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Il Giornale Rassegna Stampa
15.08.2007 Prodi ha aperto a chi vuole la distruzione di Israele e la guerra all'Occidente
il commento di Fiamma Nirenstein

Testata: Il Giornale
Data: 15 agosto 2007
Pagina: 1
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Un ballo con chi vuole eliminarci»
Dal GIORNALE del 15 agosto 2007, il commento di Fiamma Nirenstein sull'apertura di Prodi ad Hamas:

Prodi dovrebbe sapere, perché gliel’abbiamo detto in coro, che il rapporto con i terroristi indebolisce i moderati e distrugge il già debole Abu Mazen; che Hamas ha nel suo dna e nella sua carta costitutiva (per favore, signor primo ministro, si decida a leggerla! O spieghi, se crede, le ragioni per cui avendola letta non le importa che essa prometta di uccidere tutti gli ebrei e di portare l’islam a dominare il mondo) non solo la distruzione dello Stato d’Israele, rinunciando alla quale rinuncerebbe alla sua stessa essenza e al consenso che la circonda, ma anche la guerra all’Occidente, ovvero a noi; che Hamas non è un fenomeno a sé stante, ma una delle componenti di quello che è oramai un vasto esercito terrorista ad altissimo potenziale destabilizzante, guidato dall’Iran. Hamas non è un’organizzazione irredentista, ma uno dei membri dell’accordo rinnovato il 21 luglio a Damasco, alla presenza di rappresentanti della Siria, di Hezbollah e dei dirigenti di Hamas come Khaled Mashaal, che promette jihad e non pace. Hamas non è sola, è solo la miccia tenuta sempre innescata nel conflitto israelo-palestinese da un fronte interdipendente, da una coalizione, e che quindi se Prodi parla di Hamas, parla anche di Iran eccetera.
Non lo sa forse? Certo che sì! Nonostante la retromarcia al telefono con Olmert, Prodi sa bene che se Hamas sorride per la sua disponibilità, l’Iran se la gode, la Siria si diverte (peraltro già contentissima di avere messo insieme in questi mesi una selva di sistemi antimissile e 200 nuovi aerei “state of art” comprati con i soldi iraniani e l’aiuto russo), grati a loro volta gli hezbollah si preparano a essere semplicemente denominati «una forza complessa» quando attenteranno a settembre, in occasione dell’elezione del presidente del Libano, alla stabilità del loro disgraziato Paese favorendo il ritorno della Siria e soprattutto la prospettiva di una guerra islamista interna.
Ma guardiamo al contesto strategico attuale in cui si colloca la scelta di Prodi: gli Usa si affannano in un’impresa molto difficile e incerta, costruire da qui a novembre una coalizione moderata che riunendosi riesca a mandare un messaggio molto forte ad Ahmadinejad che sta preparando la bomba atomica e diffonde terrore. Il summit dovrebbe proporre l’idea che la deterrenza al suo progetto viene per così dire, autoprodotta nel mondo musulmano. Non piace questo all’Europa? Non garba all’Italia? In Israele si sospetta che le dichiarazioni di Prodi e quelle della Camera dei comuni inglesi siano il segnale di una valanga che si sta formando e che rischia di fatto di travolgere il progetto anti estremista americano, per un piatto di lenticchie islamista, una apertura di dialogo autonomo con l’Europa che si basa, di nuovo, sull’appeasement, e che ha al centro l’Iran. Hamas loda l’Italia per essersi sottratta al fronte imperialista americano: che non abbia ragione?
Il fronte moderato che gli Usa costruiscono affannati ha bisogno di spinta e del coraggio di una svolta ideologica che ancora non è avvenuta. I Paesi sunniti devono avere le loro soddisfazioni, che nella fattispecie consistono nel farsi mallevadori di una soluzione possibile per i palestinesi. Non che ci tengano davvero fino in fondo, a giudicare dalla storia che li ha sempre visti agire in maniera cinica verso i loro fratelli, ma certamente i sauditi, offrendo a Israele il riconoscimento in cambio dei territori del ’67 e il diritto al ritorno, hanno aperto un tavolo da gioco nuovo e interessante per tutti, tant’è vero che Olmert va al summit, apre un dialogo diretto con Abu Mazen, e ci vanno tutti i Paesi del Golfo, e vedremo chi altri. Ma il riflesso pavloviano dei Paesi arabi è quello delle parole dure che chiudono prima di partire, di condizioni inaccettabili, di condanne di principio. Invece, e lo sanno anche loro, si può pensare a scambi territoriali, i famosi «swap», che aggiustino la situazione sostituendo la dislocazione geografica dei territori; per i profughi si possono immaginare formule che non escludano anche i famosi scambi territoriali con le zone dove vivono gli arabi israeliani, cui certo dovrebbero essere dati grossi incentivi perché siano d’accordo. È possibile. Ma per ottenere un terreno malleabile, si deve rompere quell’atteggiamento compulsivo che vige dal 1948, quando si creò il rifiuto arabo verso l’esistenza dello Stato d’Israele che è sempre stato una sorta di tessera del club del politically correct.
Che vuole fare l’Italia, rotolare indietro la ruota della storia ammettendo al tavolo da giuoco il rifiuto totale, dato che Hamas non si degna nemmeno di chiamare Israele per nome, dato che seguita a condannarlo a morte? Come può sfuggire a Prodi che l’elemento culturale è fondamentale, che legittimare il fatto che bisogna odiare, rifiutare Israele, ripetere di continuo la propria esecrazione, seguitare a chiamarlo entità sionista infetta la storia attuale e di domani? Proprio due giorni fa Hamas se n’è uscita con un comunicato in cui accusava appunto Abu Mazen di avere asservito le sue «milizie» ovvero la sua polizia alle «forze di occupazione sionista» in quello che, certo con i suoi limiti e le sue pecche, si caratterizza tuttavia come uno dei primi tentativi della storia delle forze palestinesi di combattere il terrorismo. Perché anche Arafat sbatté in galera molti uomini di Hamas, ma la pratica della porta girevole fu immediatamente messa in atto. Impedire il terrorismo è l’unico vero modo di cercare la pace: immaginiamoci che mille carte siano firmate. Se il giorno dopo salta per aria un autobus, o peggio, sarà molto difficile che questo possa essere chiamato pace, anche perché Israele reagirebbe immediatamente.
Hamas cerca di impedire quello che può essere un segnale innovativo e determinante; è invece da dentro il campo arabo che questo deve avvenire per avere un qualche significato, è da là che si deve avvertire il segnale che può spiegare ai sauditi e agli altri che sta suonando il gong della storia. Basta col rifiuto, deve dire questo suono, è l’ora di accettare che c’è qui un Paese che chiede accoglienza dal 1948, e che è stato razzisticamente condannato all’inesistenza.
L’organizzazione della conferenza di novembre ha una piccolissima possibilità di avere un senso: che le forze interessate al terrorismo e alla destabilizzazione abbiano un chiaro segnale che il mondo intero fa sul serio, compreso il mondo arabo moderato, compreso l’Occidente nella sua interezza. Che senso ha in questo momento che l’Italia si stacchi da questa fragile riva? Che si metta a predicare l’accettazione di quelle forze che non sognano altro che uccidere e distruggere? E poi, fino a che punto la violenza non di una guerra passata, ma presente e chiara, può essere ammessa al nostro tavolo? Che cosa insegniamo ai nostri figli se parliamo con Hamas che butta il cameriere subnormale di un ufficiale di Fatah dal 13° piano e uccide nella sua guerra donne e bambini, ebrei e musulmani?

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