Igor Man scrive sul kibbutz, per annunciare la fine di Israele una "profezia" basata su false premesse
Testata: La Stampa Data: 19 agosto 2007 Pagina: 39 Autore: Igor Man Titolo: «Nei kibbutz ho visto nascere Israele»
Oibò, Igor Man scrive un articolo sul kibbutz ! Per capire bene dove sta l'imbroglio occorre arrivare alla fine. Dopo aver citato alcune frasi da un pezzo di Francesca Paci (corrispondente) che all'aeroporto avrebbe sentito- scriviamo avrebbe perchè temiamo in una cattiva traduzione, e poi frasi anonime ce ne possono essere migliaia, di qualsiasi tipo - , e dopo molte citazioni da vecchi incontri, tutti improntati chissà perchè sulla nostalgia dell'Italia, alla fine viene la soluzione. Israele perderà la sua anima perchè il Kibbutz è morto. lo dice Igor Man, ovviamente, che in Israele non ci torna da secoli, è più comodo citare i suoi incontri con i "grandi", tutti passati a miglior vita. Se tornasse ora, a parte la difficoltà di trovare interlocutori vivi, si accorgerebbe che i Kibbbutzim sono più che vivi, una istituzione vitale proprio perchè è stata al passo con i tempi. Chi non è mai cambiato è lui. Ma questo i lettori della STAMPA lo sanno, senza bisogno che siamo noi a ricordarlo.
Ecco l'articolo, dalla STAMPA del 19 agosto 2007:
Degania è il nome del primo kibbutz. Fondata agli albori del 1910, la primogenita comune agricola di Israele contava dieci uomini e due donne. Fu, era, rimane il risultato concreto d’una mistura, politica, culturale, del sionismo, dell’anarchismo, d’un socialismo più bochoroviano che marxista, una sorta di socialdemocrazia ricca di accenti tolstoiani. Orgogliosamente quei padri-fondatori si autodefinirono «compagni» e come tali proclamarono la fondazione «di un insediamento indipendente di lavoratori ebrei. (...) Una cooperativa senza sfruttatori e senza sfruttati». Quando nacque lo Stato di Israele i kibbutzim erano già numerosi da almeno trent’anni, in Palestina. Oggi, secondo l’ultimo censimento, le «colonie agricole» ammontano a 268 con circa 117 mila coloni provenienti dai quattro canti del pianeta, o sabra: nati in Israele. L’autoscioglimento di Degania che diventa una «banale cooperativa agricola come tante altre», con stipendi non più eguali per tutti ma differenti e la proprietà delle case «e altri beni» già in comune, ha scosso politici e sociologi, in particolare questi ultimi. La mutazione di Degania ripropone un interrogativo storico: i kibbutzim sono soltanto espressione della cultura e della filosofia socialista del vecchio secolo? «Non lo penso», dice Sabino Acquaviva, attento sociologo della Storia, che ci ricorda come in Israele, «minacciato di distruzione dall’ennesimo fondamentalismo», sia in corso «la battaglia per la sopravvivenza di una istituzione economica, sociale, lasciata in eredità da una cultura che, per il resto, all’alba di questa nuova civiltà, sembra quasi in agonia». Fatalmente, a questo punto, si ripropone il vecchio discorso delle due anime di Israele. Per un israeliano-doc qual è Dan Segre, quello delle due anime sarebbe, in definitiva, un falso problema. Finché ci sarà IL NEMICO Israele sarà compatto e dunque potrà permettersi il lusso di interrogare e di interrogarsi, di polemizzare anche con ferocia intellettuale, sul futuro per infine deciderne i contorni, gli stessi contenuti. All’aeroporto Ben Gurion, facendo la fila del check-in, la nostra Francesca Paci ha colto, sulla bocca di sabra in vacanza, frasi così: «Non appena posso volo via. Amo il mio paese ma Israele è pur sempre una prigione» - «Ho bisogno d’aria ma il Nord è bloccato dai confini libanesi e siriani, a Est c’è la Giordania, a Ovest il mare. Resta solo il Sinai ma tutti i turisti parlano l’ebraico, è come stare ad Haifa». Che vivano in Gerusalemme la città della pace ovvero «nell’oblio di Tel Aviv» i sabra non vedono l’ora di «staccare». Ma è stato sempre così? Vediamo. Correva l’anno 1959, in Israele durante un mese avevo incontrato personaggi unici, li avevo intervistati ovvero avevo avuto l’opportunità di interrogarli colloquiando: con quel mezzo Cavour e mezzo Garibaldi che fu Ben Gurion: con il grande Ehvud Avriel cui debbo anche un breakfast con Dayan (ah quanto mangiava) all’hotel National in Ben Yehuda; con l’immensa Golda Meir, nella sua leggendaria «cucina», e via così. «Sei stato con noi un lungo mese, devi ora aggiungere una settimana ancora alla tua inchiesta: per capire, per capirci ti manca il kibbutz», ostinato, diceva, Giorgio Romano. Ed ecco, adoperando il tempo presente, il mio incontro col kibbutz. «Guai, dice Ben Gurion, se ci ritenessimo soddisfatti dell’opera compiuti sino ad oggi. La costruzione del nostro Stato non può essere soltanto la conseguenza d’una miracolosa vittoria. Al contrario dev’essere la dimostrazione del nostro superamento come individui e come collettività, la dimostrazione che abbiamo rinnegato il dualismo tra spirito e materia. Siamo orgogliosi delle nostre vittorie ma non intendiamo conservare il paese con la spada, e siamo ben lontani dal voler essere un gran popolo». «La Terra è mia», dice l’Antico Testamento, quindi è di tutti: né lo Stato può esserne padrone né gli uomini che ci vivono. «Nel kibbutz la terra appartiene a tutti e a nessuno: è ricchezza comune. Ogni membro del kibbutz è signore delle proprie braccia, non deve sottostare a nessuno: è ricchezza comune, l’unico bene personale è il lavoro». Nel kibbutz di Nezer Sereni sono ospite del dottor Carlo Castel (Castelbolognesi) e di sua moglie, Liana Polacco. Nella loro casa, semplice e bianca, ho incontrato altri israeliani di origine italiana, come l’avvocato Marcello Savaldi che oggi è il responsabile dell’agrumeto. Non hanno rimpianti, sembrano o forse sono davvero felici. Furono medici, cattedratici, ingegneri eccetera oggi sono contadini, trattoristi, vaccari. Sono «poveri», non toccano denaro ma la moneta che circola nella comunità è impagabile: si chiama rapporto tra anima e anima e quindi serenità, gioia di vivere, coscienza di essere se stessi. «Noi non abbiamo rinunciato - mi dicono -, abbiamo trovato». Han trovato una esistenza che gli permette di realizzare la loro «essenza umana, il valore dell’individualità nel collettivismo». Interrogando, ascoltando il dottor Castel e i suoi compagni capisco perché trasferirsi in Israele si dica «salire» (da Alya, giustappunto ascesa). Chi ancora oggi compie l’alya, lo fa istintivamente, per essere in qualche modo più vicino al cielo, forse. Per i sabra fondare un kibbutz è verosimilmente guadagnare spazio in un paese piccolo, senza frontiere «sicure e riconosciute».
Aveva 24 anni Giorgio Piperno, ingegnere, quando nel 1947 salì in Israele. Egli e sua moglie scelsero il kibbutz di Sde Eliau perché «difficile». E’ a ridosso del confine con la Siria, il clima è torrido, spesso il termometro segna 46 all’ombra. Non si rinuncia a Roma, ad una carriera sicura, ad un avvenire certo se non ci si sente chiamati. Ma anche per Giorgio Yehuda Piperno il passo non è stato facile. Non si diventa agricoltori dall’oggi al domani e una cosa è aver imparato l’ebraico in Italia, un’altra è parlarlo come lingua viva di tutti i giorni. A bruciapelo: «Non rimpiange qualche volta Roma, l’Italia?», gli domando. La sua voce è marcata dalla malinconia ma sorride: «Non rimpiango nulla. Non è la nostra una condizione che si conquisti dall’oggi al domani. Non è una scampagnata di boy-scouts. La rinuncia a volte pesa ma forse per questo è più accetta: dà valore al nostro lavoro, ci incoraggia a trasfondere nei figli l’amore per la Terra, per l’Altro, per il tuo Signore». L’ultima sera a Sde Eliau, l’haver (compagno) Giorgio Yehuda Piperno, mi portò a sentire (non visto) i bambini che cantavano la preghiera della notte. Le voci infantili martellano il crepuscolo aperto all’invasione poderosa del tramonto. Invisibili i bambini cantano ragionate lodi a Dio, al Signore di tutti; «nessuno escluso», come sorride Piperno. Mi sembra assurdo che il kibbutz svanisca, che venga stranito da aggiustamenti o altre banalità crudeli. Perché se finisce il kibbutz, non sarà più questione di «due anime», delle due anime di questo Paese senza paragoni. Se finisce il kibbutz, Israele è come se rimanesse ai margini della Storia. Se finisce il kibbutz finisce Israele: quell’Israele, dico, che abbiamo ammirato e forse anche amato.
Per inviare una e-mail alla redazione della Stampa cliccare sul link sottostante lettere@lastampa.it