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Il Manifesto Rassegna Stampa
11.08.2007 Quanto contano i bisogni dei palestinesi per Hamas ?
una domanda che Michele Giorgio non si pone

Testata: Il Manifesto
Data: 11 agosto 2007
Pagina: 11
Autore: Michele Giorgio
Titolo: «Prigionieri a Gaza, sotto embargo - Il ricordo di Angelo Frammartino»
Secondo Michele Giorgio gli israeliani dovrebbero permettere l'ingresso dei lavoratori palestinesi da Gaza,  aprire i valichi che i terroristi utilizzano per infiltrarsi o minacciano con attentanti e lanci di missili,   finanziare il governo di Hamas.
Se non lo fanno significa che per "Tel Aviv" "conta più il fallimento politico di Hamas che i bisogni di un milione e mezzo  di civili palestinesi".

La realtà, naturalmente, è diversa. Per il governo israeliano conta la sicurezza dei suoi cittadini.
Ai bisogni di "un milione e mezzo di civili palestinesi" dovrebbe pensare innazitutto il governo palestinese, vale a dire, a Gaza, di fatto, Hamas. Per farlo, dovrebbe abbandonare la sua politica di guerra. 
Al contrario, il gruppo islamista  non ha smesso di perseguire la distruzione di Israele, non ha posto fine ai lanci di razzi kassam, non ha rinunciato al terrorismo.
Ha anche operato positivamente per peggiorare le condizioni di vita dei palestinesi a Gaza: vietando l'importazione di frutta e verdura israeliana a Gaza e bombardando i valichi di passaggio per obbligarli alla chiusura.

Ecco il testo:

Attraversare il valico di Erez, tra Israele e Gaza, è come passare dalla terra alla luna. Giungendo dal terminal israeliano, moderno e tecnologico, si finisce all'improvviso in un paesaggio lunare, fatto di crateri e macerie. Il versante palestinese ora è solo tratto di strada di circa 500 metri, non asfaltata e polverosa, che alcuni giovani di Gaza (autorizzati da Israele), per qualche dollaro, percorrono piegati sotto il peso dei bagagli dei rari viaggiatori che arrivano da quelle parti. Un percorso tra cumuli di detriti ed edifici distrutti. Dopo la conquista di Gaza da parte di Hamas, due mesi fa, ci pensò un'orda di saccheggiatori palestinesi a devastare il terminal: riuscirono a portare via tutto quello che lasciava immaginare un minimo di utilità, arrivarono a bucare il pavimento di cemento del tunnel principale per appropriarsi del rame contenuto nei fili elettrici. A dare il colpo definitivo e più devastante è stato però Israele.
I suoi carri armati e bulldozer hanno raso al suolo tutto quello che era più alto di un metro. Motivo ufficiale: non offrire ai militanti palestinesi, specie quelli di Hamas, la possibilità di trovare nascondigli e ripari da dove aprire il fuoco contro le postazioni dell'esercito. A Gaza replicano che, più semplicemente, gli israeliani hanno voluto impedire che la Tanfisiye (la Forza esecutiva di Hamas) prendesse possesso del terminal dove fino a due mesi fa operava una unità della guardia presidenziale di Abu Mazen.
Nessuno penserebbe mai a Gaza come un luogo per trascorrervi una vacanza. Eppure passeggiando sul lungomare, in questi giorni si respira l'atmosfera tipica dell'estate di una qualsiasi spiaggia del Mediterraneo. Ragazzi e bambini che si spostano come stormi di uccelli, si divertono giocando in riva al mare. Famiglie che si riparano dal sole sotto enormi ombrelloni. In serata quelli che possono permetterselo ne approfittano per organizzare una grigliata con gli amici per poi raggiungere i caffé sulla spiaggia per fumare il narghile. Scene così non si vedevano da almeno due-tre anni. «A Gaza è tornata la tranquillità che avevamo perduto. In strada non ci sono più miliziani armati, non si spara più, la criminalità è sparita», spiega Samer Kafarna, un commerciante di Beit Hanun.
Anche gli stranieri che lavorano nella Striscia, in maggioranza per le agenzie dell'Onu e le Ong, sono tornati a respirare. Possono andarsene in giro tranquilli, senza temere rapimenti politici o a scopo di estorsione, un problema rimasto senza soluzione per anni.
Tuttavia non è oro tutto quello che luccica. Hamas al potere commette abusi e violazioni, anche se non sono paragonabili a quelli di cui si stanno macchiando in Cisgiordania, per rappresaglia, i servizi di sicurezza fedeli ad Abu Mazen. La milizia del movimento islamico ha compiuto arresti indiscriminati tra gli attivisti della fazione rivale Fatah e la gente riferisce casi di pestaggi. Un detenuto è morto in carcere, per le percosse subite. Notizie che suggeriscono a molti di non parlare di politica in pubblico. «Devo ammettere che sono molto felice che Hamas abbia cacciato via i dirigenti corrotti di Fatah e dei servizi segreti. Erano una piaga che affliggeva il nostro popolo ma allo stesso tempo non posso chiudere gli occhi di fronte alla realtà nata dopo i combattimenti di giugno: a Gaza ora c'è il partito unico e in futuro Hamas potrebbe avere la mano pesante con dissidenti e oppositori. I palestinesi credono nel pluralismo delle idee, nel rispetto delle culture diverse e l'atteggiamento di Hamas non ci fa ben sperare», ci dice lo psichiatra Iyad Sarraj, esponente di primo piano della società civile di Gaza.
La riappacificazione tra Fatah e Hamas e il recupero dell'unità nazionale contro i progetti dell'occupazione israeliana è la soluzione di cui parlano gran parte degli abitanti di Gaza che, allo stesso tempo, chiedono la fine dell'isolamento politico ed economico attuato da Israele e dai paesi occidentali, con il tacito assenso di Abu Mazen e del governo ad interim di Salam Fayyad.
La crisi economia si aggrava di giorno in giorno. Due mesi di embargo sono costati decine di migliaia di posti di lavoro, in gran parte nel settore dell'industria. Si trattava di una occupazione precaria, sfruttata e sottopagata, ma che rappresentava il polmone dell'economia della Striscia, già duramente colpita dalla fine del lavoro pendolare di migliaia di manovali che ogni giorno si recavano in Israele. Mohammed Abu Shanab, presidente dell'Unione delle industrie tessili, ci legge un rapporto che assomiglia a un bollettino di guerra. «A Gaza ci sono 664 fabbriche tessili - dice sfogliando un malloppo di carte - si tratta di piccole imprese ma che danno lavoro a 25mila uomini e donne. Gli stabilimenti ora sono chiusi perché non è più possibile esportare in Israele, il nostro principale mercato. Solo una dozzina di fabbriche sono ancora aperte, perché stanno preparando le divise scolastiche per gli scolari che a settembre torneranno in aula». La chiusura di Karni è un danno anche per decine imprenditori israeliani. Ogni mese dalle fabbriche tessili di Gaza escono quattro milioni di pezzi, in buona parte articoli sportivi, che vengono comprati e venduti a prezzi più alti anche di dieci volte nei negozi Tel Aviv o esportati. Un rapporto tutto sbilanciato dalla parte di Israele, ma che ha consentito, nel corso di decenni, ai palestinesi, padroni e operai, di sviluppare qualità e professionalità. «Queste doti ci hanno consentito di conservare la quota di mercato (israeliano) nonostante l'offensiva cinese», dice Abu Shanab.
Al premier israeliano però non piacciono le tute sportive della Diadora cucite alla perfezione in sottoscala e scantinati, da donne palestinesi pagate meno di 100 euro al mese (gli uomini guadagnano il doppio). Israele è disposto a subire perdite economiche pur di affossare Hamas, linea che certo non dispiace al governo Fayyad. Hisham Iwani, presidente dell'Associazione delle industrie del legno, fa di tutto per non entrare in questioni politiche ma qualche considerazione non riesce proprio a trattenerla «Non possiamo esportare. Su oltre 600 fabbriche e botteghe artigiane - ci riferisce - ne rimangono aperte meno del 10%. A pagare sono soprattutto i 6 mila operai che hanno perduto il lavoro. Nonostante ciò non si muove nulla. Il governo (Fayyad) non fa abbastanza per aiutarci mentre quello di Hamas (a Gaza) è impotente». In soli due mesi, l'isolamento totale di Gaza ha già avuto conseguenze pesanti. Due giorni fa l'Unrwa, l'agenzia dell'Onu per i profughi palestinesi, ha chiesto la riapertura immediata del valico commerciale di Karni. Il suo vice commissario generale, Filippo Grandi, ha avvertito che Gaza rischia di divenire al 100% dipendente dagli aiuti esterni. Ma per Tel Aviv (e Ramallah) conta più il fallimento politico di Hamas che i bisogni di un milione e mezzo di civili palestinesi

Il MANIFESTO presenta anche la versione politicamente corretta della morte di Angelo Frammartino, non più scambiato per ebreo (come avvenne nella realtà), ma per "colono".

Verrà scoperta oggi, nella sede dell'associazione palestinese "Laqlaq", nella Città Vecchia di Gerusalemme, una targa in ricordo di Angelo Frammartino, il giovane di Monterotondo (Roma) ucciso con una coltellata un anno fa nella zona araba di Gerusalemme da un ragazzo giunto da Jenin (Cisgiordania) che lo aveva scambiato per un colono israeliano e che nelle scorse settimane è stato condannato all'ergastolo. Alla cerimonia saranno presenti anche Michelangelo e Silvana Frammartino, i genitori del giovane che doneranno attrezzature sportive al centro "Laqlaq", dove Frammartino stava svolgendo un periodo di volontariato quando venne ucciso. Parteciperanno anche rappresentanti della Cgil e dell'Arci. Ieri pomeriggio invece è stata inaugurata in suo ricordo una sala attrezzata con computer nel Media Center di Betlemme. Domani Michelangelo e Silvana Frammartino incontreranno una delegazione del "Parents Circle", una associazione di vittime israeliane e palestinesi del conflitto in Medio Oriente

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