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La Stampa - L'Unità Rassegna Stampa
15.08.2007 Dialogo con Hamas, dialogo tra i popoli israeliano e palestinese
le opinioni, contrastanti, di Avraham B. Yehoshua e Amos Luzzato

Testata:La Stampa - L'Unità
Autore: Fabio Galvano - Amos Luzzatto
Titolo: «“Roma ha ragione Il dialogo ci salverà” - Dialogare ma con chi»
Da La STAMPA del 15 agosto 2007, un'intervista ad  Avraham B. Yehoshua (pagina 3):

Romano Prodi, afferma convinto Avraham Yehoshua, «ha fatto molto bene» a offrire un'apertura di dialogo con Hamas. Neppure in questo frangente lo scrittore israeliano tradisce il suo impegno per la ricerca della pace fra israeliani e palestinesi. «Perché no?», insiste: «Nelle attuali circostanze è essenziale un atteggiamento pragmatico per normalizzare una situazione grave e pericolosa. Il primo passo su questa strada non può essere che il dialogo: proprio quello che ha auspicato il Presidente del Consiglio italiano».
Al di là delle polemiche che già stanno coinvolgendo Prodi, quali risultati concreti potrebbe conseguire il suo gesto?
«La realtà dei fatti è molto semplice: Hamas controlla Gaza, che è ormai un'entità separata dalla Cisgiordania. Non capisco quindi perché ci si ostini a non parlare con quella fazione palestinese, attraverso la quale - sia pure in modo non esclusivo - passa qualsiasi ipotesi negoziale. L'obbiettivo finale, la pace, non è forse così facile da raggiungere. Ma intanto si potrebbero conseguire molti altri risultati importanti: una riduzione dell'attività militare, per esempio, che non è soltanto una questione di vite umane. L'alt ai continui lanci di missili Qassam sarebbe di beneficio per tutti: Gaza rifiorirebbe e con la sicurezza economica verrebbe gradualmente una stabilità in grado di portare a una normalizzazione».
Ma la cosa non piace al governo d'Israele.
«La storia non insegna proprio niente? Gerusalemme era irritata e contraria anche quando c'erano i primi timidi contatti ufficiali con l'Olp. Certo: il governo vorrebbe da parte di Hamas, prima di avviare un dialogo, il riconoscimento dello Stato d'Israele. E poiché Hamas non ha nessuna intenzione di farlo, Gerusalemme continua ad assumere una posizione molto rigida, in nome della quale Abu Mazen è il solo rappresentante del popolo palestinese. La realtà è che la separazione fra Gaza e la Cisgiordania durerà a lungo e che Hamas avrà un ruolo da protagonista. Riduciamo il fuoco a Gaza e da Gaza: se ci riuscissimo sarebbe già un risultato importante. Sono le strategie dei piccoli passi quelle che portano a risultati sicuri, non i gesti clamorosi».
Ovviamente molti temono, dal governo di Gerusalemme all'opposizione in Italia ai governi di altri Paesi occidentali, che il gesto di Prodi possa dare ad Hamas la legittimazione che per ora molti vorrebbero invece negargli.
«E' chiaro che io non posso sapere quali siano le intenzioni di Prodi, ma non credo che faccia un discorso di legittimazione. Per questo accolgo con piacere la sua disponibilità al dialogo. Certo: se con le sue parole egli abbia inteso sottintendere che Hamas è il rappresentante legittimo di tutti i palestinesi, questo non sarebbe né giusto né accettabile».
Anche Abu Mazen non è elettrizzato dalla mossa di Prodi, che per certi versi - lo sostengono persino i portavoce del governo israeliano - potrebbe metterlo in difficoltà.
«Abu Mazen ha sempre avuto difficoltà, si è sempre sentito minacciato. Ma con tutto l'aiuto che gli si è dato, continua a non cogliere i risultati che ci aspettavamo da lui. Invece bisogna provare di tutto, per ridurre la sofferenza del popolo palestinese e offrire sicurezza a Israele. La situazione di Gaza - non mi stanco di dirlo - è estremamente difficile. Abu Mazen era lì dopo il ritiro israeliano, ma non è riuscito a combinare nulla. Se una mossa - qualsiasi mossa - può riannodare il filo della speranza e dare buoni risultati, perché non provare?».
Lei ha sempre sostenuto che per risolvere il problema palestinese è necessario un forte coinvolgimento dell'Occidente.
«Ne sono tuttora convinto. Tornando a Prodi, per esempio, fui tra coloro che accolsero con entusiasmo la sua decisione di mandare truppe in Libano nell'ambito di una forza internazionale, perché quel gesto sbloccò anche le indecisioni francesi; e i risultati si vedono. Per questo dico che anche a proposito di Gaza l'Occidente, con l'Europa in primo piano, deve farsi sentire. Può essere prematuro e paradossale, ma forse non sarebbe un'idea del tutto sbagliata se Prodi si adoperasse per mandare una forza internazionale a Gaza. Potrebbe essere una mossa in grado di creare un nuovo spirito in quella terra. Sicuramente sarebbe ben più utile che mandare truppe in Iraq».

Da L'UNITA' , un intervento di Amos Luzzato (pagina 1 e 29):

In un recente convegno, ho posto una domanda in merito al significato del tanto invocato dialogo che è sulla bocca di tutti. È stata accantonata come irrilevante. Io avevo chiesto se il dialogo vada visto come uno strumento o come un obiettivo da raggiungere. Siccome sono personalmente del parere che il dialogo (strumento) è un concetto inutile senza un obiettivo concreto e chiaramente enunciato, credo sia utile tornare su questo tema.
L’occasione mi viene fornita dal problema di Hamas che, al di là delle misinterpretazioni, delle strumentalizzazioni e delle battute estemporanee, non può essere liquidato con un anatema.
Seguendo il mio filo di ragionamento, va stabilito innanzi tutto quale sia l'obiettivo da raggiungere attraverso il dialogo: esso è, evidentemente, la fine del conflitto israelo-palestinese, ma non la fine attraverso la soppressione di uno dei due contendenti. Piuttosto la fine per dar luogo a una fase che speriamo storicamente stabile, di coesistenza pacifica e collaborativa fra due autonomie statuali da riconoscere - Israele e Palestina - che siano rispettose degli accordi parziali già concordati in passato, e che rinuncino all'uso della violenza o della minaccia di violenza nei futuri reciproci rapporti.
In questo momento, porre in questi termini l'obiettivo del dialogo, parlando di Israele e Hamas, significa affermare che al dialogo stesso mancano i dialoganti. Ma questo non chiude il nostro discorso, semmai ne apre un altro: sono proprio questi i veri dialoganti ai quali possiamo rivolgerci? È vero che, in una recente campagna elettorale, Hamas ha dimostrato di poter contare sulla maggioranza dei suffragi palestinesi. Ma si tratta di una risposta insufficiente. Le campagne elettorali non sono mai, neppure nella più perfezionata democrazia, delle scelte libere, consapevoli e asettiche fra due programmi di governo, ma i loro risultati sono condizionati anche da simpatie personali, dalla correttezza dimostrata dai candidati concorrenti, dagli interventi dei mezzi di comunicazione più diffusi e, infine, dalle ideologie (religiose o secolari) che stanno a monte del contenzioso e che spesso non hanno una relazione logica diretta con i problemi concreti del contenzioso. Se dovessimo poi decidere che un intero popolo deve essere identificato con coloro che in una determinata votazione ottengono la maggioranza, gli italiani dopo l’aprile del ’48 avrebbero dovuto essere identificati con i democristiani, tanto per non richiamar altre situazioni di più triste memoria, come l’affermazione nazista nella Germania degli anni 30.
Sto forse delegittimando il sistema elettorale come il migliore strumento di cui disponiamo per sapere chi deve e «può» rappresentare un popolo? Lungi da me. Cerco di distinguere i problemi che coinvolgono solo alcuni settori di una popolazione (quelli che ammettiamo identificarsi con la maggioranza espressa dalle urne) da quelli più ampi, che sono determinanti per tutti, anche per coloro che oggi sono minoranza, ma che potrebbero trasformarsi domani in maggioranza. Tali sono, per primi, i problemi che riguardano la pace o la guerra, ma anche quelli che riguardano il benessere e l'educazione dei cittadini, ed anche la legge elettorale.
Se le cose stanno così, bisogna concludere che il percorso da seguire è fatto da alcuni stadi. Il primo è quello di stabilire quali debbano essere gli obiettivi del dialogo (e questo, almeno in linea di principio, parrebbe quello più semplice).
Il secondo stadio richiede di stabilire quali siano i soggetti oggettivamente interessati a raggiungerli. Intendiamo la popolazione israeliana e quella palestinese, al di là delle maggioranze elettive contingenti. Perché sono proprio queste che da più generazioni vivono in una condizione di minaccia permanente e di violenza non più tollerabile.
Il terzo stadio è quello di creare canali di comunicazione - o potenziare i pochi canali già esistenti - per farli diventare canali di dialogo e infine centri di iniziative per la pace.
Bisogna dire che esistono già canali spontanei di questo genere e che alcuni Paesi europei, l'Italia in particolare, con l'intervento di alcune delle sue Regioni, sono già state sedi di incontri e di iniziative, soprattutto nel campo della salute e della prevenzione.
«Interventi da fuori», dunque?
Certamente, ma a una condizione: non si intervenga, con una mentalità che direi «colonialistica illuminata», quella, per intendersi, che insegnerebbe ai primitivi «come si fa a lavarsi i denti». Al contrario, si tratta di offrire il terreno di incontro, le occasioni di conoscersi e di assumere iniziative in comune, assieme agli israeliani e ai palestinesi. Si fa già, bisogna farlo molto di più e subito.
Mi pare già di sentire le sagge obiezioni delle persone «pratiche»: è un percorso molto idealizzato, lunghissimo e noi abbiamo bisogno di iniziative immediate. Sono pronto ad accettare questa critica, a condizione che sia accompagnata da iniziative concrete, che non consistano solamente nell'invio di armi o di armati in territori che ne sono già pieni. Le iniziative devono consistere nell'aiutare la crescita di quadri civili, nell'investire per migliorare le scuole e la tecnica produttiva dei territori palestinesi, per sollecitare gli ebrei israeliani a imparare l'arabo e i palestinesi a imparare l'ebraico per conoscersi direttamente.
Credo molto nell'effetto di questo «conoscersi direttamente». Che significa trovare nel palestinese (per l'ebreo israeliano) e nell'ebreo israeliano (per il palestinese) un essere umano, anzi un essere umano con molte caratteristiche comuni, soprattutto storico-culturali.
Con questo risultato, gli obiettivi del dialogo sarebbero già raggiunti. Chiedo scusa a chi mi legge, se ritiene che sia troppo poco.

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