Il "ricatto" di Israele ad Hamas inventato da Saad Kiwan, sul quotidiano della Margherita
Testata: Europa Data: 10 agosto 2007 Pagina: 6 Autore: Saad Kiwan Titolo: «Nell’impossibilità di un vincitore, la pace come male minore»
Da EUROPA del 10 agosto 2007, un articolo di Saad Kiwan.
Una conferenza di pace in Medio Oriente ? L'Arabia saudita sarebbe disposta a pertecipare, a patto che Israele fosse "disponibile". Un accordo bilaterale tra israeliani e palestinesi ? Ehud Olmert ha sempre rifiutato"un accordo per una soluzione definitiva". Vale la pena di ricordare che l'unica cosa che Israele rifiuta è un negoziato con un esito predeterminato, concepito come un diktat.
Tuttavia, non è in questi passaggi la più evidente distorsione dell'articolo. Scrive ancora Kiwan a proposito di una possibilità di accordo israelo-palestinese: "Olmert userebbe l’accordo per ricattare Hamas, minacciando di invadere Gaza con la determinazione di porre fine al lancio di missili su Israele, liberare il soldato israeliano rapito da Hamas nel giugno 2006 e rafforzare la sua leadership."
Dunque, per Kiwan, non è Hamas che ricatta Israele con il sequestro di Gilad Shalit e i lanci di kassam. E' Israele che progetta di ricattare Hamas con... un accordo di pace con Abu Mazen.
Ecco il testo:
In Medio Oriente l’impasse e il disordine stanno diventando sempre più pericolosi. In Iraq il governo si sta sgretolando, dopo che i sunniti del Fronte per la riconciliazione hanno deciso di abbandonare Nouri al-Maliki, seguiti dalla Lista irachena, formazione sciita dell’ex primo ministro Iyad Allawi. E ora l’ex primo ministro Ibrahim al-Jaafari, leader di uno dei due principali partiti sciiti iracheni, il Partito ad-Daawa, si prepara a annunciare un nuovo raggruppamento politico, non più sciita, bensì interconfessionale. Tutto questo mentre continua la strage quotidiana di cittadini innocenti. In Palestina, le lotte fratricide tra al- Fatah, guidata dal presidente dell’Autorità palestinese Mahmud Abbas e il gruppo integralista Hamas, guidato da Khaled Meshaal, residente a Damasco, stanno dissanguando gli abitanti dei territori occupati da quando, nel giugno scorso, Hamas ha imposto con la forza la sua legge nella striscia di Gaza. In Libano, infine, regna una calma apparente in attesa di un temutissimo vuoto istituzionale, che potrebbe determinarsi se entro il prossimo settembre non si riuscisse a raggiungere un accordo sul nuovo presidente della repubblica. Le tre crisi dipendono ormai da iniziative arabe, regionali e/o internazionali. Tanto per cominciare dagli incontri di questi giorni a Bagdad tra americani, iraniani e iracheni che stanno cercando di trovare rimedi per portare un po’ di sicurezza in Iraq, dove gli Stati Uniti hanno già perso oltre 3700 marine. Mercoledì nella capitale siriana si è svolto per la prima volta un incontro tra esperti, cui ha partecipato anche una delegazione Usa. Un incontro che ha suscitato poche speranze, visto che il sottosegretario per il Medio Oriente David Walsh, pur garantendo che nulla sarà lasciato intentato, si è mostrato poco fiducioso sull’atteggiamento degli iraniani. Anche in Libano, superato il test elettorale di domenica scorsa, le attenzioni e le speranze sono rivolte adesso verso una ripresa della mediazione araba (o quella congiunta arabo-francese) per riportare di nuovo la maggioranza e l’opposizione sciita- filosiriana al tavolo del dialogo. La parte araba (Arabia Saudita ed Egitto) fanno leva sulla recente disponibilità dell’Iran, che sembra disposto a un compromesso con il Libano, sperando di facilitare così una distensione con gli Stati Uniti. Da parte sua, invece, Fouad Siniora e la sua maggioranza sperano che la mediazione congiunta possa portare a un ammorbidimento della Siria e dei suoi alleati sciiti. Il capitolo più difficile resta quello palestinese. Su questo fronte la diplomazia si sta muovendo su due livelli apparentemente separati: un possibile accordo israelianopalestinese, sul modello di quello firmato nel 1993 a Oslo tra l’Olp di Yasser Arafat e il governo israeliano dell’allora primo ministro Yitzhak Rabin. Oppure una nuova conferenza internazionale, proposta per il prossimo autunno dal presidente Usa George Bush. I termini di questa conferenza sono ancora da definire, ma tutte le parti arabe interessate hanno espresso la loro disponibilità. Unici nodi da risolvere: quello della Siria che l’amministrazione Bush non vorrebbe al tavolo della conferenza, e quello dell’Arabia Saudita che si dice favorevole alla conferenza soltanto se le condizioni del suo successo fossero realizzate già in anticipo. A cominciare dalla reale disponibilità di Israele. Nel frattempo, però, sembrerebbe che palestinesi e israeliani stiano lavorando dietro le quinte per un accordo bilaterale. Pochi giorni fa Abu Mazen ha dichiarato al quotidiano israeliano Maariv che bisogna trovare un accordo finale con gli israeliani, per poi procedere a una sua graduale applicazione. Da parte sua, il primo ministro israeliano Ehud Olmert è stato un po’ più sfumato, affermando al quotidiano Haaretz che vorrebbe una «dichiarazione di principi» che fissasse i termini di un successivo «compromesso finale», oggetto poi di un’applicazione progressiva. Il neo presidente israeliano Shimon Peres è stato più esplicito e ha parlato di uno stato palestinese in Cisgiordania. Questo avvicinamento non era possibile prima del colpo di mano di Hamas a Gaza, visto che il presidente dell’Autorità palestinese aveva sempre rifiutato le soluzioni di transizione, compresa quella di uno stato con confini non definiti una volta per tutte. Abu Mazen aveva sempre insistito per un accordo sulle questioni fondamentali e su una sua applicazione a breve scadenza. Lo stesso si può dire di Olmert, che aveva sempre rifiutato un accordo per una soluzione definitiva, respingendo perfino i tentativi del segretario di stato Usa, Condoleezza Rice, che ultimamente aveva cercato di convincerlo ad accettare una «dichiarazione di principi». Nel frattempo, però, Abu Mazen si rifiuta di riprendere ogni dialogo con Hamas, sembrandogli il momento opportuno per strappare un accordo al quale il movimento integralista si è sempre opposto. Da parte sua, Bush vuole sfruttare la rottura tra Abu Mazen e Hamas per realizzare, prima della fine del suo mandato, un successo finora impossibile. Un’intesa che l’Autorità palestinese, oggi più debole di prima, non è in grado di rifiutare. Un accordo che, ragiona Bush, costringerebbe i paesi arabi a sostenere la politica degli Usa nella regione, in particolare in Iraq e nei confronti dell’Iran, se si dovesse ricorrere alle armi. Un accordo tra palestinesi e israeliani che incoraggerebbe gli arabi moderati – preoccupati dal peso crescente di Teheran – a schierarsi con Washington. Da parte sua, poi, Olmert userebbe l’accordo per ricattare Hamas, minacciando di invadere Gaza con la determinazione di porre fine al lancio di missili su Israele, liberare il soldato israeliano rapito da Hamas nel giugno 2006 e rafforzare la sua leadership. La conferenza internazionale, così, potrebbe servire da pretesto per far passare un accordo “Oslo-2” sul modello di quello raggiunto dopo la prima conferenza di Madrid (1991) sul Medio Oriente.
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