Difesa dell'apertura prodiana ad Hamas, fuori tempo massimo di Lucia Annunziata
Testata: La Stampa Data: 15 agosto 2007 Pagina: 1 Autore: Lucia Annunziata Titolo: «Il diaologo con Hamas non è tabù»
Fuori tempo massimo, cioè dopo che Romano Prodi ha ritrattato, in seguito le proteste israeliane, la sua apertura ad Hamas, Lucia Annunziata difende, sulla STAMPA del 15 agosto 2007, la prima versione delle dichiarazioni del premier italiano. L'articolo, a parte qualche riflesso condizionato di antiamericanismo da sinistra extraparlamentare ("forse gli americani, che certo sono i padroni del mondo, possono fare quello che vogliono, mentre gli Italiani, che sono tra i servitori, debbono obbedientemente tenersi allineati e coperti?"), propone sostanzialmente tre argomenti. Il più originale, ma anche il più irrilevante, è sintetizzabile nella domanda: "Se gli americani trattano con la Siria e l'Iran perché l'Italia non dovrebbe aprire ad Hamas ?". Qualunque cosa si pensi dei colloqui tra americani, siriani e iraniani (per nulla produttivi finora: l'Iran continua ad armare il terrorismo irachenoe afghano e a costrurisi l'atomica, la Siria a destabilizzare il Libano), resta il fatto che Washington, pur così pragmatica da non rifiutare il dialogo con Damasco e Teheran, con Hamas non parla. Forse perché un tentativo di far ragionare Hamas è già stato fatto, facendola partecipare alle elezioni e ponendole poi le basilari condizioni del quartetto (riconoscimento del diritto all'esistenza di di Israele abbandono del terrorismo, riconoscimento degli accordi tra Israele e Olp-Autorità Palestinese), ed' è fallito ? Il secondo argomento è stato usato più volte da commentatori e politici, ed'è condiviso anche da alcuni osservatori israeliani, classificati dalla Annunziata come"i più avveduti (e sinceri)", dato che sono d'accordo con la sinistra italiana. Consiste nell'affermare che la trattativa con Hamas è indipensabile perché la pace con il solo Abu Mazen è impossibile. Peccato che Hamas non sia interessata alla pace, ma alla distruzione di Israele. Per cui, se davvero la pace con il solo Abu Mazen fosse impossibile, sarebbe impossibile, al momento, qualsiasi pace. Il terzo argomento è quello di D'Alema: si deve trattare con Hamas e con Hezbollah per evitare che tra di essi attecchisca l'ideologia di al Qaeda. Ma al Qaeda viene dalla stessa radice ideologica di Hamas, quella del fondamentalismo islamico dei Fratelli musulmani. E non a caso il maestro ideologico di Bin Laden fu il palestinese Abdullah Azzam. Hezbollah è legato a un' altra linea, quella delle rivoluzione islamica khomeinista, che però è un modello anche per il fondamentalismo sunnita. L'obiettivo è lo stesso: l'instaurazione del totalitarismo islamico e il suo trionfo mondiale. Le alleanze tra terrorismo sunnita e sciita, tra Hamas, Hezbollah, Iran e presumibilmente la stessa al Qaeda, sono già operative.
Ecco il testo dell'articolo:
Dunque, l’Amministrazione americana può parlare con Siria e Iran (patron di Hamas) e l’apertura di contatti è salutata come un’ottima prova di ragionevolezza, ma se il governo italiano propone di dialogare con Hamas è un aiuto ai terroristi: come funziona, esattamente, questo paradosso? La prima spiegazione che viene in mente ha a che fare con i posti a tavola: forse gli americani, che certo sono i padroni del mondo, possono fare quello che vogliono, mentre gli Italiani, che sono tra i servitori, debbono obbedientemente tenersi allineati e coperti? Malizia a parte, questa storia di Hamas è un perfetto caso dei complessi (edipici?) e delle paure (di non comportarsi bene?) che dominano la discussione su cosa la sinistra pensa di essere nel mondo (tema altrimenti definito «politica estera»). Se è comprensibile, infatti, che le accuse di filoterrorismo fiocchino su Prodi da un centrodestra ridotto in stato così comatoso da saper maneggiare solo discorsi iperbolici, è abbastanza sorprendente la mansuetudine con cui stimatissimi rappresentanti del centrosinistra come Antonio Polito, Furio Colombo, Andrea Ranieri accettano di condannare ogni contatto con Hamas. D’altra parte, che siano proprio loro, uomini molto attenti alla politica estera, a sostenere che il governo e la Farnesina sbagliano è forse la migliore prova che la questione mediorientale in Italia è davvero diventata così simbolica nel centrosinistra da non riuscire più a riflettere il dinamismo con cui gli equilibri si stanno evolvendo nel Medioriente reale.
Lasciando pure da parte il diplomatichese, è sotto gli occhi di tutti che l’Amministrazione americana - proprio quella dei Bush, dei neocon, della guerra preventiva e dell’asse del male - ha di recente riavviato contatti con Siria e Iran, cioè con due dei peggiori «Stati canaglia» del mondo, secondo il copyright dello stesso Bush nel discorso sull’asse del male del 2002. Con la Siria questi contatti hanno avuto un aspetto anche pubblico, durante l’ultimo summit in Egitto; con l’Iran, con cui la comunicazione non si è mai davvero interrotta, ci sono molti segnali di una ripresa di confronto diretto e indiretto. In ogni caso, è da tempo che nei confronti di Teheran gli Usa non sbandierano più l’opzione militare. Washington ha infatti deciso di parlare con il vero protagonista, sia pur indiretto, delle guerre recenti: l’Iran finanzia Hezbollah e Hamas ed è un elemento fondamentale nel conflitto in Iraq, col suo rapporto complesso, ma sempre più forte, con gli sciiti del Paese. La Siria è l’intendenza di questo dominio iraniano, fornendogli il retroterra per passaggi di armi, denaro e uomini. Un accordo con due Stati di tale peso potrebbe dunque davvero stabilizzare la regione. Certo, più che d’improvvise conversioni alla pace, si tratta da parte di molti dell’estremo tentativo di non passare alla storia come coloro che persero la maggior guerra moderna in Medioriente. E qui non si parla solo della guerra in Iraq. Nelle file di Hezbollah in Libano e in quelle di Hamas a Gaza comincia ad attecchire il fondamentalismo di Al Qaeda e la prospettiva minaccia il controllo dell’Iran e dell’Iraq, almeno quanto minaccia le vite degli occidentali. Di fronte al peggio che arriva, è possibile che si arrivi a un’intesa finora impensabile, si ragiona a Washington e nel mondo della diplomazia. Aprire all’Iran e alla Siria significa dunque di fatto già anche reincludere Hezbollah e Hamas, per provare a frenare una loro ulteriore degenerazione. Questo è il tema del nuovo summit sul Medioriente che, a 18 mesi dalla fine della presidenza, Washington sta preparando per l’autunno; questa è la ragione per cui i Democratici visitano la Siria, guardando alle prossime presidenziali; e questo è il motivo per cui Tony Blair ha scelto proprio il Medioriente come suo nuovo impegno: l’eventualità di un nuovo grande accordo che riporti nella rete internazionale Hezbollah, Hamas, i palestinesi tutti, come primo passo per una stabilizzazione intorno a Israele e in Iraq, nella prospettiva di un ritiro anche Usa da Baghdad. Del resto, di tale accordo parlano davvero tutti: lo dicono i più avveduti (e sinceri) degli israeliani, quando sostengono che Abu Mazen e Olmert non sono sufficientemente forti da reggere da soli un nuovo accordo; lo dice la Commissione esteri del Parlamento inglese quando raccomanda a Blair di non isolare Hamas. E persino alla destra italiana più accorta - penso al Foglio - questi necessari passaggi diplomatici non sono sfuggiti, nei mesi scorsi. Eppure, se il governo di Roma parla di dialogo con Hamas, eccoci all’apriti cielo. Dovrebbe forse l’Italia fare trattative, ma senza dirlo (in uno slancio neodemocristiano?) o dovrebbe addirittura stare ferma e farsi tagliare fuori? C’è una mancanza di realismo, una sorta di paralisi intellettuale ed emotiva nel centrosinistra italiano, quando si misura con il Medioriente: a fronte dei molti che odiano Israele, c’è una seconda area politica che paga questa passione anti-israeliana di altri, obbligandosi a ripagare Gerusalemme con una passiva lealtà, anche quando non è necessaria. O quando è addirittura controproducente.
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