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Salonicco, città di fantasmi.
Cristiani, Musulmani ed ebrei tra il 1430 e il 1950 Marc Mazower
Garzanti Euro 32,00
Alessandro, che faceva le cose in grande, lasciò il proprio nome al maggiore emporio dell’antichità, quell’Alessandria che, per tutta l’età greco-romana, fu regina di traffici e inquietudini. Ma nemmeno la sua sorellastra, Thessalonike, figlia di un’altra delle mogli di Filippo il Macedone, sfigura nella storia della toponomastica: la metropoli che le fu intitolata può vantare una vicenda ininterrotta di duemilatrecento anni.
Thessaloniki, Salonique, Selanik, Solun, Solonicha, Salonicco: per quanto i suoni abbiano oscillato nel corso dei secoli, la città è rimasta in qualche modo fedele a se stessa, un varco cruciale tra i Balcani e il Mar Egeo.
Di questo crocevia tra contrastanti universi culturali, Marc Mazower racconta non solo la cronaca ma anche la mitologia, in un libro appassionato e spesso di parte. Bastano poche pagine per capire a chi vadano le simpatie dell’autore. Il cuore di Mazower batte per gli ottomani, e per la società sostanzialmente tollerante che fiorì a Salonicco sotto il governo della Sublime Porta.
Il libro ripercorre i giorni infausti tra il 1430, anno in cui la roccaforte cristiana fu costretta ad arrendersi a Murat II, e il 1950, quando Salonicco, ormai del tutto nuovamente greca, s’inoltra nella contemporaneità. La tesi di fondo del volume è polemica: il Novecento ha voluto nascondere il passato multiculturale della città, modello di una convivenza riuscita tra musulmani, cristiani ed ebrei: “La storia raccontata dai nazionalismi si basa su false continuità e comodi silenzi….”
Per recuperare le antiche radici ellenistiche e bizantine del luogo, la Grecia avrebbe operato una riscrittura falsante (soprattutto dopo l’esodo dei musulmani nel 1923) durante gli epocali spostamenti di popolazione greco-turchi. A complicare ulteriormente le cose, ci fu la progressiva disgregazione dell’elemento ebraico, fino alla deportazione in massa nel 1943, a opera dei nazisti.
Del resto, non solo la fisionomia della popolazione è cambiata radicalmente nel corso degli ultimi cento anni. Anche il profilo urbano è irriconoscibile, dopo l’incendio del 1917, che distrusse due terzi del centro storico, e gli sventramenti dei decenni successivi.
Mazower vede in Salonicco un laboratorio ideale di storiografia post nazionalista, su cui esercitare le arti del dubbio e della polisemia. E’ un’opzione legittima, ed è vero che per riportare oggi alla luce il passato europeo è indispensabile liberarsi dalla lente deformante dello sciovinismo. Molte delle pagine che lo storico inglese dedica a episodi minuti di convivenza sono interessanti e ben scritte. Sufi che chiacchierano con monaci ortodossi, mercanti ebrei che si sentono più ottomani dei turchi stessi, accanto a seguaci dello pseudo messia Shabbetai Tzevi, che vivono a metà tra fede ebraica e credenze musulmane, e intanto preparano, di nascosto, la rivoluzione laica: tutti questi frammenti restituiscono, almeno per un attimo, una dimensione plurietnica, oggi quasi impensabile.
Eppure si ha l’impressione che, a volte, Mazower trascuri il compito ingrato del bastian contrario . Il serio professore della Columbia University sembra essere rimasto ancora un po’ il giovanotto idealista con zaino d’ordinanza che – come lui stesso racconta – arrivò nella polverosa città greca verso la metà degli anni Ottanta, facendosi largo tra “i banchetti traboccanti di fichi del mercato”.
Il codice politicamente corretto del multiculturalismo rischia insomma, a sua volta, di costruire un mito pittoresco del passato, che non ci aiuta a capire fino in fondo perché la società ottomana sia naufragata sotto il peso delle sue stesse contraddizioni,
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore
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