, tendono a sforbiciare dalla memoria i momenti tristi, gli episodi penosi, accentuando invece le tonalità rosa e oro dei ricordi migliori. Del resto è sempre così, in Medio Oriente. Con gli ebrei ed europei del Cairo, Alessandria, Beirut, Aleppo, e con i palestinesi di Gerusalemme, Haifa, Hebron e Nablus. La nostalgia del passato è continua, struggente. E infatti nei discorsi degli eredi dei Chelouche, Geday, Aharoni, Hammami, le famiglie sefardite, cristiane e musulmane che LeBor è andato a cercare, ogni parola è pervasa dal rimpianto di un´epoca irripetibile.
E certo, quando si pensa all´avversione, agli odii che avrebbero in seguito diviso arabi ed ebrei, quasi non si crede che nelle città levantine regnasse, tra le due comunità, una discreta armonia. Inviti ai rispettivi matrimoni e compleanni, invii di prelibatezze per le feste religiose degli uni e degli altri, lavori in comune, cospicui affari tra la borghesia sefardita e i notabili palestinesi, gli "a´yan", che vendevano terreni ai nuovi immigrati ebrei in arrivo dall´Europa. Se c´erano dissapori, leggiamo in City of oranges, questi sorgevano soprattutto tra ebrei. Gli Ashkenazi non nascondevano infatti un vago disprezzo per i Sefarditi, che abitando Jaffa da un paio di secoli almeno parlavano soprattutto in arabo, mangiavano all´araba, e come gli arabi confinavano le donne in casa facendo sposare le figlie ancora adolescenti. Mentre i Sefarditi erano esasperati dall´atteggiamento di superiorità degli Ashkenazi, e più tardi addirittura offesi dall´arroganza degli "yekkes", come venivano chiamati gli ebrei tedeschi che stavano confluendo in Palestina dopo l´avvento di Hitler al potere.
Nei Venti, estendendosi verso Jaffa, Tel Aviv s´era già ingrandita e modernizzata. Caffè gremiti, stabilimenti balneari con pomeriggi danzanti, teatri, concerti, oltre a bordelli con ragazze ebree dell´Europa orientale (il più famoso dei quali era l´Akarakhaneh in Dizengoff street) frequentati da ebrei, inglesi e ricchi palestinesi. Ma fu l´arrivo degli "yekkes" dalla Germania, tra i quali c´erano parecchi architetti, che dette a Tel Aviv, con la costruzione di interi quartieri Bauhaus, la sua fisionomia di città europea conficcata sulla costa meridionale, araba da più d´un millennio, del Mediterraneo. A quel punto, verso la metà dei Trenta, la situazione stava già precipitando.
I due nazionalismi erano ormai allo scontro. Moti arabi e terrorismo ebraico seminavano vittime innocenti su ambedue i versanti. Già nel ‘29, le battaglie di strada tra palestinesi ed ebrei avevano provocato duecentocinquanta morti. E nel ‘36 era poi scoppiata la grande rivolta araba capeggiata dal Mufti di Gerusalemme, Hajj Amin el-Husseini, che significò un anno intero d´attentati e sparatorie. Intanto il porto di Jaffa e le sue attività commerciali decadevano a causa della concorrenza di Tel Aviv, la città s´andava impoverendo, e con la guerra mondiale languirono le sue maggiori esportazioni, gli aranci e l´olio della Giudea. Quando la guerra finì, il terrorismo ebraico dell´Irgun e della banda Stern - a quel punto non più contrastato ma sostenuto dalla leadership sionista - si diresse soprattutto verso gli inglesi, affrettandone l´uscita dalla Palestina.
Si giunse così al ‘48, alla guerra tra gli ebrei e gli eserciti dei paesi arabi che non avevano accettato il piano di spartizione proposto dall´Onu. E il resto è noto. Alla caduta di Jaffa migliaia di palestinesi s´accalcarono disperati sulle banchine del porto, le donne e i bambini singhiozzanti, cercando d´imbarcarsi. Una scena tragica che ricordava l´esodo dei greci da Smirne nel ‘23, mentre i turchi mettevano a fuoco la città. Uno dei tanti capitoli della "nakbah", la catastrofe, come i palestinesi chiamano la cacciata dalle loro terre e case nel corso della guerra da cui sarebbe nato Israele.
Quelle terre e case erano ormai ebree, destinate ad accogliere i nuovi immigrati. In tre anni, dal ‘48 al ‘51, ne giunsero infatti seicentocinquantamila. Il trattamento dei nuovi venuti non era lo stesso. Prima d´essere smistati nei kibbutz o nelle città, gli Ashkenazi venivano messi in stanze d´albergo o nuovi appartamenti a Tel Aviv, mentre a Jaffa i Sefarditi di provenienza bulgara e marocchina (che sarebbero divenuti i residenti definitivi dell´ex città araba) venivano invece sistemati in tende o nelle malandate baracche di legno rimaste nei vecchi accampamenti inglesi.
Quanto alle proprietà dei palestinesi fuggiti da Jaffa, esse furono immediatamente espropriate. Ma la memoria, lo si sa, non può essere espropriata. E infatti ovunque accadesse di visitare nei decenni successivi un campo profughi palestinese, a Gaza, in Giordania o in Libano, c´era sempre una famiglia che ci mostrava le chiavi della propria casa di Jaffa, e ne decantava ampiezza, decoro e salubrità a paragone del misero ricovero (blocchi di tufo e lamiere) dov´era finita ad abitare. Il tempo era trascorso, c´erano ormai figli e nipoti nati nel campo, ma appese al muro quelle chiavi restavano a simboleggiare l´amaro destino dei profughi.
Il fatto è che gli espropri, racconta LeBor, non riguardarono soltanto case e terreni di chi era scappato da Jaffa, ma anche quelli di palestinesi che ancora vivevano tra la città e i dintorni. Succedeva così che un palestinese andasse un giorno nel suo piccolo aranceto, e vi trovasse una famiglia ebrea che gli sbarrava il cammino esibendo le carte con cui la proprietà le era stata assegnata. I ricorsi erano inutili. E a insorgere fu soltanto Haaretz, già allora il più coraggioso giornale israeliano, definendo quelle sottrazioni «una colossale rapina in forme legali».

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