Il cardinal Lustiger, un fratello maggiore ? riflessioni sulla figura dell 'ebreo che fu vescovo di Parigi
Testata: Il Foglio Data: 17 agosto 2007 Pagina: 4 Autore: Angelo Pezzana Titolo: «Appunti storico-religiosi al doppio funerale di un ebreo diventato cardinale»
Dal FOGLIO del 17 agosto 2007:
Vista da Gerusalemme, la morte ed il successivo funerale del Cardinale Jean-Marie Lustiger ha suscitato diverse riflessioni, tutte significative per i rapporti tra ebraismo e cristianesimo. Due soprattutto sono state al centro dei commenti. Il fatto che Lustiger sia nato ebreo e la giovanile conversione al cattolicesimo, due fatti centrali nella sua vita, che hanno contato enormemente durante tutto il suo sacerdozio. Quando si convertì, Jean-Marie Lustiger sapeva benissimo che doveva l’essere ancora vivo grazie ad una famiglia che l’aveva nascosto, mentre sua madre veniva catturata dai nazisti e dai loro collaboratori francesi, portata ad Auschwitz e là immediatamente uccisa. Non gli era stato nascosto nulla, quindi sapeva di essere ebreo. Poteva, come tanti altri bambini ebrei che si erano nascosti presso famiglie cristiane, non essendogli in più nemmeno stata nascosta la sua origine, come purtroppo avveniva per altri piccoli, allevati e cresciuti nella fede che non era la loro, raggiungere altri famigliari che si erano salvati emigrando nell’allora Palestina. Non lo fece, la sua strada, scelta liberamente, senza costrizioni, era quella della fede cattolica, che avrebbe percorso con estremo successo, fino a diventare per più di due decenni Cardinale di Parigi. Fin qui nulla da eccepire, un destino non comune, diciamo pure eccezionale – era stata persino ipotizzata con argomenti molto seri la sua candidatura al soglio papale- ma nulla che potesse aprire un dibattito sul suo modo di intendere la doppia appartenenza ebraico-cattolica. Qui sta il punto. Lustiger non solo non rinnegò mai le sue radici, ma le valorizzò durante tutta la sua vita, testimoniando con l’esempio che il destino compiuto di un ebreo non è dimenticare il passato, ma inserirlo nel presente, che è rappresentato non più dall’ebraismo ma dal cattolicesimo stesso. Una posizione che si accosta alla bimillenaria tesi cattolica, che vuole la fede annunciata da Gesù Cristo il “vero Israele”, negando quindi ogni legittimità all’altra, quella ebraica. Una polemica che era già esplosa quando Giovanni Paolo II si recò in visita alla Sinagoga romana, quando si rivolse agli ebrei chiamandoli “ fratelli maggiori”, una frase che non poteva significare altro che sarebbero stati i fratelli minori, i cristiani,appunto, a sopravvidere ai maggiori, e quindi ad esserne gli eredi. Lustiger incarnò questa visione dei rapporti far le due fedi, in un modo così raffinato e colto, da lasciare poco spazio a diatribe e contestazioni. La sua morte, e soprattuto il funerale, ha riaperto la ferita. Ha lasciato scritto nel suo testamento di volere, di fatto, un doppio funerale, dove entrambe le fedi fossero rappresentate. E così l’ha ottenuto. Gli ebrei, e quella parte della sua famiglia che vive in Israele, hanno recitato il kaddish, la preghiera per i morti, Jonas-Moses, un giovane bisnipote israeliano con tanto di Kippà sul capo, ha versato sul feretro terra dai luoghi santi cattolici, mentre Monsignor Patrick Jacquin, rettore della cattedrale di Notre-Dame, in piedi accanto a Nicholas Sarkozy, osservava la cerimonia. Gila, un’altra bisnipote da Israele, ha letto alcuni Salmi. Tutto come lui aveva voluto, un funerale come si addice ad un cattolico profondamente credente, con accanto i testimoni del suo passato. Reggere per tutta la vita una parte simile richiedeva enormi doti diplomatiche, dopo che per secoli le immagini che si imponevano erano quella della Chiesa vittoriosa contro la Sinagoga sconfitta. Una posizione che è stata consegnata al passato solo dopo la rinascita dello Stato di Israele. Avrà contribuito a normalizzare i rapporti fra ebrei e cristiani la scelta di Jean-Marie Lustiger ? Può darsi, ma ritrovarsi uniti durante un funerale è qualcosa di diverso dall’affrontare la storia di duemila anni, chè non va riscritta, ma studiata, per imparare a non rifare, riconoscendoli, gli stessi errori.
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