"Islamisti politici" e terroristi chiunque va bene purché nasca lo Stato palestinese
Testata: Autore: Paola Caridi - la redazione Titolo: «Dai Fratelli musulmani d’Egitto al Marocco - Rudy non vuole la Palestina»
I "tink tank" (ne vengono citati tre, la Stiftung fuer Politik und Wissenschaft l’International Crisis Group, con sede a Bruxelles e l'americano Carnegie Endowment ) suggeriscono di trattare con "l'islam politico", nome rassicurante per indicare il fondamentalismo islamico dei Fratelli musulmani e di Hamas.
Paola Caridi sul RIFORMISTA del 18 agosto 2007 seleziona, nel vasto mercato delle analisi sulle relazioni internazionali, una manciata di opinioni utili a difendere l'apertura ad Hamas del governo Prodi, spacciandole per l'unanime parere degli "esperti".
Ecco il testo:
Gerusalemme. Per la terza volta in quattro mesi, il dottor Essam el Arian non è riuscito a partire ieri dall’aeroporto del Cairo. Destinazione, stavolta, la Turchia. Il suo nome, come quello di altri dirigenti tra i più in vista dei Fratelli musulmani egiziani, è su di una lista particolare. Nessun permesso di lasciare il paese. Anche se Essam el Arian è uno degli esponenti della cosiddetta “seconda generazione” più conosciuti non soltanto in Egitto, ma anche all’estero. Uno dei pragmatici, insomma, di quelli con cui - anche secondo la commissione esteri della House of Commons britannica - bisognerebbe parlare. Per la precisione, l’ottavo rapporto Global Security: the Middle East, raccomandava al governo di Londra di «impegnarsi per influenzare i membri» dei Fratelli musulmani, visto che «sono una forza potente e importante in Egitto». Le aperture londinesi, insomma, non hanno scalfito la posizione del regime di Hosni Mubarak, impegnato da mesi a restringere i limiti di azione del più grande movimento di massa dell’islam politico nel mondo arabo. Eppure, la richiesta precisa, chiara e motivata della commissione esteri del ramo basso del parlamento di Sua Maestà non è una vox clamans in deserto. Così come non lo sono le dichiarazioni di Massimo D’Alema e, da ultimo, del presidente del consiglio Romano Prodi. Piuttosto, riflettono la posizione di gruppi influenti di intellettuali, e non soltanto di parte progressista, che da una costa all’altra dell’Atlantico spingono da mesi governi nazionali e Occidente nel suo complesso a rivedere le posizioni sull’islam politico. Compreso quando si affronta il capitolo più delicato, quello su Hamas, nella lista delle organizzazioni terroristiche di Stati Uniti ed Europa, primo partito democraticamente eletto in Palestina nelle elezioni supervisionate anche da osservatori della Ue. La richiesta di coinvolgere Hamas data da oltre un anno. Dalle elezioni politiche palestinesi di fine gennaio 2006. Ma i think tank - e non solamente loro - l’hanno considerata imperativa a partire da una data precisa. L’8 febbraio del 2007.Firma degli accordi della Mecca tra Hamas e Fatah, e successiva costituzione del governo di unità nazionale. Che ha avuto vita breve e non è stato affossato soltanto dal colpo di mano di Hamas a Gaza,ma anche (almeno in egual misura) dal comportamento dell’ala estrema di Fatah rappresentata da Mohammed Dahlan, sostenuto anche dai finanziamenti (compresi quelli militari) americani. Il governo di unità nazionale era lo strumento per coinvolgere Hamas e tentare di moderarla. Lo avevano detto ai mediatori dell’accordo anche molti governi europei, promettendo lo sblocco dell’embargo. Lo aveva chiesto l’International Crisis Group, sede centrale a Bruxelles. Lo ha chiesto a più riprese la tedesca Stiftung fuer Politik und Wissenschaft. E persino Nathan Brown, del Carnegie Endowment americano, non ha potuto non suggerire agli attori politici - lo scorso giugno, dopo il colpo di mano di Hamas a Gaza - di spingere per la ricostituzione, prima o poi, di un governo di unità nazionale. Ancor più pressante l’invito al dialogo con l’islam politico,da parte del Carnegie Endowment e di altri gruppi d’esperti, quando si toccano i pilastri del mondo arabo. Egitto in testa.Ma non solamente,visto che la questione riguarda in questi giorni in maniera stringente il Marocco, in vista delle elezioni politiche del 7 settembre e della molto probabile buona performance del partito islamista moderato del Pjd. Sui Fratelli musulmani - comunque - la pressione è andata oltre, spingendosi nel dialogo vero e proprio con i dirigenti islamisti per spingere l’Ikhwan a precisare (e rivedere, magari) alcuni dei punti più controversi della loro piattaforma. Una discussione che, lungi dall’essere soltanto intellettuale, potrebbe mostrare i risultati entro poche settimane. Quando i Fratelli musulmani, entro settembre, renderanno noto il programma politico, in vista della costituzione di un partito che possa aggirare gli emendamenti costituzionali che vietano, ora, organizzazioni politiche di ispirazione religiosa. Lo scontro tra prima e seconda generazione, tra ala dura e pragmatici, tra conservatori e moderati, tra vecchi e giovani, è per la prima volta arrivata in superficie. Con le indiscrezioni sulla bozza finale di programma, compresi i punti più controversi sulla sharia (peraltro già esistente in parti del diritto egiziano), sul ruolo delle minoranze religiose, sui diritti delle donne, pubblicata dal primo giornale indipendente, Al Masri al Youm. Affrettate le smentite, forse perché l’uscita era un modo per premere sulla discussione in atto tra le diverse anime della Fratellanza. Sta di fatto che il dibattito sul programma politico diventa, a questo punto, cruciale per capire la futura strategia della Fratellanza, in uno dei momenti di svolta per l’intero islam politico.
In un editoriale a pagina 2, viene riportata la frase del candidato presidenziale Rudolph Giuliani: «Non è nell’interesse degli Stati Uniti, ora che sono minacciati dal terrorismo islamico, di aiutare alla creazione di un altro stato che sosterrà il terrorismo». Interpretata dal RIFORMISTA come un non allo Stato palestinese, un "passo indietro" rispetto alla posizione di Bush. In realtà, si tratta si tratta di un no alla creazione di uno Stato palestinese che sostenga il terrorismo. Prospettiva alquanto plausibile, che però non preoccupa minimamente Il RIFORMISTA. Nemmeno Bush, naturalmente, è favorevole alla creazione di uno Stato palestinese terrorista. Al RIFOMISTA lo sono ?
Sceglie la prestigiosa platea di Foreign Affairs, Rudy Giuliani, per esprimere con chiarezza il suo punto di vista sulla questione mediorientale, sulla via della propria possibile candidatura alla Casa Bianca. Per l’occasione, l’ex sindaco di New York diventato famoso per la tolleranza zero,ma anche per gli stratosferici tassi di popolarità raggiunti nella grande mela, ha deciso di parlare chiaro. «Non è nell’interesse degli Stati Uniti, ora che sono minacciati dal terrorismo islamico, di aiutare alla creazione di un altro stato che sosterrà il terrorismo». L’altro stato di cui parla in questi termini, naturalmente, è lo stato palestinese. La presa di posizione di Giuliani, in vista delle Primarie repubblicane, fa particolarmente rumore perché segna una frattura di non poco conto rispetto alla politica estera di George W. Bush e di Condoleezza Rice. Il presidente repubblicano uscente, infatti, nonostante la guerra al terrore e i suoi discutibili risultati, ha iscritto il proprio nome nella cronologia della politica mediorientale, come quello del primo presidente americano ad aver fatto pubblico, esplicito endorsement per la nascita dello stato palestinese. Uno stato pacifico, non islamizzato, certo: ma pur sempre uno stato autonomo, indipendente, sovrano. Nemmeno Bill Clinton, la cui moglie Hillary appare sempre più favorita S su Obama per la corsa alla Casa Bianca dal lato democrats, ha mai esplicitamente pronunciato le parole magiche, pur essendo stato - senza ombra di dubbi - il presidente statunitense che più di tutti si è speso per imprimere una svolta definitiva alla questione mediorientale. L’ha fatto George Bush, pur non senza contraddizioni, e adesso che è tempo, per il suo partito, di deciderne il successore, uno tra i candidati più titolati lo contraddice in modo forte, frontale. E mentre Israele sembra tentato da un ritorno all’antico con Bibi Netanyahu - l’uomo che più di tutti simboleggia il rifiuto dei trattati di pace, ma anche della strategia unilaterale di Ariel Sharon - sulla ribalta americana si affaccia così una tendenza che,allo stesso modo,sa di ritorno al passato. Chissà che nell’opinione pubblica palestinese, e in quella del mondo arabo sempre molto filopalestinese, a parole, non si affacci finalmente il dubbio, ripensando al gran rifiuto di Camp David da parte di Arafat, che aver perduto il treno offerto da Ehud Barak - anche lui tornato sulla ribalta laburista di recente - e da Bill Clinton sia stato un errore imperdonabile. Un errore che, nel caso la coppia Barak-Clinton (questa volta Hillary) si dovesse riformare, non si dovrà assolutamente ripetere. Sempre che, dopo l’11 settembre e Hamas, non sia comunque troppo tardi.
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